San Pietro in Vincoli foto



Il primo progetto della Tomba di Giulio II (1505)

Il secondo progetto della Tomba di Giulio II (1513)

Il terzo progetto della Tomba di Giulio II (1516)

Il quarto progetto del 1526, doveva essere un'ulteriore semplificazione di quello precedente.

Il quinto progetto della Tomba di Giulio II (1532)

Il sesto progetto, e finalmente l'ultimo, fu del 1542

Il Torso del Belvedere è una scultura mutila in marmo, firmata dallo scultore del I secolo a. C. Apollonio di Atene e conservata nel complesso del Museo Pio-Clementino, all'interno dei Musei Vaticani.

Il luogo del ritrovamento è incerto: è falsa la notizia che il torso sia stato rinvenuto al tempo di Giulio II. ​Le prime notizie sulla scultura lo vedono fra le collezioni del cardinale Prospero Colonna tra il 1432 e il 1435

L​a scultura confluì nelle raccolte papali​ di Giulio II agli inizi del 1500. 
La lunga permanenza n​el cortile del Belvedere gli valse il nome di "Torso del Belvedere".



Laocoonte e i suoi figli, noto anche semplicemente come Gruppo del Laocoonte, è una copia romana in marmo di una scultura ellenistica della scuola rodia.
La statua fu trovata il 14 gennaio del 1506, scavando in una vigna sul colle Oppio.
Allo scavo assistettero di persona, tra gli altri,  Michelangelo e Giuliano da Sangallo.


Michelangelo scolpì due schiavi non-finiti, lo “Schiavo ribelle” e lo “Schiavo morente”, databili intorno al 1510-13​ (primo progetto)​, esposti oggi al museo del Louvre a Parigi.

I Prigioni sono un gruppo di 4 statue databili al 1525-1530 circa,  "non-finiti" conservati nella Galleria dell'Accademia a Firenze, vicino al David.
Conosciuti come: Schiavo Atlante; Schiavo Barbuto, Schiavo Giovane e Schiavo che si desta.

Il Genio della Vittoria, realizzato per una nicchia del basamento della tomba, conservato nel Salone dei cinquecento di Palazzo Vecchio​ a Firenze.

Tutte le idee di Michelangelo vennero trasferite sui personaggi dipinti sulla volta della Sistina fra il 1508 e il 1512.












Il Profeta Isaia affrescato da Raffaello sul terzo pilastro di sinistra della navata centrale nella Basilica di Sant'Agostino a Roma.







La Leggenda del Mosè che girò la testa.

Durante il restauro del 2001, il restauratore Antonio Forcellino affermò che si era reso conto che Michelangelo aveva girato la testa del Mosè venticinque anni dopo averlo scolpito.

​La fantomatica scoperta è stata sostenuta grazie al ritrovamento di un documento, scritto da un conoscente di Michelangelo che spiega come Michelangelo, avrebbe girato la testa del suo Mosè, accompagnandola con una torsione dinamica di tutto il corpo, dopo il marzo del 1542, a 25 anni di distanza dalla prima versione.​ 

Il documento è stato presentato dallo studioso Christoph L. Frommel,​ durante un convegno intitolato «Mosè: conflitto e tolleranza», che si è tenuta nel gennaio del 2015 presso l'accademia di San Luca a ​Roma​.

A ritrovare il documento citato da Frommel è stato ​proprio il restauratore, Antonio Forcellino, che, prima di procedere alla pulitura del marmo con impacchi di acqua distillata e carbonato di ammonio, ha passato quattro anni immerso in una ricerca filologica. E’ così che Forcellino si è ritrovato tra le mani la lettera di un anonimo conoscente di Michelangelo che riferisce, poco dopo la morte dell’ artista, come il maestro avesse girato la testa del Mosè solo in un secondo momento. Il conoscente descrive questo episodio su richiesta del Vasari, ma stranamente - nota Frommel - né quest’ ultimo, né la successiva storia dell’ arte ne fanno riferimento.


























La Festa del 29 Giugno - San Pietro e Paolo patroni di Roma

 
Roma festeggia i Santi Pietro e Paolo - patroni della città
Roma festeggia i SANTI PIETRO E PAOLO – patroni della città
Ogni 29 Giugno Roma tradizionalmente si anima per festeggiare i santi patroni della città!

Articolo pubblicato da Estate Romana

Piazza San Pietro si riempie per la messa solenne del Papa, mentre PARCHI e ristoranti si affollano di romani e turisti giunti per l’occasione della grande giornata di festa cittadina.

Pietro e Paolo sono sicuramente i santi più sentiti nella tradizione cristiana, i due principi degli apostoli raffigurati insieme sin dall’inizio del cristianesimo.


29 Giugno – Chi sono Pietro e Paolo?
“Pietro è stato il primo a confessare che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. Paolo ha diffuso questo annuncio nel mondo greco-romano. E la Provvidenza ha voluto che tutti e due giungessero qui a Roma e qui versassero il sangue per la fede. Per questo la Chiesa di Roma è diventata, subito, spontaneamente, il punto di riferimento per tutte le Chiese sparse nel mondo. Non per il potere dell’Impero, ma per la forza del martirio, della testimonianza resa a Cristo!”

(Papa Francesco)

San Pietro (Simone), un pescatore di Galilea che attendeva la venuta del Messia predicata dai profeti e dichiarata imminente da Giovanni Battista, fu il primo apostolo di Gesù.

A lui Gesù chiese di poter salire sulla sua barca per predicare, e, benedetto da una pesca miracolosa, Simone decise di lasciare tutto, perfino il proprio nome, e di seguire Gesù autoproclamandosi pescatore di uomini.

Verso l’anno 50, venne a Roma a predicare il messaggio di Cristo finché venne arrestato durante le persecuzioni dell’imperatore Nerone.

Secondo la leggenda Pietro riuscì in un primo momento a sfuggire all’arresto, ma sulla Via Appia gli apparse davanti Gesù Cristo convincendolo a pentirsi e tornare sui suoi passi per accettare il martirio in segno di fede: fu così crocifisso nel circo di Nerone nell’anno 67 d.C., crocifisso a testa in giù per sua scelta, in quanto non si riteneva degno di ricevere la stessa esecuzione di Cristo.

Pietro, che per tre volte aveva rinnegato il suo Maestro dopo l’arresto, divenne il punto di riferimento per gli altri apostoli e per tutti i discepoli. Sarà lui a dare l’avvio alla predicazione della Buona Novella, dopo la discesa dello Spirito Santo su tutti loro a Pentecoste. Sarà lui ad assumere nelle proprie mani tutti i doveri del Vicario di Cristo in Terra.

Sulla sua tomba fu costruita una cappella, poi la Basilica di Costantino che fu poi sostituita dalla BASILICA DI SAN PIETRO solo nel XVI secolo.
Statua di San Pietro realizzata da Giuseppe De Fabris - Piazza di San Pietro al Vaticano - Basilica di San Pietro in Vaticano
Statua di San Pietro realizzata da Giuseppe De Fabris – Piazza di San Pietro al VATICANO – BASILICA DI SAN PIETRO in VATICANO
29 giugno Festa di San Pietro e Paolo: i patroni di Roma

San Paolo (Saulo) nacque a Tarso (attuale Turchia) da una famiglia ebraica, fiero legionario e persecutore di cristiani si convertì al cristianesimo in seguito ad un’apparizione sulla strada di Damasco; da lì divenne un instancabile messaggero delle parole di Gesù, finché venne arrestato a Gerusalemme.

Venne trasferito a Roma nel 61 d.C. per un “giusto processo” – in quanto cittadino romano – e sconto diversi anni di carcere per poi uscirne ed essere nuovamente arrestato nelle persecuzioni cristiane volute sempre da Nerone.

Leggenda vuole che venne incarcerato nella stessa cella di Pietro e fu decapitato (perchè da romano meritava una morte meno dolorosa) nell’anno 67 d.C. sulla via Laurentina in una zona conosciuta col nome di Aquas Salvias.

