IL Feudalesimo: Nascere, crescere e vivere nel Medioevo -

PUBBLICATO SU Vestioevo 10/06/2014

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La vita era molto dura nel Medioevo. Pochissime persone sapevano leggere o scrivere. La gente pensava che il destino avesse stabilito la loro esistenza; pertanto, c’era poca speranza di migliorare la propria condizione.
Durante gli anni dell’Impero Romano, i poveri erano protetti dai soldati dell’imperatore. Quando l’impero cadde, non c’erano leggi a proteggerli, così si rivolsero ai signori per mantenere la pace e agire per loro conto. Questa volontà di essere governati da signori ha portato al “Feudalesimo”.
Alcuni contadini erano liberi, ma la maggior parte diventarono servi dei signori. Ciò significava che erano tenuti a restare in quella terra e a pagare un affitto molto alto al signore. L’unica speranza che molte persone avevano, era la loro convinzione che il cristianesimo avrebbe reso la loro vita migliore, o almeno che la vita in cielo sarebbe stata meglio che quella terrena.
Nell’ambito del sistema feudale tipico del Medioevo, tutti, a parte il Re, avevano sopra di loro un signore al quale dovevano lealtà e servizio in cambio di terra e protezione. Il re assegnava ai nobili concessioni di terra, chiamati “feudi” e, talvolta, alla chiesa in cambio dell’utilizzo dei soldati e della loro influenza sui cittadini per proteggere la terra.
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Per la sicurezza e per la difesa, i contadini nel Medioevo formarono piccole comunità intorno al feudatario. La maggior parte delle persone vivevano in un “Maniero”, che comprendeva il castello, la chiesa, il villaggio e i terreni agricoli circostanti. Questi manieri erano isolati, con visite occasionali da ambulanti, pellegrini o soldati da altri feudi.
La vita familiare era governata dalle classi sociali più alte. I nobili avevano lo status più elevato. Essi possedevano la maggior parte delle ricchezza e della terra.
Chi faceva parte del clero poteva essere ricco o povero, a seconda del titolo e dell’influenza che aveva sul popolo.
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I Monaci insegnavano ai ragazzi, di ricche famiglie nobili, a leggere e a scrivere in latino. Alcuni ragazzi provenienti da famiglie benestanti venivano istruiti privatamente. Gli studenti iniziavano l’apprendimento con le sette arti liberali: grammatica latina, retorica, logica, aritmetica, geometria, astronomia e musica.
Le ragazze non potevano usufruire di questa educazione.
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I figli dei poveri passavano il loro tempo a lavorare i campi e si dedicavano alla cura della casa. L’importante era imparare a sopravvivere nella società feudale.
Quando si parla di Medioevo, si parla anche di schiavitù; c’erano persone le cui vite erano governate dai loro signori.
In genere erano contadini che erano conosciuti come servi della gleba e vivevano generalmente in comunità governate dai nobili locali. Non potevano lasciare il maniero o addirittura sposarsi senza il permesso del signore. I servi della gleba svolgevano tutto il lavoro in masseria.
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Nel Medioevo la conoscenza medica era molto limitata; pertanto, l’assistenza sanitaria era generalmente dominata da miti, dal folklore e dalla superstizione. La gente credeva che i cattivi odori causassero malattie e che alcune malattie fossero il risultato di “peccati dell’anima.” A volte la chiesa dichiarava che le malattie erano punizioni di Dio e che i malati erano così perché peccatori. L’uso di sanguisughe per “salasso” era una pratica comune per curare le malattie.
Alcuni credevano che la luna e le stelle, così come la loro astrologia, causassero malattie.
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Cose molo importanti nel Medieovo erano la musica e l’arte; queste erano influenzate dalla chiesa. Le persone cantavano con e senza strumenti.
I nobili si appassionarono a giochi come scacchi, dama e dadi, i contadini invece giocavano a sport più all’aria aperta come il calcio.
Città o manieri spesso avevano festival che comprendevano giullari, tornei abbinati con cavalieri in giostre e combattimenti, sport di vario genere attivati attraverso competizioni.
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Vita quotidiana nel medioevo


Il suono delle campane segna l’inizio della giornata con la prima alle sei di mattina; nelle case, la gente si sveglia, si fa tre volte il segno della croce, si veste completamente, e lava ciò che resta scoperto, le mani e il viso. L’abitudine dell’antichità romana di prendere un bagno quotidiano si era ormai persa, alla pulizia del corpo si era ormai sostituita la pulizia della biancheria; i bagni pubblici, luogo tipico degli incontri amorosi e della prostituzione, sono ormai poco numerosi (Parigi nel 1292 ne contava ventisei per duecentomila abitanti), il bagno si fa solo se sporchi per motivi particolari o dopo un lungo viaggio con la tinozza per il bucato.

