Vita quotidiana nel medioevo


Il suono delle campane segna l’inizio della giornata con la prima alle sei di mattina; nelle case, la gente si sveglia, si fa tre volte il segno della croce, si veste completamente, e lava ciò che resta scoperto, le mani e il viso. L’abitudine dell’antichità romana di prendere un bagno quotidiano si era ormai persa, alla pulizia del corpo si era ormai sostituita la pulizia della biancheria; i bagni pubblici, luogo tipico degli incontri amorosi e della prostituzione, sono ormai poco numerosi (Parigi nel 1292 ne contava ventisei per duecentomila abitanti), il bagno si fa solo se sporchi per motivi particolari o dopo un lungo viaggio con la tinozza per il bucato.

I vestiti sono: la camicia, indumento comune a uomo e donna, di lino, cotone, lana o seta per i più abbienti, con le maniche lunghe, accollata ma senza colletto; quella femminile arriva fino a terra, quella maschile a mezza gamba. Se non escono di casa, le donne delle classi agiate sopra la camicia indossano un’ampia veste da camera di lino o seta e d’inverno una giacca di ermellino. Uomini e donne sopra la camicia indossano una veste abbottonata e chiusa da lacci, quella maschile fino a mezza gamba quella femminile fino a terra. Sotto la veste gli uomini portano brache di stoffa leggera, lino o tela, e un secondo paio più pesante (di qui i detti “calare le brache” o “rimanere in brache di tela”). 

Ogni veste femminile è provvista di un certo numero di maniche di diversa foggia, colore e stoffa, da indossare a seconda dell’occasione e della stagione (da cui il detto “è un altro paio di maniche”). 

Dal VI-VIII secolo si usano tuniche di lana di foggia germanica D’inverno ci si protegge con una seconda veste della sessa lunghezza della prima e con mantelli di feltro o pelliccia (volpe, zibellino, ermellino, martora, lince, castoro, orso, lontra, faina, coniglio, talpa, agnello, tasso) per le classi più abbienti. 

Dal XIII secolo entrano in uso le calze di lana, lavorate ai ferri dalle donne di casa, talora anche suolate; durante il primo millennio invece si usavano fasce per proteggere le gambe, diventate poi pantaloni da lavoro e brache. Se non si indossavano calze suolate si usavano stivaletti o stivali, le donne pantofole, zoccoli o scarpe con suole o vere e proprie zeppe di sughero.

Le case sono per lo più a due o più piani collegati da scale di legno, la camera da letto occupa i piani superiori; quelle del ceto agiato hanno la facciata che dà sulla strada principale talora protetta da un porticato, a piano terra si trovano l’eventuale bottega e il granaio, sul retro il cortile, l’orto, la stalla, il ripostiglio, il fienile, il pollaio, la porcilaia, il forno, la legnaia, i fontanili per il bucato. A pianterreno si hanno quindi la cucina, con il focolare sul fondo, la dispensa, la sala da pranzo e, nelle case degli artigiani, la bottega, tutt’uno con la casa. Le stanze residenziali della famiglia cioè il soggiorno o sala da pranzo, al primo piano, sono costituite da un solo ambiente suddiviso da paratie i legno e da tendaggi. Le camere da letto occupano i piani superiori e vi si accede tramite una scala interna mentre talora alla sala da pranzo si accede per una scaletta esterna.

Il mobilio è scarso e pesante: nel soggiorno spesso anche ingresso e cucina, si trovano oltre al focolare un tavolo dove si preparano le vivande e si mangia; la madia in cui si conservano vari tipi di pentole e utensili; alcune panche. Nelle camere da letto si hanno una cassapanca per i vestiti, la biancheria e le pergamene di casa (i preziosi e il denaro erano custoditi in uno stipo bene ferrato e chiuso); un letto di grandi dimensioni con un pagliericcio e cuscini di piume, in cui dormivano più persone, mancando totalmente uno spazio differenziato (anche negli alberghi gli ospiti dormivano tutti in grandi stanze e i servi ai piedi del letto dei loro padroni) spesso sovrastato da immagini sacre, a volte una scranna. 

