Pompei: La Villa dei Misteri "non" Svelati - by Valeria Scuderi


L'elaborazione di questo articolo nasce dalla curiosità di comprendere il significato degli affreschi che decorano le pareti del triclinio 
della Villa dei Misteri di Pompei. Dopo aver letto l'articolo di
Alberto Cottignoli pubblicato il 13/05/15 sul suo blog, in cui lui polemizza con l'interpretazione classica di questi affreschi. Ho deciso di confrontare le sue ipotesi con quella che invece è la lettura condivisa dalla maggior parte degli altri studiosi della villa. Per farlo ho usato l'articolo pubblicato da Valeria Auricchio il 23/01/18 su Altervista, il Senso del Bello.

Valeria Auricchio introduce la storia della villa ubicata a poche centinaia di metri fuori dalle mura dell’antica città di Pompei, sepolta durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. La villa (inizialmente chiamata villa Item), fu riportata alla luce tra il 1909 e il 1910, durante uno scavo condotto dal proprietario del terreno sotto cui era sepolto l’edificio. Dopo l’esproprio dell’area da parte dello Stato Italiano, lo scavo fu ripreso in modo scientifico negli anni 1929-1930, sotto la guida dell’archeologo Amedeo Maiuri. 
Appartenuta forse agli Istacidii, nota famiglia della Pompei di età augustea, la Villa dei Misteri è il tipico esempio di residenza di lusso sviluppatosi a partire dal tardo II secolo a.C. come rifugio dal caos urbano
L’edificio, a pianta quadrata, fu costruito su un pendio affacciato verso la marina, lungo la strada che da Pompei si dirigeva a Ercolano
Intorno al 60 a.C. la villa fu rinnovata con una ricchissima decorazione parietale e pavimentale, mentre assunse l’aspetto odierno durante gli interventi seguiti al terremoto del 62 d.C., periodo in cui avvenne la conversione da villa residenziale a fattoria agricola.


La Villa dei Misteri vista dall’esterno.

Ciò che rende la Villa dei Misteri uno degli edifici più celebri, affascinanti e visitati del Parco Archeologico di Pompei, è senza dubbio 
il ciclo di affreschi del triclinio, raffigurante riti misterici, da cui la struttura prende il nome. 

La pittura, in secondo stile pompeiano, ricopre le quattro pareti della sala. In origine, quest’ambiente, ornato da un pavimento in sectile a riquadri in bianco e nero, era un oecus, collegato alla doppia alcova nuzialee solo più tardi assunse la destinazione di triclinio invernale. 

Realizzato da un artista anonimo nel I secolo a.C., il grande affresco raffigura ventinove personaggi di dimensioni quasi naturali che sembrano essere stati ritagliati, incollati e privati delle ombre, un genere pittorico definito “megalografia”, disposti a gruppi sopra un podio decorato a finto marmo, che corre lungo la parte inferiore delle pareti. La maggior parte degli studiosi ha riconosciuto nella scena la rappresentazione di un rito legato a Dioniso (il dio venerato dai romani col nome di Bacco), ispirata "probabilmente" a un originale ellenistico riferibile all’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci.



Bacchino di Guido Reni

BACCO E I BACCANALI
La devozione a Bacco affonda radici profonde nel mondo italico e romano e si traduce nella diffusione dei “baccanali”, festività divenute poi veri e propri riti orgiastici durante i quali veniva invocato il dio. Nel 186 a.C. il Senato romano, nel tentativo di frenare la rapida diffusione di queste cerimonie misteriche, estranee alla religione ufficiale di Statoemanò un’ordinanza che ne vietava lo svolgimentoil Senatus consultum de Bacchanalibus. Ma il culto continuò a diffondersi segretamente, in particolar modo in Campania. E una testimonianza della complessità di quei riti è rappresentata proprio dal grande affresco della Villa dei Misteri a Pompei.