I vestiti sono: la camicia, indumento comune a uomo e donna, di lino, cotone, lana o seta per i più abbienti, con le maniche lunghe, accollata ma senza colletto; quella femminile arriva fino a terra, quella maschile a mezza gamba. Se non escono di casa, le donne delle classi agiate sopra la camicia indossano un’ampia veste da camera di lino o seta e d’inverno una giacca di ermellino. Uomini e donne sopra la camicia indossano una veste abbottonata e chiusa da lacci, quella maschile fino a mezza gamba quella femminile fino a terra. Sotto la veste gli uomini portano brache di stoffa leggera, lino o tela, e un secondo paio più pesante (di qui i detti “calare le brache” o “rimanere in brache di tela”). 

Ogni veste femminile è provvista di un certo numero di maniche di diversa foggia, colore e stoffa, da indossare a seconda dell’occasione e della stagione (da cui il detto “è un altro paio di maniche”). 

Dal VI-VIII secolo si usano tuniche di lana di foggia germanica D’inverno ci si protegge con una seconda veste della sessa lunghezza della prima e con mantelli di feltro o pelliccia (volpe, zibellino, ermellino, martora, lince, castoro, orso, lontra, faina, coniglio, talpa, agnello, tasso) per le classi più abbienti. 

Dal XIII secolo entrano in uso le calze di lana, lavorate ai ferri dalle donne di casa, talora anche suolate; durante il primo millennio invece si usavano fasce per proteggere le gambe, diventate poi pantaloni da lavoro e brache. Se non si indossavano calze suolate si usavano stivaletti o stivali, le donne pantofole, zoccoli o scarpe con suole o vere e proprie zeppe di sughero.

Le case sono per lo più a due o più piani collegati da scale di legno, la camera da letto occupa i piani superiori; quelle del ceto agiato hanno la facciata che dà sulla strada principale talora protetta da un porticato, a piano terra si trovano l’eventuale bottega e il granaio, sul retro il cortile, l’orto, la stalla, il ripostiglio, il fienile, il pollaio, la porcilaia, il forno, la legnaia, i fontanili per il bucato. A pianterreno si hanno quindi la cucina, con il focolare sul fondo, la dispensa, la sala da pranzo e, nelle case degli artigiani, la bottega, tutt’uno con la casa. Le stanze residenziali della famiglia cioè il soggiorno o sala da pranzo, al primo piano, sono costituite da un solo ambiente suddiviso da paratie i legno e da tendaggi. Le camere da letto occupano i piani superiori e vi si accede tramite una scala interna mentre talora alla sala da pranzo si accede per una scaletta esterna.

Il mobilio è scarso e pesante: nel soggiorno spesso anche ingresso e cucina, si trovano oltre al focolare un tavolo dove si preparano le vivande e si mangia; la madia in cui si conservano vari tipi di pentole e utensili; alcune panche. Nelle camere da letto si hanno una cassapanca per i vestiti, la biancheria e le pergamene di casa (i preziosi e il denaro erano custoditi in uno stipo bene ferrato e chiuso); un letto di grandi dimensioni con un pagliericcio e cuscini di piume, in cui dormivano più persone, mancando totalmente uno spazio differenziato (anche negli alberghi gli ospiti dormivano tutti in grandi stanze e i servi ai piedi del letto dei loro padroni) spesso sovrastato da immagini sacre, a volte una scranna. 

I bagni sono loggette sporgenti con un sedile che si apre su un canale, su un fossato che viene tenuto ben fornito di cenere o su un vicolo (a differenza della città romana infatti la città medievale è priva di una rete fognaria); mancano i lavabi, si usano treppiedi di ferro o legno poggiati a terra o al muro a sostegno di catini e brocche.