I bagni sono loggette sporgenti con un sedile che si apre su un canale, su un fossato che viene tenuto ben fornito di cenere o su un vicolo (a differenza della città romana infatti la città medievale è priva di una rete fognaria); mancano i lavabi, si usano treppiedi di ferro o legno poggiati a terra o al muro a sostegno di catini e brocche.

La giornata inizia con la Messa; la religione è parte integrante della vita medievale, tutti condividevano la stesa visione dei destini dell’uomo e dell’universo, anzi, il soprannaturale non era sentito distinto dalla vita terrena ma ne faceva parte, come la città antica sorgeva nel momento in cui venivano riconosciute le sue divinità ed era considerata un patto tra dei e uomini, in modo analogo nel Medioevo il mondo sensibile è popolato da presenze divine che intervengono continuamente. Guerre, carestie e pestilenze sono punizioni divine o opera dei demoni, la pioggia di ghiaccio era considerata opera dei demoni che vivevano nello strato d’aria intermedia fra quella chiara e tiepida vicino alla terra e quella caldissima più vicina al sole (così spiegava ad esempio il domenicano Giordano da Pisa in una sua famosa predica). Contro tutti questi pericoli era necessario prendere provvedimenti, recarsi spesso in Chiesa, una messa era considerata un’azione valida per scongiurare una malattia o far concludere un affare non meno di una medicina o di un viaggio, partecipare alle processioni, assistere alle sacre rappresentazioni, fare un pellegrinaggio. Le autorità civili si preoccupavano di garantire la concordia con Dio; speciali provvedimenti ordinavano affreschi rappresentanti la Vergine e i Santi lungo le mura o presso le porte raccomandandosi che fossero resistenti e di buona qualità; le campane venivano benedette e fatte suonare per scacciare gli eserciti nemici e gli altri mali opera del demonio, come la grandine, le tempeste e i fulmini.

Il popolo per proteggersi usava spesso amuleti e talismani perlopiù con immagini dei Santi, Sant’Agata contro le forze incontrollabili della natura, San Cristoforo e San Giuliano che proteggevano i viandanti e i pellegrini erano particolarmente invocati in caso di viaggio o anche di una semplice permanenza fuori dalle mura della città.
Avventurarsi per una strada esterna significava infatti mettere a rischio la propria vita; assalti di briganti, squadre di armati e anche animali feroci erano all’ordine del giorno.

La morte improvvisa e violenta senza potersi liberare dai peccati con la confessione, pentimento, penitenza e opere pie e che portava quindi dritti all’inferno, era la vera e propria ossessione dell’uomo medievale. Ecco perché così spesso si trova l’immagine di San Cristoforo, protettore dei traghettatori, dei viaggiatori e dei mercanti, sugli amuleti, cucita sui vestiti, dipinta sugli oggetti più vari e anche dipinta e di grandi dimensioni in modo che sia visibile anche da lontano su mura e palazzi, si credeva infatti che la sola vista dell’immagine del santo proteggesse dai pericoli.

Nonostante i pericoli tuttavia il viaggio è una delle necessità della vita medievale; non esistendo nessuna tecnica di conservazione dei cibi ogni giorno una gran quantità di vettovaglie devono essere trasportate in città dalle campagne. Gli spostamenti sono lenti e difficili, le grandi strade romane non sempre si sono conservate; durante i viaggi si procede a cavallo e in carrozza con frequenti cambi di cavalcature e soste, ma spesso è necessario muoversi a piedi ad esempio in prossimità dei passi montani. A cavallo o in carrozza non si percorrono più di 15-20 kilometri al giorno, 50 se il territorio è pianeggiante e la strada particolarmente agevole. 