ANALISI DEGLI AFFRESCHI
Lo sconosciuto autore di quest'opera viene comunemente definito "pittore locale" in quanto il suo lavoro viene confrontato con altre pitture parietali pompeiane che rivelano maggiore maestria nell'esecuzione, soprattutto per quanto riguarda l'anatomia dei personaggi. Tuttavia, Alberto Cottignoli afferma che, chi così semplicemente lo definisce sembra non rendersi conto del fatto che tutte le altre pitture di Pompei s'ispirarono "almeno in parte" a opere precedentemente dipinte a Roma o addirittura in GreciaAlla luce di questa precisazione la dimensione dell'autore del ciclo che agisce invece in piena autonomia si eleva enormemente al di sopra dei suoi colleghi.

Alberto Cottignoli lamenta che il recente restauro degli affreschi, operato con una moderna tecnica laser, ha compromesso, almeno in parte, la sua lettura. Alberto, fa notare che il colore dominante in tutti gli episodi, oltre al rosso dei fondali, è il VIOLA, anche se il restauro purtroppo ha compromesso ed eliminato le infinite sfumature di questo colore che il pittore aveva utilizzato e che davano al dipinto una ricchezza cromatica che adesso non possiede più. Fortunatamente rimangono delle foto di questo capolavoro precedenti al restauro.



Per il colore ​VIOLA, occorre fare riferimento al Mito di Dioniso ed Ametista per rendersi conto che, per l’antichità greco-romana, il colore del vino viene ritenuto il viola, probabilmente perché all’epoca permaneva  nel vino il colore del mosto.​ Il viola era il colore utilizzato nei baccanali e nei riti Dionisiaci.​Dioniso si invaghì della ninfa Ametista che cercò di sfuggirgli, ma il Dio le scagliò contro i suoi leopardi. Ella allora chiese aiuto ad Artemide a cui aveva votato la sua verginità e la Dea per salvarla la trasformò in una statua di cristallo. Il Dio allora, preso dal furore, rovesciò sulla statua una coppa di vino che ​colorò il cristallo ​di viola​, nacque così l’ametista.

Il grandioso fregio appare come una sequenza di fotogrammi che immortalano diversi momenti della cerimonia con le figure impegnate in azioni sacre. 

​PRIMO EPISODIO



La lettura classica degli affreschi indica nella prima scena tre donne e un bambino nudo, identificato come Dioniso fanciullo (quindi puro), intento nella lettura delle formule sacre sotto la guida della madre Semele e della zia Ino, segue poi una terza donna che porta un'offerta. È plausibile, quindi, che questa sia la sequenza della catechesi, dove a sinistra è affrescata la sposa iniziata ai riti, e al centro una sacerdotessa con accanto il fanciullo che legge i testi sacri. 

Alberto Cottignoli, si oppone a questa lettura, affermando che il giovanissimo personaggio raffigurato all’inizio del ciclo non è di sesso maschile ma FEMMINILE, secondo lui, è assai probabile che i restauratori abbiano confuso il sesso del personaggio identificando nell'intonaco rovinato, un piccolo sesso maschile (nella foto), a cui però mancano i testicoli. A conferma di questa ipotesi, Alberto fa notare che gli episodi successivi si riferiscono all’evolversi di eventi riguardanti sempre il medesimo personaggio, che secondo lui sarebbe una ragazza iniziata ai culti dionisiaci. Che si tratti dello stesso personaggio, ormai cresciuta, lo rivelerebbe un particolare: il papiro, che la bambina legge attentamente nel primo episodio, e che ritroviamo nell’episodio successivo, inserito nella veste dell'ancella che versa l'acqua dalla brocca. 



La bambina, precisa Alberto Cottignoli, che vediamo all’interno di una stanza, che molto probabilmente non è quella della sua famiglia, viene educata da una insegnante (la figura femminile alla sua destra), ai principi dionisiaci in presenza di una anziana matrona dipinta alla sua sinistra. Che di insegnamenti dionisiaci si tratti ce lo confermano il fatto che la bambina sia nuda, la spalla scoperta della giovane insegnante, e i colori della sua veste che sono il bianco e il viola (a sottolineare il tentativo di sovrapporre dei principi negativi dionisiaci all’animo ancora candido ed inconsapevole della bimba). La matura matrona, dal volto contratto in una smorfia risoluta, tiene il braccio destro appoggiato al fianco con atteggiamento determinato e prevaricatore, è probabilmente colei che ha sacrificato la bimba al culto.