La leggenda vuole che la sua testa, cadendo in terra, rimbalzo tre volte e da li zampillarono altrettante fonti di acqua intorno alle quali furono costruite tre chiese che oggi fanno parte del complesso dell’Abbazia Cistercense delle tre fontane (gestita dai monaci TRAPPISTI).

Il corpo di Paolo fu sepolto fuori dalle MURA AURELIANE – sulla Via Ostiense – oggi custodito sotto l’altare dell’attuale Basilica di SAN PAOLO FUORI LE MURA, mentre il suo capo è venerato nella BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO.

Secondo la leggenda, Pietro e Paolo sarebbero stati giustiziati lo stesso giorno.

Poiché la Chiesa festeggia la solennità dei principi degli apostoli Pietro e Paolo il 29 giugno, questo giorno è festa a Roma.
Statua di San Paolo in Piazza San Pietro al Vaticano - realizzata-da Adamo Tadolini
Statua di San Paolo in Piazza San Pietro al VATICANO – realizzata-da Adamo Tadolini

Ogni anno a Roma – il 29 Giugno – il centro di celebrazioni della Festa di San Pietro e Paolo sono tutte le chiese cattoliche, soprattutto la BASILICA DI SAN PIETRO in VATICANO e la basilica dei SANTI PIETRO E PAOLO all’Eur.

In Italia, il 29 giugno, giorno dei SANTI PIETRO E PAOLO, era giorno festivo concordatario fino al 1976, ma la festività è stata abrogata nel marzo 1977, rimanendo solo come festa patronale per la città di Roma.

Già la sera del 28 giugno si ha la benedizione dei palli da parte del pontefice; il mattino seguente, al cancello centrale della basilica Vaticana viene appesa la “nassa del pescatore“, a ricordare l’umile mestiere di Pietro mentre contemporaneamente nella basilica Lateranense si assiste all’ostensione dei reliquiari contenenti le teste di san Pietro e di san Paolo.

L’area davanti a Piazza San Pietro è tradizionalmente decorata con immagini fatti di petali, la cosiddetta “Infiorata“, organizzata dal Pro Loco di Roma Capitale.

Alle 10:00 nella basilica solo pochi fedeli possono assistere dal vivo ogni anno alla messa papale, comunque trasmessa in diretta anche sui maxi schermi allestiti per l’occasione in Piazza San Pietro.

Per l’occasione i MUSEI VATICANI sono chiusi ogni 29 Giugno (mentre gli altri musei statali sono generalmente aperti).

Nella chiesa di SAN PIETRO IN CARCERE, dopo una celebrazione sacra, si può compiere la visita alla prigione dove l’apostolo venne rinchiuso dopo l’arresto.

Nelle preghiere dei Vespri viene recitato o cantato l’inno Decora lux aeternitatis auream.

Oltre alle celebrazioni nella BASILICA DI SAN PIETRO, negli ultimi anni a Roma si susseguono altri eventi:

ore 16 la regata di canoa sul fiume Tevere nei pressi del ponte Ponte Margherita del Popolo collega la via Cola di Rienzo con Piazza.

ore 20 a PIAZZA DEL POPOLO: Banda dell’Arma dei CARABINIERI e Sbandieratori delle 7 contrade di ORTE (VT)

ore 21 il recente spettacolo pirotecnico sul PINCIO che riprende il nome dell’antica “Girandola”. I fuochi d’artificio possono essere osservati molto bene da PIAZZA DEL POPOLO.
Infiorata storica per San Pietro e Paolo a Piazza San Pietro
Infiorata storica per San Pietro e Paolo a Piazza San Pietro
Perché San Pietro e Paolo si festeggia proprio il 29 Giugno?

No, il 29 Giugno del 67 d.C. effettivamente non è la data esatta del martirio di San Pietro e San Paolo.

Non si è assolutamente certi che i due martiri siano stati uccisi lo stesso giorno, piuttosto esistono vari testi che parlano di diverse date che vanno tra il 18 e il 27 luglio del 64 d.C., dopo il grande incendio di Roma, al giugno e al luglio del 67.

Perché allora si è deciso per il 29 Giugno per questa commemorazione?

Come per altre feste cristiane si è decisa quella particolare data per offuscare altre feste pagane tradizionali, in questo caso i Quirinalia in onore di Romolo e Remo (spostati al 29 Giugno da Augusto).

Sin dai tempi antichi infatti, e fino al 258 d.C., sul Quirinale si onorava la sentitissima divinità sabina di Quirino, associata a Romolo e quindi all’origine della città.

Fu così che la chiesa cattolica, durante la cristianizzazione dell’Impero Romano, decise di sostituire la celebre festività pagana con un’altra che poteva diventare ancora più sentita.

Come abbiamo detto Pietro e Paolo sono sicuramente i santi più sentiti nella tradizione cristiana, i due principi degli apostoli raffigurati insieme sin dall’inizio del cristianesimo.

Il Dio Quirino, dal suo canto, era per i poeti augustei lo stesso Romolo, divinizzato dopo la sua morte.

Venne da se sostituire il giorno della celebrazione del Dio e del fondatore di Roma, con quello del fondatore della Chiesa romana, Pietro, e per mantenere l’immaginario di dualità associato a Romolo e Remo, si scelse di affiancare Paolo a Pietro, in una sorta di gemellarità del loro martirio, per convenzione avvenuto nel giorno simbolicamente più importante per la città di Roma e per i cittadini romani.

Pietro e Paolo sarebbero quindi festeggiati insieme per sostituire Romolo e Remo con una coppia di santi forti di una forza evocativa ugualmente possente.

Intorno alla metà del V secolo d.C. in un suo sermone (il n.82) il papa Leone Magno invitò i fedeli a “riflettere sulla profonda differenza di significato che una festa celebrata nel medesimo giorno poteva assumere per un pagano e per un Cristiano.

Mentre agli occhi di un pagano si era presentata la truce visione delle mura che Romolo aveva macchiate col sangue fraterno di Remo, ai Cristiani appariva ora la confortante immagine dell’amore che univa Pietro e Paolo per il bene della comunità loro affidata, nella speranza di una vita futura felice ed eterna.”

Pietro e Paolo non cancellano la Roma classica, anzi la portano a compimento.

Il turista viene a Roma per visitare le rovine dei Fori e le grandi basiliche, il PANTHEON e PIAZZA NAVONA, il COLOSSEO insieme a Michelangelo, Raffaello, Caravaggio e il barocco.

Ma mentre Romolo uccide Remo, Paolo, pur talvolta in lite con Pietro, torna in comunione con lui.

Per entrambi il cuore dell’esistenza non è la loro stessa vita, ma la testimonianza che esiste un motivo valido per vivere e che la vita non è inganno: entrambi lo hanno compreso incontrando un uomo che pretendeva di essere lui stesso “la vita”.

La Roma dopo Cristo raccoglie l’eredità del diritto, della filosofia, della letteratura, dell’arte greca e latina, ma vi aggiunge la misericordia.

Nella croce è apparso un amore più grande dell’odio, un perdono più grande dell’inimicizia, il Dio di misericordia più forte del diavolo.

E a partire da quell’amore ha anche purificato Roma dai suoi furori demoniaci, come i giochi gladiatori, che sopravvivono oggi solo nella forma della corrida, ma non più dell’uomo che uccide il fratello.

Anche qui con errori e peccati, ma sempre alla luce di quella luce.

Il paradosso è che la Roma pagana, uccidendo ingiustamente Pietro e Paolo, realizzò con loro martirio, l’evento più significativo della propria storia: rese i due nuovi fratelli cofondatori della città insieme a Romolo e Remo, attestando il loro amore e la loro testimonianza di indicatori di una verità che non aveva più paura della morte, poiché essa era stata vinta.

Uccidendo Pietro e Paolo, la Roma classica rifondò se stessa e li pose come nuove fondamenta della propria storia.