Per il trasporto delle merci il traffico si svolge di preferenza per via fluviale, utilizzando barche e sfruttando venti favorevoli e correnti o se non è possibile utilizzando i remi. Se il fiume è povero d’acque si trainano le imbarcazioni da terra legandole a muli, buoi o cavalli. Particolarmente temuto è il viaggio per mare, detto non a caso periculum, al quale si ricorre in occasione di pellegrinaggi o azioni militari

Finita la messa mattutina, verso le sei del mattino, la giornata comincia; si fa una prima colazione, una seconda si fa all’ora terza verso le nove, e ci si reca al lavoro.
Gli artigiani aprono la loro bottega, i medici iniziano il loro giro, gli strilloni iniziano a percorrere le strade della città annunciando il carro del merciaio ambulante, gli ortolani escono verso la campagna, le massaie danno gli ordini alle serve o alle figlie per la cucina, il bucato e le altre faccende.
Le strade cittadine iniziano ad animarsi, animali domestici passano indisturbati, gli artigiani e i mercanti espongono la loro mercanzia, gran parte dei lavori si svolgono all’aperto, le botteghe comunicano con la strada e così le case. 

In strada si può acquistare di tutto: il pesce, tenuto in apposite vasche, carne, esposta sul banco del macellaio sotto la loggia o presso la sua bottega dove fanno bella mostra anche insaccati e carne secca appesi a stanghe appoggiate alle mensole sulla facciata, la verdura, il pane, ma anche mobili, utensili da cucina, attrezzi, stoffe, scarpe, calze suolate, sparsi al suolo o sui banchi degli artigiani presso le loro botteghe.

Ad animare le strade provvedono poi strilloni pubblici, banditori e messi del Comune, uomini che trattano i loro affari per le vie e le piazze, mercanti che vengono da altre terre.

Ogni giorno una gran quantità di persone e merci entrano in città; vista l’impossibilità di conservare i cibi, ogni giorno verdure, carni, selvaggina e altro devono essere trasportati dentro le mura dalla campagna.

Per le strade si possono incontrare poi folle di poveri e mendicanti che vivono di elemosina; era facile diventare poveri, bastava un raccolto andato male, una malattia, una frattura che rendeva storpi, per una donna la morte del marito o del padre; anche dementi e pazzi, chiamati spesso indemoniati, vivevano di elemosina. 

La Chiesa invitava a soccorrere gli indigenti ma non ci interrogava né si interveniva sulle cause del fenomeno, anzi riteneva che l’esistenza dei poveri fosse voluta da Dio per permettere ai ricchi di fare il bene necessario a cancellare molti peccati. 

Esclusi dalla città erano invece i lebbrosi, costretti a muoversi con sonagli e campanelli che segnalassero la loro presenza e permettessero agli altri di allontanarsi al loro arrivo. La Chiesa certo incitava alla carità facendo leva sul luminoso esempio dei Santi; è proprio narrando il suo incontro con un lebbroso che San Francesco inizia il suo Testamento, ma spesso i poveri e gli emarginati erano sentiti come un peso dalla comunità, talora venivano addirittura cacciati dalla città e lasciati al loro destino.

Altro spettacolo pubblico a cui si poteva assistere per le strade e nelle piazze era la pubblica punizione dei criminali che spesso venivano portati in giro per le vie della città ed esposti agli insulti degli astanti per essere di monito alla popolazione; i sodomiti erano bruciati sul rogo, i ladri erano frustati messi alla gogna e marchiati a fuoco sulle guance, i bestemmiatori erano frustati e trascinati per la città con una tenaglia alla lingua, gli omicidi erano trascinati legati alla coda di un mulo o di un cavallo e infine impiccati e così i traditori e i turbatori della pace pubblica.

Le punizioni infernali che spesso si vedono rappresentate nelle pitture sono rappresentazioni delle vere torture alle quali erano sottoposti i criminali. Lo scopo delle immagini particolarmente paurose era anche in questo caso quello di imprimere nelle menti il terrore per il destino di dannazione che spettava ai peccatori.