La giornata inizia con la Messa; la religione è parte integrante della vita medievale, tutti condividevano la stesa visione dei destini dell’uomo e dell’universo, anzi, il soprannaturale non era sentito distinto dalla vita terrena ma ne faceva parte, come la città antica sorgeva nel momento in cui venivano riconosciute le sue divinità ed era considerata un patto tra dei e uomini, in modo analogo nel Medioevo il mondo sensibile è popolato da presenze divine che intervengono continuamente. Guerre, carestie e pestilenze sono punizioni divine o opera dei demoni, la pioggia di ghiaccio era considerata opera dei demoni che vivevano nello strato d’aria intermedia fra quella chiara e tiepida vicino alla terra e quella caldissima più vicina al sole (così spiegava ad esempio il domenicano Giordano da Pisa in una sua famosa predica). Contro tutti questi pericoli era necessario prendere provvedimenti, recarsi spesso in Chiesa, una messa era considerata un’azione valida per scongiurare una malattia o far concludere un affare non meno di una medicina o di un viaggio, partecipare alle processioni, assistere alle sacre rappresentazioni, fare un pellegrinaggio. Le autorità civili si preoccupavano di garantire la concordia con Dio; speciali provvedimenti ordinavano affreschi rappresentanti la Vergine e i Santi lungo le mura o presso le porte raccomandandosi che fossero resistenti e di buona qualità; le campane venivano benedette e fatte suonare per scacciare gli eserciti nemici e gli altri mali opera del demonio, come la grandine, le tempeste e i fulmini.

Il popolo per proteggersi usava spesso amuleti e talismani perlopiù con immagini dei Santi, Sant’Agata contro le forze incontrollabili della natura, San Cristoforo e San Giuliano che proteggevano i viandanti e i pellegrini erano particolarmente invocati in caso di viaggio o anche di una semplice permanenza fuori dalle mura della città.
Avventurarsi per una strada esterna significava infatti mettere a rischio la propria vita; assalti di briganti, squadre di armati e anche animali feroci erano all’ordine del giorno.

La morte improvvisa e violenta senza potersi liberare dai peccati con la confessione, pentimento, penitenza e opere pie e che portava quindi dritti all’inferno, era la vera e propria ossessione dell’uomo medievale. Ecco perché così spesso si trova l’immagine di San Cristoforo, protettore dei traghettatori, dei viaggiatori e dei mercanti, sugli amuleti, cucita sui vestiti, dipinta sugli oggetti più vari e anche dipinta e di grandi dimensioni in modo che sia visibile anche da lontano su mura e palazzi, si credeva infatti che la sola vista dell’immagine del santo proteggesse dai pericoli.

Nonostante i pericoli tuttavia il viaggio è una delle necessità della vita medievale; non esistendo nessuna tecnica di conservazione dei cibi ogni giorno una gran quantità di vettovaglie devono essere trasportate in città dalle campagne. Gli spostamenti sono lenti e difficili, le grandi strade romane non sempre si sono conservate; durante i viaggi si procede a cavallo e in carrozza con frequenti cambi di cavalcature e soste, ma spesso è necessario muoversi a piedi ad esempio in prossimità dei passi montani. A cavallo o in carrozza non si percorrono più di 15-20 kilometri al giorno, 50 se il territorio è pianeggiante e la strada particolarmente agevole. 

Per il trasporto delle merci il traffico si svolge di preferenza per via fluviale, utilizzando barche e sfruttando venti favorevoli e correnti o se non è possibile utilizzando i remi. Se il fiume è povero d’acque si trainano le imbarcazioni da terra legandole a muli, buoi o cavalli. Particolarmente temuto è il viaggio per mare, detto non a caso periculum, al quale si ricorre in occasione di pellegrinaggi o azioni militari

Finita la messa mattutina, verso le sei del mattino, la giornata comincia; si fa una prima colazione, una seconda si fa all’ora terza verso le nove, e ci si reca al lavoro.
Gli artigiani aprono la loro bottega, i medici iniziano il loro giro, gli strilloni iniziano a percorrere le strade della città annunciando il carro del merciaio ambulante, gli ortolani escono verso la campagna, le massaie danno gli ordini alle serve o alle figlie per la cucina, il bucato e le altre faccende.
Le strade cittadine iniziano ad animarsi, animali domestici passano indisturbati, gli artigiani e i mercanti espongono la loro mercanzia, gran parte dei lavori si svolgono all’aperto, le botteghe comunicano con la strada e così le case. 