Negli anni del Risorgimento si cercò faziosamente di opporre quelle due Rome, quella di Romolo e Remo e quella di Pietro e Paolo.

Ma il tempo è stato galantuomo è ha mostrato che la Chiesa non poteva che gioire della ristabilita autonomia della Roma civile e la Roma laica non poteva che gloriarsi di avere al suo cuore la sede di Pietro.

Fra l’altro, se si leggono i testi degli illuministi sulla tolleranza, l’uguaglianza e la libertà è evidente come essi facciano derivare tale lascito non solo dalla classicità, ma più ancora dal Vangelo stesso, a partire da Locke.

Questa è Roma.

Donata dal tempo e dalla storia e non artefatta, non costruita a tavolino.

Roma così è stata fondata due volte.

In continuità: Romolo e Remo, Pietro e Paolo.

Questa è l’identità di Roma.

Perché la festa di San Pietro e Paolo ebbe inizio proprio nel 258?

Infuriava allora la persecuzione di Valeriano e non è assurdo pensare che i Cristiani, essendo loro vietata dall’editto imperiale ogni cerimonia presso le tombe degli Apostoli, cercassero di onorarli in una sede non cimiteriale e trovassero questa sede al terzo miglio della via Appia, in un luogo dove già si erano fissati i nomi di Pietro e di Paolo, nella tradizione di una loro comune dimora.

Roma è stata così fondata due volte.

In continuità: Romolo e Remo, Pietro e Paolo.

Questa è l’identità di Roma.

Leggende e Tradizioni del 29 Giugno per San Pietro e Paolo
Ultima Girandola a Castel Sant'Angelo - San Pietro e Paolo
Ultima Girandola a CASTEL SANT’ANGELO – San Pietro e Paolo
29 Giugno – San Pietro e Paolo – La girandola di Castel Sant’Angelo

Da molti secoli San Pietro e Paolo sono considerati i santi patroni della città di Roma, e come è facile immaginare molti sono i riti tradizionali che si ripetono ogni anno il 29 Giugno per festeggiare i santi in città.

Tra tutti i riti secolari  che si susseguirono in onore dei protettori di Roma il più scenografico è sicuramente la Girandola di CASTEL SANT’ANGELO, che consisteva in uno spettacolo pirotecnico indimenticabile, con una celebre fontana finale che zampillava su tutto il monumento…

Secondo la tradizione, lo spettacolo fu ideato nel XV secolo da MICHELANGELO BUONARROTI per i festeggiamenti dei SANTI PIETRO E PAOLO, fondatori della Chiesa e patroni della città di Roma.

La Girandola altro non era che un fuoco d’artificio studiato nei disegni da Michelangelo Buonarotti e perfezionato dal Cavalier Bernini (cfr. Onorato Castani, Osservazioni sulla Sicilia, pag. 23), il quale si rifece alle eruzioni del vulcano Stromboli “che vomita fiamme e foco”. Il genio fantastico del grande Architetto napoletano trasformò questo diluvio di razzi, baleni, e fulmini di fuoco in un disegno di colori ed arte insuperabili. Ben presto si sparse la voce di questo spettacolo fantasmagorico e Roma divenne meta di visitatori provenienti da ogni parte d’Europa. In una medaglia di Pio IV si vede il CASTEL SANT’ANGELO incendiato da fuochi d’artificio

(cfr. Cose meravigliose di Roma 1625, e Grandezze di Roma 1678)

La spettacolare Girandola di CASTEL SANT’ANGELO venne azionata per la prima volta il 29 Giugno del 1481 per esaltazione del Pontificato di Sisto IV.

Nel 1769 venne descritta nel libro “Voyage d’un François en Italie” dell’astronomo JÉRÔME LALANDE come una delle cose più belle che avesse mai visto in tal genere.

Così il Gioacchino Belli immortalava nella poesia la Girandola di CASTEL SANT’ANGELO:

“Spiegare cosa fosse la Girandola, e ciò che essa rappresentò per oltre trecento anni, è cosa quanto mai ardua, come sarebbe molto riduttivo definirla un semplice fuoco d’artificio”.

La Girandola di CASTEL SANT’ANGELO era un evento che richiamava spettatori da tutta Europa, un appuntamento dove confluivano forestieri d’ogni grado e ceto sociale, un momento in cui Roma tornava a splendere rimpadronendosi anche se per brevi momenti di quel fasto che nel passato accompagnò questo faro di cultura e civiltà che appunto fu Roma.

Solo dal parto dell’ingegno del divino Michelangelo, il più grande artista rinascimentale, poteva nascere una così grande, fastosa e fiammeggiante scenografia per magnificare la notte romana di San Pietro e Paolo.

Un avvenimento che ridiede orgoglio ai romani, una festa che per capricci del tempo e della memoria è andata perduta, dimenticata tra i mille segreti che ancora la nostra città cela nelle sue biblioteche e nelle vecchie storie tramandate.

La Girandola di CASTEL SANT’ANGELO si svolgeva appunto a CASTEL SANT’ANGELO (poi trasferita a PIAZZA DEL POPOLO), ma nell’ultimo secolo non sono state mai più utilizzate le antiche girandole, bensì un normale spettacolo piro-musicale con effetti aerei.

Effettivamente lo spettacolo di CASTEL SANT’ANGELO, a volte ritenuto troppo pericoloso dalle autorità italiane, venne interrotto nel 1886, probabilmente a causa della morte di chi ne doveva continuare la tradizione, che scomparve senza lasciare istruzioni specifiche in merito e perciò non la si poté più rielaborare.

Da Michelangelo in poi il segreto era riposto nei colori e non sui colpi come oggi siamo abituati a sentire, si dice che erano usati 4500 razzi sparati in una sequenza molto particolare e che i “Flumina Lucis” i fiumi di luce così chiamati dal Bernini non dovevano essere meno di 60 e non oltre gli 80 questo affinché l’iride umana sensibile non avesse a confondersi nella successione dei colori.

Certo è che lo studio delle miscele che dovevano creare determinati tipi di colore era bagaglio di pochi eletti, coloro che si cimentavano in questi studi non erano semplici artigiani né tantomeno personaggi occasionali.

Solamente dal 2020 ricompaiono vere e proprie girandole per tutta la durata dello spettacolo pirotecnico dedicato alle girandole di Michelangelo, evidenziando la sua natura particolare e sorprendente nell’evento del 29 Giugno presso la piazza centrale di CINECITTÀ World.

Lo storico spettacolo pirotecnico è stato rievocato a CINECITTÀ World con autentici marchingegni antichi alti più di 6 metri, sui quali sono state issate le girandole, ruote di fuoco ed altri meccanismi pirotecnici che danzano a tempo di musica utilizzando effetti da lungo tempo introvabili.

Questa rievocazione si intitola: LE GIRANDOLE DI MICHELANGELO.
Barca di San Pietro - 29 Giugno
Barca di San Pietro – 29 Giugno
29 Giugno – San Pietro e Paolo – La Barca di San Pietro

Una tradizione rurale molto diffusa nelle regioni del centro e del nord Italia vuole che la notte tra il 28 e il 29 Giugno si riempia a metà una bottiglia (o una caraffa, o un bicchiere) di vetro con dell’acqua fredda e poi, facendo attenzione, si versi all’interno un albume d’uovo.

Questa boccia di vetro deve poi esser lasciata tutta la notte in giardino (o sul davanzale).

La rugiada del mattino contribuirà a formare dei bianchi che sembrano le vele di una barca, e volendocelo vedere, un vero e proprio veliero all’interno della bottiglia.

Secondo la leggenda quella notte è lo stesso apostolo a creare le navicelle per tutti coloro che rispettano la tradizione, in ricordo del periodo in cui fu pescatore – prima che apostolo.

Secondo la tradizione cristiana l’effetto che si crea la notte del 29 giugno (dovuto al calore che dalla base sale verso la superficie portando con se l’albume) è un segno dell’affetto di San Pietro che in tal modo dimostra vicinanza ai suoi fedeli.