Sempre all’aperto e soprattutto nelle piazze cittadine si ascoltavano le parole dei predicatori, ma anche le storie e i canti dei giullari che narravano le avventure dei cavalieri e dei paladini, ma anche le vite dei santi, altrettanto avventurose ed “eroiche”, gli spettacoli dei saltimbanchi con i loro giochi di prestigio, le bestie ammaestrate.

Anche un funerale poteva diventare una sorta di spettacolo pubblico; se il defunto era degno di particolari onori poteva essere salutato da una processione con bandiere e cavalli bardati, uomini e donne di tutte le classi nei loro abiti migliori, la dipartita era prima annunciata dai gridatori dei morti a cavallo, seguiva poi un grande pranzo nella casa del lutto e poi il rito funebre, con costi e numero di partecipanti variabile a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.
Tutto questo non deve stupire anche perché la morte faceva parte dell’esperienza quotidiana molto più di quanto ne sia parte oggi; la mortalità infantile era altissima (dal 10 al 20% dei bambini moriva entro il decimo anno d’età), quasi ogni donna prima o poi passava per l’esperienza della perdita di un figlio e molto alta era anche la morte per il parto o le sue conseguenze, un uomo di sessant’anni era considerato vecchissimo.
Ai medici si ricorreva di rado, solo in casi estremi, la spesa era infatti ingente. La diagnosi poi, per lo più incomprensibile per l’ammalato e la sua famiglia e adornata di belle parole, non si basava sull’osservazione del corpo, ma sulle nozioni apprese dai libri (le prime dissezioni anatomiche furono eseguite a Bologna alla fine del XIII secolo, e solo gli anatomisti del Rinascimento modificarono veramente le concezioni medievali), nozioni che a loro volta si basavano sul sapere antico, sugli antichi trattati di Ippocrate o Galeno accessibili solo tramite traduzioni spesso fuorvianti; spesso i medici (come anche i copisti che glossavano i manoscritti) giungevano al significato di un termine dall’etimologia, secondo il principio tutto medievale per il quale i nomi sono conseguenza delle cose (nomina sunt consequentia rerum) e visto che il medioevo non conosceva il greco antico spesso la stessa etimologia era sbagliata o anche inventata ad hoc. Né deve stupire che un’epoca gerarchica e teocentrica come quella medievale si cercassero nella Sacra Scrittura risposte anche a questioni mediche vedendo, ad esempio, gli organi del corpo femminile, come “progettati” da Dio al solo fine di procreare, unica finalità assegnata alla donna dal Creatore e dalla Scrittura.
Gli unici gesti che i medici compivano era tastare il polso del paziente ed osservare le sue urine in un vaso di vetro. I rimedi consigliati erano perlopiù salassi o, per chi le conosceva si ricorreva alle erbe medicinali, note ad esempio, attraverso l’Herbarium di Lucio Apuleio riferito da Plinio. Anche per questo i medici erano spesso vittima dell’ironia dei novellieri e degli artisti.
Una preghiera era spesso considerata più utile del consiglio di un medico; gli stessi farmacisti erano bene consapevoli del limite dei loro rimedi, infatti nelle botteghe di farmacisti e speziali si potevano trovare ex-voto di cera, che rappresentavano la parte del corpo guarita grazie all’intercessione di un santo e che il fedele deponeva sulla tomba del protettore in segno di riconoscenza.
Ma rimedi e pozioni veri e propri erano monopolio delle donne; costrette a vivere chiuse in casa e uniche responsabili della salute dei figli erano “funzionalmente” costrette ad imparare le virtù delle erbe e tramandare la conoscenza alle loro figlie. Spesso sono le donne ad intervenire con pratiche di tipo medico su molte malattie femminili; le donne assistono i parti, praticando talora anche tagli cesarei, specialmente se la madre muore durante il parto prima che il bambino sia uscito dal suo ventre, accudiscono il neonato e se necessario gli somministrano medicine.