In strada si può acquistare di tutto: il pesce, tenuto in apposite vasche, carne, esposta sul banco del macellaio sotto la loggia o presso la sua bottega dove fanno bella mostra anche insaccati e carne secca appesi a stanghe appoggiate alle mensole sulla facciata, la verdura, il pane, ma anche mobili, utensili da cucina, attrezzi, stoffe, scarpe, calze suolate, sparsi al suolo o sui banchi degli artigiani presso le loro botteghe.

Ad animare le strade provvedono poi strilloni pubblici, banditori e messi del Comune, uomini che trattano i loro affari per le vie e le piazze, mercanti che vengono da altre terre.

Ogni giorno una gran quantità di persone e merci entrano in città; vista l’impossibilità di conservare i cibi, ogni giorno verdure, carni, selvaggina e altro devono essere trasportati dentro le mura dalla campagna.

Per le strade si possono incontrare poi folle di poveri e mendicanti che vivono di elemosina; era facile diventare poveri, bastava un raccolto andato male, una malattia, una frattura che rendeva storpi, per una donna la morte del marito o del padre; anche dementi e pazzi, chiamati spesso indemoniati, vivevano di elemosina. 

La Chiesa invitava a soccorrere gli indigenti ma non ci interrogava né si interveniva sulle cause del fenomeno, anzi riteneva che l’esistenza dei poveri fosse voluta da Dio per permettere ai ricchi di fare il bene necessario a cancellare molti peccati. 

Esclusi dalla città erano invece i lebbrosi, costretti a muoversi con sonagli e campanelli che segnalassero la loro presenza e permettessero agli altri di allontanarsi al loro arrivo. La Chiesa certo incitava alla carità facendo leva sul luminoso esempio dei Santi; è proprio narrando il suo incontro con un lebbroso che San Francesco inizia il suo Testamento, ma spesso i poveri e gli emarginati erano sentiti come un peso dalla comunità, talora venivano addirittura cacciati dalla città e lasciati al loro destino.

Altro spettacolo pubblico a cui si poteva assistere per le strade e nelle piazze era la pubblica punizione dei criminali che spesso venivano portati in giro per le vie della città ed esposti agli insulti degli astanti per essere di monito alla popolazione; i sodomiti erano bruciati sul rogo, i ladri erano frustati messi alla gogna e marchiati a fuoco sulle guance, i bestemmiatori erano frustati e trascinati per la città con una tenaglia alla lingua, gli omicidi erano trascinati legati alla coda di un mulo o di un cavallo e infine impiccati e così i traditori e i turbatori della pace pubblica.

Le punizioni infernali che spesso si vedono rappresentate nelle pitture sono rappresentazioni delle vere torture alle quali erano sottoposti i criminali. Lo scopo delle immagini particolarmente paurose era anche in questo caso quello di imprimere nelle menti il terrore per il destino di dannazione che spettava ai peccatori.

Sempre all’aperto e soprattutto nelle piazze cittadine si ascoltavano le parole dei predicatori, ma anche le storie e i canti dei giullari che narravano le avventure dei cavalieri e dei paladini, ma anche le vite dei santi, altrettanto avventurose ed “eroiche”, gli spettacoli dei saltimbanchi con i loro giochi di prestigio, le bestie ammaestrate.