Ovviamente non finisce qui: a seconda delle caratteristiche del veliero nella bottiglia, alcuni potranno trarre informazioni su quel che succederà nell’immediato futuro.

Osservando la barca all’interno, nel caso in cui le vele della barca appaiano chiuse allora sarebbe arrivato mal tempo ( per alcuni una stagione piovosa in generale), al contrario vele spiegate starebbero a significare una giornata di sole (per alcuni l’arrivo di siccità o comunque di una stagione mediamente asciutta).

Questa tradizione poi era più o meno elaborata a seconda della famiglia interprete, del paese e della regione: per alcuni infatti l’aspetto della barca forniva indicazioni sulla salute e sulle finanze della famiglia, ma anche dei matrimoni in arrivo.

In alcune zone d’Italia se queste vele appaiono spiegate allora vuol dire che il raccolto dell’anno sarà abbondante, altrimenti sarà alquanto magro.

Nel bergamasco la forma della nave si interpreta in maniera differente, ovvero le vele gonfie indicano un marito per le ragazze single o un bimbo in arrivo per le donne maritate.

In alcuni paesi del nord Italia è diffuso un proverbio che sostiene: “Se piovesse nel giorno di San Pietro & Paolo, pioverà tutto l’anno!”
Piazza del Popolo - Girandola di Michelangelo per la festa dei Santi Pietro e Paolo
PIAZZA DEL POPOLO – Girandola di Michelangelo per la festa dei SANTI PIETRO E PAOLO

 

29 Giugno – San Pietro e Paolo – Le altre leggende
Il 29 Giugno in molte città si festeggiano i SANTI PIETRO E PAOLO e le tradizioni popolari, differenti tra loro, spesso oltrepassano i contenuti religiosi…
Molti credono comunque che per tradizione il 29 giugno – per intercessione di San Pietro – le piogge cadranno copiose ponendo fine alla siccità.
In alcuni paesi del sud d’Italia si dice che in questo giorno ci sarà un morto precipitato in un burrone, un altro ammazzato e uno annegato in mare.
Un detto popolare veneto riprende in parte la leggenda appena descritta: qualcuno annegherà perchè questo è l’unico giorno in cui la madre di San Pietro può vedere suo figlio.
Secondo la leggenda, essendo questa donna stata molto cattiva in vita, la sua anima è di certo all’inferno e in alcune comunità montane, come in quella di Lessinia, si dice “ven fori la vecia” portatrice di brutto tempo, e i pescatori non devon uscir in mare per non rischiare di morire annegati.
Molti marinai invocano San Pietro nelle loro preghiere, e in generale al nord molti di loro credono che la notte del 29 giugno non si debba prendere il mare, perché molto probabilmente ci saranno burrasche e tempeste causate dalla crudele madre del loro santo patrono.
A seconda della regione d’Italia questa leggenda è completamente stravolta: per altre comunità marittime – al contrario – in quella notte i mari saranno particolarmente pescosi (forse a causa dei primi che non scendono in mare?).





Come recuperare i post cancellati su Blogge

 

Recuperare i post e le pagine di Blogger cancellate per errore è una missione davvero difficile, dal momento che tutti i dati di proprietà appartengono a Google non è possibile accedere al database o tramite hosting di qualsiasi servizio. inoltre su Blogger non è ancora presente alcuna opzione che consente di recuperarli; l'unica cosa che è possibile fare è eseguire periodicamente ed in modo manuale il backup di tutti i post ed i commenti. Fortunatamente, esiste qualche metodo alternativo per provare a recuperare i post e le pagina cancellate per sbaglio in pochi secondi, ma non sempre è applicabile per tutti i contenuti persi accidentalmente.

Se il vostro post è indicizzato nel motore di ricerca Google, recatevi su Google.com e poi scrivete il titolo del vostro articolo per intero in modo tale che il motore di ricerca possa facilmente visualizzare il risultato. Dopo aver trovate il vostro post su Google dovete fare click sulla freccetta verso il basso per aprire il piccolo menù a tendina e seleziona Copia cache. Nella nuova pagina dovreste visualizzate tutto il contenuto rimosso e potrete ricopiarlo senza problemi manualmente.


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Prima di chiudere, voglio aggiungere che eliminare un post o una pagina non è mai una cosa positiva per il blog perché infatti se avete inviato la sitemap su Google Webmaster noterete degli errori di scansione dato che le pagine cancellate saranno classificate come pagine non trovate, bisognerebbe eseguire il redirect del vecchio url verso quello nuovo finché Google non sarà in grado di dare visibilità anche al nuovo post.

Colori - pigmenti - composti metallici, gessosi, carbonati, etc

 


Come la produzione dei colori ha cambiato la storia dell’arte
articolo di PHILIP BALL pubblicato il 22/03/2021 su https://www.indiscreto.org/

L’ingegno non è mai mancato. Durante l’ultima era glaciale la vita era triste, brutale e breve, eppure gli uomini trovavano comunque il tempo per dedicarsi all’arte. Strumenti datati a circa centomila anni fa sono stati trovati nella Grotta di Blombos, sulla costa del Sudafrica: macine e martelli per frantumare un pigmento naturale di ocra rossa e conchiglie di abalone, da mescolare con grasso animale e urina per fare una vernice che sarebbe stata usata per decorare corpi, pelli di animali e forse le pareti delle grotte. Le pitture fatte 15-35 millenni fa a Chauvet, Lascaux e Altamira attestano l’abilità artistica che raggiunsero i primi esseri umani usando i colori che avevano a portata di mano: carbone per il nero, gesso e ossa macinate per il bianco, i rossi e gialli terrosi dell’ocra, ovvero una forma minerale di ossido di ferro​.​

​ROSSO​
i classici pigmenti rossi non si basano su minerali ferrosi, la cui tonalità è più vicina al colore della terra che al rosso di un tramonto o del sangue. Per molti secoli, il rosso della tavolozza proveniva da composti di altri due metalli: piombo e mercurio. Il pigmento conosciuto come “piombo rosso” era creato dapprima corrodendo il piombo con fumi di aceto, poi rendendo la sua superficie bianca, e infine riscaldando quel materiale all’aria. Era usato nell’antica Cina e nell’Egitto, in Grecia e a Roma.

Per l’autore romano Plinio, qualsiasi rosso brillante era chiamato minium – ma nel Medioevo il termine latino era più o meno sinonimo di piombo rosso, che era molto usato nell’illustrazione dei manoscritti. Dal verbo miniare (dipingere in minium) si ottiene il termine “miniatura”: niente a che vedere, quindi, con il latino minimus, “più piccolo”. L’associazione odierna con una scala ridotta deriva semplicemente dai vincoli di adattamento di una miniatura sulla pagina del manoscritto.

Il minio di Plinio era un altro pigmento rosso, chiamato cinabro. Era un minerale naturale: per la precisione il solfuro di mercurio. Nel mondo antico veniva estratto in parte per essere usato come colorante rosso, ma anche perché vi si poteva estrarre il mercurio. Si pensava che il mercurio avesse proprietà quasi miracolose: gli antichi alchimisti cinesi in particolare lo usavano nelle medicine.

Nel Medioevo, gli alchimisti e gli artigiani sapevano come fare il solfuro di mercurio artificialmente combinando il mercurio liquido e lo zolfo giallo (disponibile in forma minerale) riscaldandoli in un recipiente sigillato. Questo processo, descritto nel manuale artigianale De diversis artibus del monaco tedesco Theophilus, può dare un pigmento di qualità maggiore del cinabro naturale. Era una procedura di grande interesse anche per gli alchimisti, dato che gli studiosi arabi dell’ottavo e nono secolo sostenevano che il mercurio e lo zolfo erano gli ingredienti di base di tutti i metalli – per cui combinarli era un metodo per ottenere l’oro. Teofilo non aveva in mente questo obiettivo esoterico; voleva solo una buona vernice rossa.