Inutile dire che dalla medicina alla stregoneria il passo è breve. Molte donne venivano accusate di fabbricare unguenti magici e compiere malefici soprattutto nei confronti di bambini piccoli; se un bambino non cresceva, perché gracile o malato, poteva essere ritenuto uno “scambiatino” cioè un bimbo che era stato sostituito dal diavolo con una creatura infernale destinata a non cambiare mai. Lo sfortunato bimbo poteva essere sottoposto a crudeli riti volti a costringere il diavolo a riportare il bimbo rapito. La mortalità infantile era altissima, così come la malnutrizione e le malattie che ne erano conseguenza, per questo si trovavano spiegazioni e capri espiatori di ogni sorta; naturalmente il diavolo si prestava bene in ogni evenienza.
Sempre alle donne spettava poi naturalmente la cura della casa; pensare al fuoco, accenderlo era un’operazione lunga e complessa, bisognava preparare un’esca adatta, battere la pietra focaia sull’acciarino fino ad ottenere una scintilla e ravvivarla soffiando con una cannuccia. Una volta ottenuto il fuoco era necessario mantenerlo; se le braci si spegnevano era più facile andare da una vicina e chiederle di poter avvicinare al suo focolare uno straccio per poi poter accendere il proprio. La stessa cura era riservata alle braci che ogni sera dovevano essere coperte di cenere per non provocare incendi e per essere ritrovate la mattina successiva. Anche l’acqua era tanto necessaria quanto faticosa da ottenere; i privilegiati avevano un pozzo proprio a cui attingere, in alcune case nobiliari era presente addirittura attingere l’acqua sul ballatoio di ogni piano da una finestra che dava accesso a pozzo, il popolo invece doveva ricorrere alle fontane pubbliche o ai pozzi comuni dei quartieri. Ogni tipo di faccenda era quindi infinitamente più faticosa e complessa, anche la preparazione di un semplice pasto, costituito quasi sempre da una zuppa, richiedeva una lunghissima preparazione a partire appunto dall’allestimento del fuoco e dal rifornimento dell’acqua.
Giunta l’ora di pranzo ognuno rientrava a casa; per i ricchi il pasto era a base di carne speziata, salse, selvaggina, insaccati, verdure, legumi, uova, formaggi, frutti freschi e canditi, dolci speziati e vino; I poveri mangiavano perlopiù zuppe con verdure, legumi, cereali a seconda del luogo e della stagione arricchita magari da un pezzo di lardo, pane, uova, formaggi, talora selvaggina a seconda della disponibilità, carne di maiale una volta l’anno, il giorno della macellazione, pesce di fiume, vino solo in circostanze particolari. Non si adoperavano piatti, né forchette ma grosse fette di pane sulle quali si appoggiava la carne con la sua salsa; non si usavano tovaglioli ma veniva passata l’acqua per lavarsi le mani tra una portata e l’altra e anche la tovaglia veniva cambiata spesso. Si disponeva di un bicchiere ogni due persone si tagliano le porzioni con un grosso coltello e ci si serve con le mani.

Al pranzo seguiva la siesta e l’intrattenimento fuori dalle case o presso le botteghe con storielle e facezie scambiate con i vicini.
Dopo il pasto serale invece nessuno, tranne la piccola masnada che frequenta le osterie per bere e giocare a dadi sempre in cerca di brighe, esce più per le strade.

Si gettano gli abiti su una pertica orizzontale, per proteggerli dagli animali, cani o topi che siano, si tiene indosso solo la camicia che si leva solo sotto le coperte e ci si rimette subito appena svegli, e ci si addormenta. 

A intervalli regolari si levano i monaci per suonare le campane, prima la mezzanotte, poi il mattutino, poi le lodi, che segneranno l’inizio di una nuova giornata.


Bibliografia.
Arsenio e Chiara Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Bari, Laterza, 1997.
Ludovico Gatto, Il Medioevo giorno per giorno, Roma, Newton Compton editori, 2006.