Anche un funerale poteva diventare una sorta di spettacolo pubblico; se il defunto era degno di particolari onori poteva essere salutato da una processione con bandiere e cavalli bardati, uomini e donne di tutte le classi nei loro abiti migliori, la dipartita era prima annunciata dai gridatori dei morti a cavallo, seguiva poi un grande pranzo nella casa del lutto e poi il rito funebre, con costi e numero di partecipanti variabile a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.
Tutto questo non deve stupire anche perché la morte faceva parte dell’esperienza quotidiana molto più di quanto ne sia parte oggi; la mortalità infantile era altissima (dal 10 al 20% dei bambini moriva entro il decimo anno d’età), quasi ogni donna prima o poi passava per l’esperienza della perdita di un figlio e molto alta era anche la morte per il parto o le sue conseguenze, un uomo di sessant’anni era considerato vecchissimo.
Ai medici si ricorreva di rado, solo in casi estremi, la spesa era infatti ingente. La diagnosi poi, per lo più incomprensibile per l’ammalato e la sua famiglia e adornata di belle parole, non si basava sull’osservazione del corpo, ma sulle nozioni apprese dai libri (le prime dissezioni anatomiche furono eseguite a Bologna alla fine del XIII secolo, e solo gli anatomisti del Rinascimento modificarono veramente le concezioni medievali), nozioni che a loro volta si basavano sul sapere antico, sugli antichi trattati di Ippocrate o Galeno accessibili solo tramite traduzioni spesso fuorvianti; spesso i medici (come anche i copisti che glossavano i manoscritti) giungevano al significato di un termine dall’etimologia, secondo il principio tutto medievale per il quale i nomi sono conseguenza delle cose (nomina sunt consequentia rerum) e visto che il medioevo non conosceva il greco antico spesso la stessa etimologia era sbagliata o anche inventata ad hoc. Né deve stupire che un’epoca gerarchica e teocentrica come quella medievale si cercassero nella Sacra Scrittura risposte anche a questioni mediche vedendo, ad esempio, gli organi del corpo femminile, come “progettati” da Dio al solo fine di procreare, unica finalità assegnata alla donna dal Creatore e dalla Scrittura.
Gli unici gesti che i medici compivano era tastare il polso del paziente ed osservare le sue urine in un vaso di vetro. I rimedi consigliati erano perlopiù salassi o, per chi le conosceva si ricorreva alle erbe medicinali, note ad esempio, attraverso l’Herbarium di Lucio Apuleio riferito da Plinio. Anche per questo i medici erano spesso vittima dell’ironia dei novellieri e degli artisti.
Una preghiera era spesso considerata più utile del consiglio di un medico; gli stessi farmacisti erano bene consapevoli del limite dei loro rimedi, infatti nelle botteghe di farmacisti e speziali si potevano trovare ex-voto di cera, che rappresentavano la parte del corpo guarita grazie all’intercessione di un santo e che il fedele deponeva sulla tomba del protettore in segno di riconoscenza.
Ma rimedi e pozioni veri e propri erano monopolio delle donne; costrette a vivere chiuse in casa e uniche responsabili della salute dei figli erano “funzionalmente” costrette ad imparare le virtù delle erbe e tramandare la conoscenza alle loro figlie. Spesso sono le donne ad intervenire con pratiche di tipo medico su molte malattie femminili; le donne assistono i parti, praticando talora anche tagli cesarei, specialmente se la madre muore durante il parto prima che il bambino sia uscito dal suo ventre, accudiscono il neonato e se necessario gli somministrano medicine.
Inutile dire che dalla medicina alla stregoneria il passo è breve. Molte donne venivano accusate di fabbricare unguenti magici e compiere malefici soprattutto nei confronti di bambini piccoli; se un bambino non cresceva, perché gracile o malato, poteva essere ritenuto uno “scambiatino” cioè un bimbo che era stato sostituito dal diavolo con una creatura infernale destinata a non cambiare mai. Lo sfortunato bimbo poteva essere sottoposto a crudeli riti volti a costringere il diavolo a riportare il bimbo rapito. La mortalità infantile era altissima, così come la malnutrizione e le malattie che ne erano conseguenza, per questo si trovavano spiegazioni e capri espiatori di ogni sorta; naturalmente il diavolo si prestava bene in ogni evenienza.
Sempre alle donne spettava poi naturalmente la cura della casa; pensare al fuoco, accenderlo era un’operazione lunga e complessa, bisognava preparare un’esca adatta, battere la pietra focaia sull’acciarino fino ad ottenere una scintilla e ravvivarla soffiando con una cannuccia. Una volta ottenuto il fuoco era necessario mantenerlo; se le braci si spegnevano era più facile andare da una vicina e chiederle di poter avvicinare al suo focolare uno straccio per poi poter accendere il proprio. La stessa cura era riservata alle braci che ogni sera dovevano essere coperte di cenere per non provocare incendi e per essere ritrovate la mattina successiva. Anche l’acqua era tanto necessaria quanto faticosa da ottenere; i privilegiati avevano un pozzo proprio a cui attingere, in alcune case nobiliari era presente addirittura attingere l’acqua sul ballatoio di ogni piano da una finestra che dava accesso a pozzo, il popolo invece doveva ricorrere alle fontane pubbliche o ai pozzi comuni dei quartieri. Ogni tipo di faccenda era quindi infinitamente più faticosa e complessa, anche la preparazione di un semplice pasto, costituito quasi sempre da una zuppa, richiedeva una lunghissima preparazione a partire appunto dall’allestimento del fuoco e dal rifornimento dell’acqua.
Giunta l’ora di pranzo ognuno rientrava a casa; per i ricchi il pasto era a base di carne speziata, salse, selvaggina, insaccati, verdure, legumi, uova, formaggi, frutti freschi e canditi, dolci speziati e vino; I poveri mangiavano perlopiù zuppe con verdure, legumi, cereali a seconda del luogo e della stagione arricchita magari da un pezzo di lardo, pane, uova, formaggi, talora selvaggina a seconda della disponibilità, carne di maiale una volta l’anno, il giorno della macellazione, pesce di fiume, vino solo in circostanze particolari. Non si adoperavano piatti, né forchette ma grosse fette di pane sulle quali si appoggiava la carne con la sua salsa; non si usavano tovaglioli ma veniva passata l’acqua per lavarsi le mani tra una portata e l’altra e anche la tovaglia veniva cambiata spesso. Si disponeva di un bicchiere ogni due persone si tagliano le porzioni con un grosso coltello e ci si serve con le mani.