Questo “cinabro artificiale” divenne noto con il nome di vermiglio. L’etimologia è curiosa, e mostra la storia contorta dei termini che designano il colore in un’epoca in cui la tonalità di una sostanza era più significativa delle vaghe nozioni pre-scientifiche sulla sua identità chimica. Deriva dal latino vermiculum (“piccolo verme”), poiché un tempo si estraeva un rosso brillante da una specie di insetto schiacciato: non un pigmento ma un colorante traslucido di colore scarlatto, che deriva da una sostanza organica a base di carbonio che producono gli insetti.

Tali coloranti erano anche conosciuti come kermes (dal sanscrito kirmidja: “derivato da un verme”), che è la radice etimologica del cremisi. Poiché gli insetti che le producevano si potevano trovare sugli alberi del Mediterraneo sotto forma di grappoli incrostati di resina e simili a bacche, le tinture potevano anche essere chiamate granum, cioè grano. Da questo deriva il termine ingrained, che implica un panno tinto nel grano: la tintura era tenace e non si lavava facilmente. “‘Tis in grain sir, ‘twill endurance wind or weather”, dice Olivia a Viola di un dipinto nella Dodicesima notte.

Il piombo rosso e il vermiglio sono serviti abbastanza bene nel Medioevo, ma l’aumento della richiesta di verosimiglianza nel Rinascimento significava che la tonalità arancione del piombo rosso o del vermiglio non era adeguata per rappresentare la magnificenza violacea di questi coloranti sulla tela. Un’alternativa era quella di trasformare i coloranti in un pigmento, fissando le loro molecole coloranti su particelle solide e incolori che potevano essere asciugate e mescolate con gli oli. Questo processo implica una chimica impegnativa, ma anche gli antichi egizi sapevano farlo. L’idea di base è quella di far precipitare un solido bianco a grana fine all’interno di una soluzione di colorante: il colorante si attacca alle particelle, che si asciugano e formano una polvere rosso scuro. Nel Medioevo per questo processo si utilizzava l’allume minerale, che può essere convertito in idrossido di alluminio bianco e insolubile. Il pigmento fatto in questo modo era chiamato lago, dalla parola (lac o lack) usata per una resina rossa che secernono dagli insetti indigeni dell’India e del sud-est asiatico.

Uno dei migliori laghi rossi del tardo Medioevo e Rinascimento nasceva da un colorante estratto dalla radice della pianta della robbia. Quando la fabbricazione dei laghi fu perfezionata, artisti come Tiziano e Tintoretto cominciarono a usare questi pigmenti mescolati con oli, ottendendo una vernice leggermente traslucida che applicavano in molti strati per ottenere una profonda tinta rosso vino, applicata poi sopra un blu per fare il viola.

A parte la creazione dei laghi rossi, il rosso usato dai pittori è cambiato poco dal Medioevo fino ai tempi moderni. Gli impressionisti alla fine del diciannovesimo secolo usarono con avidità dei nuovi gialli, arancioni, verdi, viola e blu resi possibili dai progressi della chimica, ma i loro rossi non erano molto diversi da quelli di Raffaello e Tiziano.

Fu solo all’inizio del ventesimo secolo che un nuovo e vibrante rosso entrò nel repertorio degli artisti. La scoperta del cadmio nel 1817 produsse subito dei nuovi pigmenti gialli e arancioni, ma si ottenne un rosso solo intorno al 1890. Il giallo e l’arancione sono entrambi solfuro di cadmio, ma per ottenere un rosso parte dello zolfo in questo composto viene sostituito dal selenio. Non fu prima del 1910 che il rosso di cadmio entrò nei mercati e la sua produzione divenne economica solo quando l’azienda chimica Bayer modificò il metodo di produzione nel 1919.

Il rosso di cadmio è un colore ricco e caldo – probabilmente il preferito dai pittori, eccezion fatta per il prezzo. Di certo lo amava Henri Matisse, per il quale il rosso aveva una valenza speciale – come attestano i suoi interni in La Desserte (1908), Studio rosso (1911) e Grande interno rosso (1948). Il critico d’arte John Russell disse del secondo: “È un momento cruciale nella storia della pittura: il colore è sopra ogni cosa e viene sfruttato al massimo.”

​GIALLO
Le ocre utilizzate dagli artisti della preistoria offrivano loro non solo dei rossi rugginosi, ma anche una specie di giallo naturale. Questo giallo ocra era però la tinta dei capelli fulvi e del legno e non era affatto adatto ai tulipani o alle vesti di raso di un imperatore.

Fin dall’antichità si ottenevano dei gialli più brillanti con composti sintetici di stagno, antimonio e piombo. Gli antichi egizi sapevano come combinare il piombo con l’antimonio, e una forma naturale di questo composto giallo (l’antimonato di piombo) era usata anche come materiale per le opere d’arte. Si poteva trovare sulle pendici vulcaniche del Vesuvio, ed è per questo che è stata associato a Napoli: dal XVII secolo un giallo composto da stagno, piombo e antimonio era spesso chiamato “Giallo di Napoli”. Altre ricette per un giallo simile suggerivano di mescolare gli ossidi di piombo e stagno. Gli ingredienti non erano sempre troppo chiari, a dire il vero: quando i pittori medievali italiani si riferiscono al “giallorino”, non si può essere certi se intendono un materiale di piombo-stagno o di piombo-antimonio, ed è improbabile che i pittori riconoscessero la differenza. Prima che la chimica moderna chiarisse le cose alla fine del XVIII secolo, i nomi dei pigmenti potevano riferirsi alla tonalità indipendentemente dalla composizione o dall’origine, o viceversa. Era tutto molto confuso e dal nome non si poteva sempre essere sicuri di cosa si stava ottenendo – o, per lo storico di oggi, a cosa si riferisse un pittore.

Per certi aspetti è vero anche adesso. Un tubetto di moderno “giallo di Napoli” non conterrà più del piombo (per via della sua tossicità) né antimonio, ma potrebbe essere una miscela di bianco di titanio e un giallo a base di cromo, miscelato per imitare il colore del materiale tradizionale. Non c’è niente di male; anzi, è probabile che la vernice sia non solo meno velenosa, ma anche più stabile, per non dire più economica. Ma esempi come questo mostrano quanto i colori degli artisti siano legati alle tradizioni da cui sono emersi. Quando si parla di vermiglio, giallo indiano, marrone Vandyke, orpimento, il nome fa parte del fascino del colore e allude a un profondo legame con antichi maestri.

Una cosa è certa: non troverete lo splendido giallo orpimento sulla tavolozza del pittore moderno (a meno che non stia usando consapevolmente, e in questo caso piuttosto pericolosamente, dei materiali arcaici). Si tratta di un giallo dorato profondo, più fine dei gialli di Napoli e dello stagno di piombo. Il nome significa semplicemente “pigmento d’oro”, e il materiale risale ai tempi antichi: gli egiziani lo facevano macinando un raro minerale giallo. Ma nel Medioevo, i pericoli dell’orpimento erano ben noti. L’artista italiano Cennino Cennini dice nel suo manuale Il libro dell’arte, scritto alla fine del XIV secolo, che è “veramente velenoso”, e consiglia di “stare attenti a sporcarsi la bocca con esso”. Questo perché consiste nel composto chimico solfuro di arsenico.

L’orpimento era uno degli splendidi ma costosi pigmenti importati in Europa dall’Oriente, in questo caso dall’Asia Minore. (All’inizio del XIX secolo c’erano anche importazioni dalla Cina, tanto che l’orpimento veniva venduto in Gran Bretagna come giallo cinese). Tali importazioni allettanti arrivavano spesso attraverso il grande centro commerciale di Venezia, e l’orpimento era difficile da acquistare nel Nord Europa durante il Medioevo e il Rinascimento – a meno che si avessero connessioni specializzate con materiali esotici, come l’artista tedesco Lucas Cranach, che gestiva una farmacia. Alcuni orpimenti erano ottenuti artificialmente, dalle manipolazioni chimiche degli alchimisti. Questo tipo di colore può essere individuato sui dipinti antichi studiando le particelle di pigmento al microscopio: quelli fatti artificialmente tendono a essere più simili in dimensioni e hanno dei grani arrotondati. Dal XVIII secolo era comune riferirsi a questo orpimento artificiale come “giallo del re”. Rembrandt evidentemente aveva un fornitore di questo colore, che è stato identificato nel suo Ritratto di coppia di Isacco e Rebecca (spesso chiamato La sposa ebrea), dipinto intorno al 1665.

Se i pittori olandesi volevano un giallo dorato come l’orpimento senza il rischio di avvelenamento, l’Età dell’Impero fornì loro una possibilità. Dal XVII secolo infatti, i dipinti olandesi (compresi quelli di Jan Vermeer) cominciano a presentare un pigmento noto come “giallo indiano”, portato dal subcontinente dalle navi commerciali dell’Olanda. Arrivava sotto forma di palline di un verde-giallastro sporco, brillante e lucido, con il gusto acre dell’urina. Cosa poteva essere? Era davvero fatta di qualche tipo di urina? Abbondavano orride speculazioni; alcuni dicevano che l’ingrediente chiave era l’urina di serpenti o di cammelli, altri che era fatta con l’urina di animali nutriti con curcuma.

Il mistero sembrava risolto alla fine del XIX secolo da T. N. Mukharji, un autore, funzionario e curatore del Museo Indiano. Facendo indagini a Kolkata, Mukharji fu indirizzato a un villaggio alla periferia della città di Monghyr nella provincia di Bihar, presumibilmente l’unica fonte del materiale giallo. Qui, ha riferito, ha scoperto che un gruppo di proprietari di bestiame alimentava il proprio bestiame solo con foglie di mango. Raccoglievano l’urina delle mucche e la riscaldavano per far precipitare un solido giallo che pressavano ed essiccavano in grumi.

Le mucche (così si racconta) non ricevevano altre fonti di nutrimento e quindi erano in cattiva salute. (Le foglie di mango potrebbero anche contenere sostanze leggermente tossiche). In India tale mancanza di cura per il bestiame era sacrilega, e la legislazione ha effettivamente vietato la produzione di giallo indiano dal 1890.

C’è stato un dibattito su quanto di questa storia sia vera, ma lo schema di base sembra reggere: il pigmento ha una composizione chimica complicata, ma contiene sali di composti prodotti da sostanze nelle foglie di mango quando vengono metabolizzate nei reni.

Se la potenza mortale dell’arsenico o l’urina di mucca non attraevano gli artisti, la scelta dei gialli era decisamente poco brillante – letteralmente. C’erano estratti di piante gialle, come la saldatura o lo zafferano, che sbiadivano facilmente, o composti di stagno, piombo e antimonio con una qualità pallida e insipida. Non è difficile, quindi, immaginare l’eccitazione del chimico francese Nicolas Louis Vauquelin quando all’inizio del XIX secolo scoprì di poter produrre un materiale di un giallo vibrante attraverso l’alterazione chimica di un minerale della Siberia chiamato crocoite.

Questo materiale era di per sé rosso – era popolarmente chiamato piombo rosso siberiano, poiché c’era davvero del piombo in esso. Ma nel 1797 Vauquelin scoprì che c’era anche qualcos’altro: un elemento metallico che nessuno aveva visto prima, e che chiamò come la parola greca per il colore, cromo.

Il nome fu scelto in modo appropriato, perché Vauquelin scoprì presto che il cromo poteva produrre composti di vari colori brillanti. La crocoite è una forma naturale di cromato di piombo, e quando Vauquelin ricostituì questo composto artificialmente in laboratorio, scoprì che poteva assumere il colore giallo brillante. A seconda di come lo produceva, questo materiale poteva variare da un pallido giallo primula a una tonalità più profonda, fino all’arancione. Vauquelin capì nel 1804 che questi composti potevano essere pigmenti per artisti, e furono usati così anche quando cinque anni dopo il chimico francese pubblicò il suo rapporto scientifico sulle sue scoperte.

Il pigmento era costoso e tale rimase anche quando furono scoperti depositi di crocoite anche in Francia, Scozia e Stati Uniti. Il cromo poteva fornire anche i verdi, in particolare il pigmento che divenne noto come viridiano, che fu usato avidamente dagli impressionisti e da Paul Cézanne.

I colori al cromo giocano un ruolo importante nell’esplosione del colore del diciannovesimo secolo – evidente non solo nell’impressionismo e nella sua progenie (neoimpressionismo, fauvismo e nell’opera di Van Gogh) ma anche nei dipinti di J. M. W. Turner e dei preraffaelliti. Dopo le tonalità tenui e talvolta torbide del XVIII secolo – si pensi ai ritratti terrosi di Joshua Reynolds e al fogliame brunastro di Poussin e Watteau – era come se il sole fosse spuntato e un arcobaleno si fosse aperto nel cielo. La stessa luce del sole, dichiarava il post-impressionista Georges Seurat, aveva in sé un giallo-arancio dorato.

Per i loro gialli baciati dal sole, i preraffaelliti e gli impressionisti non avevano bisogno di fare affidamento solo sul cromo. Nel 1817, il chimico tedesco Friedrich Stromeyer notò che la fusione dello zinco produceva un sottoprodotto di colore giallo nel quale scoprì un altro elemento, che prese il nome dal termine arcaico dello zinco, cadmia: lo chiamò cadmio. Due anni dopo, mentre esplorava la chimica di questo elemento, scoprì che se si combina con lo zolfo genera un giallo particolarmente brillante – o, con qualche modifica al processo, un arancione. Verso la metà del secolo, quando la fusione dello zinco si espanse e si rese disponibile una quantità maggiore del suo sottoprodotto, questi materiali vennero venduti agli artisti come giallo cadmio e arancione cadmio.

C’è una lezione nei pigmenti di cadmio che si applica a tutti i colori e in tutte le epoche: sono stati spesso dei sottoprodotti di qualche altro processo chimico, spesso scoperti per caso mentre i chimici perseguono altri obiettivi – per fare unguenti, ad esempio, o sapone, vetro e metalli.

Se oggi compri un tubo etichettato come “giallo indiano”, mango e mucche non c’entrano più nulla. Probabilmente contiene un pigmento sintetico che va sotto il nome poco romantico di PY (pigment yellow) 139 – una molecola a base di carbonio che è una delle innumerevoli propaggini dell’industria sorta nel XIX secolo per fornire coloranti brillanti ai tessuti. Il primo di questi coloranti artificiali, scoperto nel 1856, fu l’anilina malva. Un “giallo anilina” chimicamente correlato – un membro dell’importante famiglia di coloranti chiamati coloranti azoici – fu immesso nel mercato sin dal 1863.

La fabbricazione di una galassia di colori sintetici grazie alla petrolchimica è un modo poco affascinante di parlare del mondo dei colori contemporanei, per lo meno rispetto all’epoca del giallo del re, dello zafferano e del giallo indiano. Si potrebbe pensare che ciò che si risparmia nel portafoglio sia sacrificato in romanticismo. Forse è così. Ma gli artisti sono in genere persone pragmatiche, desiderose di novità ma attaccate alla tradizione. Non c’è mai stato un momento in cui non abbiano avidamente colto nuovi pigmenti, né in cui non si siano affidati alla chimica per generarli. La collaborazione tra arte e scienza, artigianato e commercio, caso e design, rimane come sempre fortissima.