Al pranzo seguiva la siesta e l’intrattenimento fuori dalle case o presso le botteghe con storielle e facezie scambiate con i vicini.
Dopo il pasto serale invece nessuno, tranne la piccola masnada che frequenta le osterie per bere e giocare a dadi sempre in cerca di brighe, esce più per le strade.

Si gettano gli abiti su una pertica orizzontale, per proteggerli dagli animali, cani o topi che siano, si tiene indosso solo la camicia che si leva solo sotto le coperte e ci si rimette subito appena svegli, e ci si addormenta. 

A intervalli regolari si levano i monaci per suonare le campane, prima la mezzanotte, poi il mattutino, poi le lodi, che segneranno l’inizio di una nuova giornata.


Bibliografia.
Arsenio e Chiara Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Bari, Laterza, 1997.
Ludovico Gatto, Il Medioevo giorno per giorno, Roma, Newton Compton editori, 2006.

Metro C: emerge caserma romana a San Giovanni


13 MAGGIO 2016 
 http://appiohblog.altervista.org/metro-c-emerge-caserma-romana-san-giovanni/





Eccezionale scoperta archeologica nei cantieri della metro C vicino a San Giovanni. E’ spuntata una caserma di 39 stanze con affreschi e mosaici. A darne la notizia è il quotidiano romano “Il Tempo” nell’edizione di oggi.
La caserma risale al II secolo d.C., periodo in cui era imperatore Adriano. E’ emersa ad appena nove metri sotto viale Ipponio, in un’area dove non mancarono le polemiche per la falcidia di alberi. Evidentemente la natura s’è “vendicata” con la “caserma castra” emersa proprio dove dovrebbe sorgere la fermata “Amba Aradam” della Metro C, opera dalle infinite traversie.
Il quotidiano romano, sentiti pareri di esperti, parla senza mezzi termini della “scoperta archeologica più importante dal 2007 a oggi, ovvero da quando si scava per realizzare la tormentata opera pubblica”.
Questo in particolare è scritto in una lettera firmata dal soprintendente Francesco Prosperetti, dove si descrive la “eccezionalità della scoperta”, ma anche di come “il buono stato di conservazione delle strutture nel loro complesso rendono non perseguibile l’ipotesi di uno smontaggio e successivo rimontaggio integrale del contesto”.
Nel dettaglio, secondo quanto riporta Il Tempo, nella lettera c’è scritto che “il complesso occupa l’intera mezzeria meridionale del corpo stazione e si estende oltre i limiti di questo. Anche la mezzeria opposta, settentrionale, è interessata dalla presenza diffusa di evidenze archeologiche di cui non è al momento chiaro l’eventuale nesso strutturale e funzionale”. La caserma castra è composta di 39 ambienti “di cui alcuni con pavimenti musivi e pareti con intonaci affrescati, si dispone ai due lati di un lungo corridoio che prosegue oltre le paratie perimetrali”.
La zona del Celio e di San Giovanni, del resto, è ad alta concentrazione di alloggiamenti militari di età imperiale, basta pensare alle caserme degli Equites imperiali proprio a ridosso della basilica di San Giovanni.
“Prossimi al contesto – conferma Prosperetti – i Castra Nova Equitum Singularium, sottostanti la Basilica Laternanense; i Castra Priora Equitum Singularium, ubicati all’imbocco di via Tasso; i Castra Peregrina, posti a est della chiesa di Santo Stefano Rotondo”.
Ma come mai non ci si è accorti prima di questa città militare sotterranea, si domanda il giornalista del quotidiano?
La giustificazione giunge dallo stesso soprintendente: “L’area della stazione Amba Aradam è stata oggetto di indagini archeologiche preventive tramite carotaggi che avevano individuato la presenza, al di sotto di un poderoso interro risalente a età moderna, di radi sedimi, la cui profondità di giacitura non ha consentito, in assenza di opere di confinamento perimetrale, preliminari indagini archeologiche estensive”.
Insomma, ancora una volta Roma incrementa il proprio inesauribile tesoro archeologico, vera ricchezza di questa città. Con la metropolitana ci mangiano in pochi, con l’arte ne beneficiamo tutti, è il commento degli appassionati di storia e di cultura.
Il giornale aggiunge che la notizia “doveva essere riservata, per dare tempo ai tecnici del Mibact di sondare il ritrovamento e a quelli di Roma Metropolitane di verificare quanto il reperto avrebbe inficiato sul regolare proseguimento dei lavori”.
Ora ci si interroga sulla prosecuzione dei tormentati lavori. Ci sarà una variante? Del resto anche il percorso della metro ha già subito varianti in quella zona per salvaguardare strutture sovrastanti.
Il presidente di Roma Metropolitane, Paolo Omodeo Salè, non si sbilancia e spiega che “è prematuro immaginare se e quali possano essere gli eventuali aumenti di costo o i tempi di realizzazione”.
Alla fine si parla più dei soliti soldi che non dell’eccezionale scoperta archeologica…