​BLU
Il blu rimanda da sempre a qualcosa al di là di noi stessi: è un colore che ci attira nel vuoto, nel cielo infinito. “Il blu è il tipico colore divino”, diceva Wassily Kandinsky nel suo libro Concerning the Spiritual in Art (1912). Chi ne dubiterebbe dopo aver visto il soffitto della Cappella dell’Arena di Padova, dipinto da Giotto intorno al 1305, colorata come gli ultimi istanti di un chiaro crepuscolo italiano? Alcune culture non riconoscono nemmeno che il cielo abbia un colore, come se nessuno spettro terrestre potesse contenerlo. Nell’antica teoria greca dei colori, il blu era un’oscurità con l’aggiunta di un po’ di luce.

Sembra abbastanza ovvio dunque che le sfumature notturne siano sempre state i colori più preziosi per gli artisti. Uno dei primi pigmenti blu prodotti chimicamente era praticamente un’industria autonoma. Le sculture in pietra ollare smaltate di blu prodotte in Medio Oriente, conosciute oggi come ceramiche, erano commercializzate in tutta Europa dal secondo millennio a.C. La ceramica è tipicamente associata all’antico Egitto, ma veniva prodotta in Mesopotamia già nel 4500 a.C., ben prima del tempo dei faraoni. Si tratta di una specie di smalto blu vetroso, creato riscaldando del quarzo schiacciato o della sabbia con del rame e una piccola quantità di calce o gesso e cenere. La tinta blu proviene dal rame – è della stessa famiglia dei ricchi cristalli blu di solfato di rame tipici dei laboratori di chimica scolastica, anche se la ceramica può variare dal verde turchese a un profondo blu scuro. Questi minerali oggi sono chiamati azzurrite e malachite, entrambi forme del carbonato di rame. Non è affatto improbabile, anche se impossibile da provare, che la fabbricazione del vetro dalla sabbia e dalla cenere alcalina o soda minerale sia iniziata grazie ad esperimenti di cottura della ceramica in un forno da qualche parte in Mesopotamia.

Una sperimentazione simile potrebbe aver dato origine alla scoperta del pigmento blu usato dagli egiziani, conosciuto semplicemente come blu egiziano. La ricetta, in ogni caso, è quasi la stessa: sabbia, minerali di rame e gesso o calcare. Ma a differenza dello smalto di ceramica, questo materiale non è vetroso ma cristallino, il che significa che gli atomi che lo compongono formano delle matrici ordinate, piuttosto che confuse. Produrre il pigmento richiede una certa abilità artigianale: sia la composizione che la temperatura del forno devono essere precisissime, a testimonianza del fatto che i chimici egiziani (come li chiamiamo oggi) conoscevano molto bene il loro mestiere – e che la produzione dei colori era vista come un importante ruolo sociale. Dopotutto, la pittura era tutt’altro che frivola: per lo più aveva un significato religioso e gli artisti erano considerati alla stregua dei sacerdoti.

I minerali come l’azzurrite e malachite sono ottimi pigmenti: il primo più bluastro, il secondo invece con una tinta verde. Entrambi hanno solo bisogno di essere macinati e mescolati con un legante liquido. Nel Medioevo come legante si usava generalmente il tuorlo d’uovo per dipingere sui pannelli di legno e bianco il d’uovo (chiamato “glair”) per lavorare sui manoscritti. L’azzurrite di buona qualità non era economica, ma c’erano depositi di questo minerale in tutta Europa. Per gli inglesi (che non avevano fonti locali) la scelta cadeva sul blu tedesco, che i tedeschi chiamavano “blu di montagna”.

Un’opera di Albrecht Altdorfer, 1520

Un blu più economico era l’estratto vegetale dell’indaco, usato come colorante fin dai tempi antichi. A differenza della maggior parte dei coloranti organici – quelli estratti da piante e animali – non si scioglie in acqua, ma può essere essiccato e macinato in polvere come un pigmento minerale, e poi mescolato con agenti leganti standard (come gli oli) per farne una vernice. Dà un blu scuro, a volte violaceo, a volte schiarito con il bianco di piombo; Cennino ha descritto una “specie di blu cielo che assomiglia all’azzurrite” fatto in questo modo dall’ “indaco di Baghdad”. Come suggerisce il nome – il latino “indicum” condivide la stessa radice di “India” – le fonti principali per un artista europeo medievale si trovavano in Oriente, sebbene una forma di indaco potesse anche essere estratta dalla pianta di guado, coltivata in Europa.

Ma l’artista che poteva trovare un mecenate abbastanza generoso avrebbe scelto un blu più raffinato. Quando il viaggiatore italiano Marco Polo raggiunse l’attuale Afghanistan intorno al 1271, visitò una cava sulle remote sorgenti del fiume Oxus. “Qui c’è un’alta montagna”, scrisse, “dalla quale si estrae il blu migliore e più fine”. La regione si chiama oggi Badakshan, e la pietra blu è il lapislazzuli, la fonte del pigmento ultramarino.

Cennino ci mostra quanto fosse venerato il blu oltremare nel Medioevo, scrivendo che “è un colore illustre, bellissimo e perfettissimo, al di là di tutti gli altri colori; non si potrebbe dire nulla su di esso, o fare qualcosa con esso, che la sua qualità non supererebbe ancora”. Come dice lo stesso nome, veniva importato dalle miniere di Badakshan (da “oltremare”) fin dal tredicesimo secolo circa, con costi elevati.

L’oltremare era prezioso non solo perché era un’importazione rara, ma perché era estremamente laborioso da produrre. Il lapislazzulo è venato del più splendido blu profondo, ma macinarlo è deludente: diventa grigiastro a causa delle impurità del minerale. Queste impurità devono essere separate dal materiale blu, il che viene fatto impastando il minerale in polvere con la cera e lavando la cera in acqua – il pigmento blu viene risciacquato nell’acqua. Questo deve essere fatto a lungo per purificare il pigmento. Le qualità più fini di ultramarino sono le prime a fuoriuscire dalla lavorazione, mentre gli ultimi lavaggi danno solo un prodotto di bassa qualità, più economico, chiamato cenere di ultramarino. L’ultramarino migliore costava più del suo peso in oro nel Medioevo e quindi era usato con parsimonia. Dipingere estesamente con questo colore, come fece Giotto nella Cappella dell’Arena, era un lusso estremo.

Più spesso il pittore medievale usava l’ultramarino solo per i componenti più preziosi di un dipinto. Questa sembra essere la ragione per cui la maggior parte delle pale d’altare di questo periodo che raffigurano la Vergine Maria la mostrano con vesti blu. Per quanto i teorici dell’arte hanno tentato di spiegare il significato simbolico del colore – la tonalità dell’umiltà – era in realtà in gran parte una questione economica. O, si potrebbe dire, di rendere i materiali preziosi un’offerta devozionale a Dio.

Si potrebbe confrontare l’azzurrite e l’ultramarino nell’esplosione di colore dell’opera di Tiziano Bacco e Arianna. Ecco la volta stellata che si illumina a giorno davanti ai nostri occhi, ed è dipinta proprio in blu oltremare. Così come la veste di Arianna, che domina la scena. Ma il mare stesso, sul quale vediamo la barca di Teseo che si allontana dal suo amante abbandonato, è azzurro, con la sua tinta verdastra.

Nel corso dei secoli, gli artisti hanno utilizzato anche qualche altro blu. Intorno al 1704 un colorista di nome Johann Jacob Diesbach, che lavorava nel laboratorio berlinese dell’alchimista Johann Conrad Dippel, stava tentando di fare un pigmento di lago rosso quando scoprì di aver prodotto qualcosa di molto diverso: un colore blu profondo. Aveva usato un lotto di alcali potassico nella sua ricetta, fornito da Dippel – ma che era contaminato con olio animale, presumibilmente preparato col sangue. Il ferro usato da Diesbach reagì con il materiale nell’olio e creò un composto che – insolitamente per il ferro – è di colore blu. Dal 1710 in poi il colore veniva prodotto come materiale per artisti, generalmente conosciuto come blu di Prussia.