Santa Maria della Pace: il tesoro nascosto di Raffaello



Anche nell’arte, come nella vita, un ruolo decisivo è svolto dal fattore ‘fortuna’. Accade così che persino un luogo unico al mondo possa cadere nella dimenticanza e divenire quasi sconosciuto: è questo il caso di S.Maria della Pacesola chiesa del pianeta Terra a poter vantare affreschi della mano di Raffaello! Invito perciò ognuno di voi, amici romani o turisti, a visitare questo luogo e a farlo scoprire ai vostri conoscenti.
In verità anche a S.Agostino in Campo Marzio, sempre a Roma, Raffaello ha lasciato un affresco raffigurante il profeta Isaia; qui a S.Maria della Pace però il maestro di Urbino si è spinto ben oltre e ha dato vita a più figure.
Breve premessa storica: la chiesa cambia diversi nomi prima di approdare a quello definitivo e attuale di S.Maria della Pace. A quale pace ci si riferisce? A quella eterna? A quella dello spirito? Mi spiace deludervi, ma il Papa che nel 1482 la denominò in questo modo, Sisto IV, aveva in mente una pace decisamente più terrena: ossia il pericolo scampato di una guerra intestina a Firenze dopo la cosiddetta ‘congiura dei Pazzi’. In cui Pazzi indica una famiglia rivale dei Medici,e non qualcuno uscito di senno…
La chiesa si affaccia sull’omonima piazza, un meraviglioso esempio di barocco romano di fronte a cui vi consiglio di sostare per qualche istante; accanto vi è anche il ben più famoso Chiostro del Bramante, sede di mostre (a pagamento) ma visitabile in alcune zone aggratisse (approfittatene!).
Ad accogliervi all’ingresso della chiesa vi è un pronao semicircolare sostenuto da colonne, che è sia un tributo all’arte greca classica sia uno stratagemma per avvolgere il visitatore ancor prima che sia entrato: lo ha progettato Pietro da Cortona, grande pittore e architetto del barocco, e non sarà questa l’ultima volta in cui lo incontreremo a Roma.
La chiesa è ricca di dipinti e statue, che offre generosamente alla vostra vista; vi sono persino due sfingi nella Cappella Cesi, la seconda a destra. Ma su tutto dominano le Sibille dipinte da Raffaello: fu Agostino Chigi, banchiere del Papa ed uomo più ricco del suo tempo, a richiedergliele. Le Sibille sono profetesse pagane, non appartenenti al popolo ebraico, che in modo misterioso avevano comunque fatto profezie su un Dio che si sarebbe incarnato. Per questa ragione sono spesso raffigurate assieme ai profeti ebraici dell’Antico Testamento: un esempio su tutti è nella volta della Cappella Sistina.