Non era del tutto chiaro cosa ci fosse in questa miscela, e così per alcuni anni la ricetta per fare il blu di Prussia fu circondata da confusione e segretezza. Nel 1762 un chimico francese dichiarò che “Niente è più particolare del processo con cui si ottiene il blu di Prussia, e bisogna ammettere che, se il caso non avesse preso la mano, sarebbe stata necessaria una teoria complessa per inventarlo”. Ma il caso è stato un aiuto costante nella storia della fabbricazione dei colori. In ogni caso, il blu di Prussia era bello ed economico – un decimo del costo dell’ultramarino – ed era molto popolare tra gli artisti come Thomas Gainsborough e Antoine Watteau. Uno degli esempi più celebri è l’uso che ne fece il Canaletto.

Un altro blu del Rinascimento e del Barocco va sotto il nome di smalto, che non è molto diverso dal vetro blu cobalto delle cattedrali gotiche come Chartres, ridotto in polvere. Le sue origini sono oscure, ma potrebbero derivare dalla tecnologia vetraria; una fonte attribuisce l’invenzione a un vetraio boemo della metà del XVI secolo, anche se in realtà lo smalto appare anche in dipinti precedenti. Il cobalto si trova nelle miniere d’argento, dove la sua presunta tossicità (in realtà il cobalto è velenoso solo in dosi elevate, e la sua presenza in minime quantità è essenziale per la salute umana) ha fatto sì che prendesse il nome di “kobold”, creature simili a goblin che si dice infestino questi regni sotterranei e tormentino i minatori. I minerali naturali del cobalto, come la smaltite, sono stati usati fin dall’antichità per dare al vetro un ricco colore blu, e lo smalto è stato prodotto semplicemente macinandolo – non troppo finemente, perché poi il blu diventa pallido. Per via dei suoi grani grossi, lo smalto era un materiale granuloso e non era facile da usare per gli artisti.

Alcuni storici dell’arte non fanno distinzioni tra questo “blu di cobalto” e quelli a cui fu dato lo stesso nome nel XIX secolo. Ma questi ultimi erano pigmenti molto più fini e ricchi, fatti artificialmente con dei processi chimici. Alla fine del XVIII secolo il governo francese chiese al rinomato chimico Louis-Jacques Thénard di cercare un sostituto sintetico del costoso ultramarino. Dopo aver consultato i vasai, che usavano uno smalto blu vetroso color cobalto, nel 1802 Thénard ideò un pigmento fortemente colorato con una costituzione chimica simile: tecnicamente, il composto è detto alluminato di cobalto. Il cobalto dava diversi altri colori oltre al blu profondo. Negli anni 1850 un pigmento giallo a base di cobalto chiamato aureolina divenne disponibile in Francia, seguito poco dopo da un pigmento viola chiamato viola di cobalto: il primo pigmento viola puro, a parte alcuni estratti vegetali piuttosto instabili. Un pigmento blu cielo chiamato blu ceruleo, un composto di cobalto e stagno, era uno dei preferiti da alcuni dei post-impressionisti.

Ma ciò che gli artisti desideravano più di qualunque cosa era l’ultramarino – se solo non fosse stato così costoso! Anche a metà del diciannovesimo secolo continuava ad essere troppo costoso, ed è per questo che il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti causò molto sgomento (per non parlare delle spese aggiuntive) quando rovesciò un grosso vaso di vernice oltremare mentre lavorava a un dipinto murale per l’Università di Oxford.

Ai tempi di Rossetti, comunque, gli artisti avevano finalmente un’alternativa, ma molti di loro non avevano ancora imparato a fidarsi. Mentre la conoscenza e l’abilità chimica crescevano all’inizio del diciannovesimo secolo, portando sul mercato nuovi pigmenti come il blu di cobalto, sembrava possibile cercare di produrre artificialmente l’ultramarino.

Era un obiettivo per cui valeva la pena lottare, perché la produzione di pigmenti era diventata un grande affare. La fabbricazione di colori e vernici non riforniva gli artisti; c’era ora un apprezzamento enorme per il colore, in particolare per la decorazione di interni. Nel XIX secolo furono create delle fabbriche per produrre e macinare i pigmenti. Alcune li vendevano in forma pura ai fornitori degli artisti, che poi mescolavano le vernici per i loro clienti con pigmento e olio. Ma alcuni produttori di pigmenti, come Reeves e Winsor&Newton in Inghilterra, cominciarono a fornire colori ad olio già pronti; dagli anni 1840 questi furono venduti in tubetti di latta pieghevoli, che potevano essere sigillati per evitare che i colori si seccassero e potevano essere convenientemente trasportati per dipingere all’aperto.

Consapevole dell’importanza del mercato dei pigmenti, nel 1824 la Società francese per il sostegno dell’industria nazionale offrì un premio per la prima sintesi dell’ultramarino. Si tratta di un composto complicato da realizzare – insolitamente per i pigmenti inorganici, il colore blu non proviene da un metallo ma dalla presenza dello zolfo nei cristalli del minerale. Un primo passo avanti nella composizione dell’ultramarino fu fatto per la prima volta da due chimici francesi nel 1806, offrendo indizi su ciò che doveva entrare in una ricetta per produrlo. Nel 1828, un chimico industriale di nome Jean-Baptiste Guimet a Tolosa descrisse un modo per fare il blu partendo da argilla, soda, carbone, sabbia e zolfo, e gli fu assegnato il premio. In Inghilterra questo ultramarino sintetico fu poi ampiamente conosciuto come ultramarino francese, e Guimet fu in grado di venderlo a un decimo del costo del pigmento naturale. Negli anni 1830 c’erano fabbriche che producevano ultramarino sintetico in tutta Europa.

Gli artisti, nonostante i passi avanti, guardavano a questo sostituto con considerevole cautela. L’oltremare conservava ancora un po’ della sua vecchia mistica e maestosità, e i pittori erano riluttanti a credere che potesse essere prodotto su scala industriale. Forse la varietà sintetica era inferiore – potrebbe sbiadire o scolorire? In realtà l’ultramarino sintetico è (a differenza di alcuni pigmenti sintetici) molto stabile e affidabile, ma J. M. W. Turner era evidentemente ancora diffidente quando, a metà del secolo, stava per servirsi dell’ultramarino sulla tavolozza di un altro artista durante una delle “giornate di finitura” alla Royal Academy, dove gli artisti davano gli ultimi ritocchi ai dipinti già appesi alle pareti. Sentendo il grido che questo ultramarino era “francese”, Turner rifiutò di tamponarlo.

Ma alla fine del secolo, l’ultramarino sintetico era diventato un ingrediente standard della tavolozza: piccola meraviglia, visto che poteva essere cento o anche mille volte più economico della varietà naturale. L’ultramarino sintetico è il pigmento dell’International Klein Blue brevettato da Yves Klein, che usò per una serie di dipinti monocromatici negli anni ’50 e nei primi anni ’60. Ma l’ultramarino non ha mai avuto questo aspetto – almeno, non sulla tela.

Klein notò che i pigmenti tendono ad apparire più ricchi e splendenti come polvere secca che quando sono mescolati con un legante – un’altra conseguenza di come la luce viene trasmessa e rifratta – e così cercò di catturare questo aspetto in una pittura. Nel 1955 trovò la risposta che cercava in una resina sintetica fissativa chiamata Rhodopas M60A, prodotta dall’azienda chimica Rhone-Poulenc, che poteva essere diluita per agire come un legante senza compromettere la forza cromatica del pigmento. Questo dava alla superficie della pittura una consistenza opaca e vellutata. Klein collaborò con Edouard Adam, un produttore chimico parigino e rivenditore di materiali per artisti, per sviluppare una ricetta per legare l’ultramarino in questa resina, mescolata con altri solventi.

Anche nell’era moderna, quindi, alcuni artisti dipendevano ancora dall’assistenza e dalla competenza chimica. Nonostante la profusione di nuovi pigmenti dalle formulazioni chimiche, l’intima relazione dei pittori con i loro materiali non è mai del tutto svanita.