E guardate in che modo Raffaello le ha rese figure vive! Guardate la dolcezza dei lineamenti, l’armonia del disegno, la percezione di bellezza e di serenità suscitata dalle Sibille. La mano di Raffaello ha qualcosa di miracoloso ed egli è sempre pittore della pace del cuore.
Di fronte a voi stanno quattro donne, antiche e sempre giovani, ciascuna con il proprio temperamento. Osservatele a partire da sinistra. La prima con decisione sembra voler strappare il rotolo della profezia dalle mani dell’angelo! La seconda è tutta intenta nello scrivere, e l’angelo che la ispira ha a sua volta una totale concentrazione nel declamare le parole e nell’accompagnarle con i gesti. La terza strabuzza gli occhi in uno sguardo quasi scettico e resistente rispetto alla profezia contenuta nel cartiglio. E infine l’ultima, la più anziana, con le labbra schiuse in una condizione di assoluto stupore; direi che è la Sibilla che prende maggiore consapevolezza dell’ incredibile annuncio di un Dio umano.
Noi potremmo invece stupirci di Raffaello, uomo dal talento vertiginoso e quasi divino. In termini religiosi si dice che la Madonna sia la ‘piena di grazia’; ma in senso artistico credo che nessuno sia stato più ‘pieno di grazia’ di Raffaello Sanzio da Urbino.

Articolo pubblicato da Fabbri su Romadvisor

Per sapere quando ci sarà la prossima visita guidata a S Maria della Pace e al Chiostro del Bramante CLICCA QUI



CARTOLINE ROMANE

Santa Maria, chiesa dei litigi d'artisti

Quando Raffaello progettò la cappella "copiò" Michelangelo
di Claudio Rendina
La chiesa Santa Maria della Pace
La chiesa Santa Maria della Pace





























Se esiste a Roma una chiesa di estrema attualità, come manifesto contro il terrorismo, la guerra e la condanna a morte è senz´altro Santa Maria della Pace. La sua origine risale all´immagine della Madonnella che, colpita da una sassata scagliata da un giocatore infuriato per la perdita, emise sangue; Sisto IV si recò in processione sul luogo del prodigio e dichiarò di voler innalzare una chiesa alla Vergine se la pace d´Italia fosse stata salvata. A Firenze infatti v´era gran tumulto in seguito alla congiura dei Pazzi e forte era il pericolo che una guerra coinvolgesse vari stati italiani; invece si ebbe la pace e la chiesa fu costruita all´insegna di Maria della Pace.


Eppure la chiesa, dovuta nello stato originale a Baccio Pontelli e restaurata da Alessandro VII per opera di Pietro da Cortona, denuncia esternamente un assetto anomalo. Con quel gustoso e caratteristico portico semicircolare è in grado di definire una sorta di piazza, ma solo scenograficamente, perché nella realtà la piazza non esiste. E´ al centro di un trivio, dove "le linee spezzate dei palazzetti si ripiegano a racchiudere e proteggere lo scenario drammatico della chiesa", come ha scritto Paolo Portoghesi. Un geniale ma diabolico gioco architettonico, che suona subdolo nei confronti di una pacifica finalità costruttiva.

Subito dopo l´entrata, nella prima cappella di destra ci appare poi il frutto di una scopiazzatura se non di un plagio, ovvero del saccheggio di opera altrui. Che è in genere fonte di inimicizia tra artisti, se non di odio. Autore dell´oggetto della discordia è Raffaello, su commissione del banchiere Agostino Chigi, e a subire l´affronto è Michelangelo. Abbiamo a che fare appunto con la cappella Chigi, disegnata da Raffaello nel 1516, coronata nello splendido arco da un affresco raffigurante quattro Sibille (Cumana, Persica, Frigia e Tiburtina), opera dell´urbinate, che ha disegnato anche i quattro Profeti della sovrastante lunetta (David, Daniele, Abacuc e Giona) rifiniti ad affresco da Timoteo Viti.

La chiesa in unincisione del 700
La chiesa in un'incisione del '700





















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