La bimba appare evidentemente spaventata, notiamo la sua postura mentre legge il papiro che le è stato dato: essa ha LO SGUARDO PERPLESSO, E LE SPALLE LEGGERMENTE SOLLEVATE E RISTRETTE, CIOE' HA L'ATTEGGIAMENTO DI CHI SI TROVA DAVANTI QUALCOSA CHE LO SPAVENTA E CON CUI NON VORREBBE AVERE A CHE FARE. E' questo atteggiamento contrito che ci da la sicurezza di trovarci di fronte ad una innocente bambina e non certo a Dioniso fanciullo che avrebbe invece letto con grande interesse e godimento gli insegnamenti relativi al proprio culto.

Sulla destra poi, è  presente un terzo personaggio un'ancella con il capo cinto da una corona di mirto, che trasporta un vassoio con un’offerta e che si appresta a varcare la scena successiva. La donna ci guarda ammiccante, muovendo e accompagnando il nostro sguardo verso l’episodio successivo.

Sul contenuto del vassoio si è a lungo discusso, la maggioranza degli studiosi vi avvisa una focaccia considerata di buon auspicio per gli sposi, ma secondo Alberto Cottignoli si tratterebbe di una pezza di stoffa di color viola bordata in oro accuratamente ripiegata e di un ramoscello di mirto o d'ulivo, oggetti che ritroveremo anche nella scena successiva. 


SECONDO EPISODIO
immagine dopo il restauro
In questa scena, secondo la lettura ufficiale, sono rappresentate tre donne impegnate nella preparazione di un bagno rituale che, secondo la tradizione, precedeva il primo rapporto sessuale. La sposa siede al centro di spalle, ed è assistita da due ancelle, una sostiene un cesto coperto da un drappo contenente forse gli oggetti sacri del rito, l’altra versa dell’acqua su un ramo di mirto, pianta considerata simbolo di fecondità, sacra ad Afrodite, ma legata anche a Dioniso in quanto, nell’antica Grecia, si raccontava che quando il dio era sceso nell’Ade per liberare la madre Semele aveva dovuto lasciare in cambio una pianta di mirto.  

Alberto Cottignoli, ci da una lettura leggermente diversa anche di questo secondo episodio, dove secondo lui la ragazza di spalle sarebbe la bambina ormai cresciuta, che continua ad essere la protagonista del racconto. La fanciulla siede su di un sedile ricoperto da un tessuto color oro bordato di viola, ha il capo coperto da un fazzoletto listato di viola coronato con foglie di mirto o di alloro, e solleva con la mano sinistra una stoffa viola contenuta in una scatola, che le viene offerta da un'ancella, quasi a soppesare la possibilità di vestirsi anch'ella di quel colore. Ci conferma il rito di iniziazione alle pratiche dionisiache il fatto che ella stringa nella destra un ramoscello di mirto, che si accinge a purificare (Abluzione), lavandolo in una patera. Il ramoscello di mirto simboleggia la dimensione boschiva ricollegabile al ciclo vitale della vegetazione.


particolare del ramoscello di mirto presente prima del restauro
Alberto Cottignoli, protesta  che l’iconografia tradizionale sostiene una colossale sciocchezza, e cioè che la protagonista si accingerebbe ad un “bagno rituale”, sottintendendo quindi che la struttura che le sta davanti sia una vasca e che quindi il personaggio di destra stia versando acqua nella vasca medesima, è invece ben visibile che la parte sinistra della supposta "vasca" non è che una scatola sorretta dall'ancella, e che quanto si trova davanti alla protagonista sia un tavolo su cui è poggiata la patera (piatto) in cui viene purificato il rametto di mirto. Ancor più ci inquieta il fatto che per riempire una vasca si possa utilizzare una piccola brocca, per cui non basterebbero centinaia di viaggi per avere una quantità di acqua sufficiente a riempire una vasca da bagno.



A versare l'acqua che serve a purificare il ramoscello di mirto (o ulivo) ​è una "panisca" dalle orecchie appuntite come quelle dei satiri, che ha la testa coronata di foglie di mirto, e la veste di color viola​, dalla cui cintola spunta un rotolo di pergamena.​ ​Sicuramente si tratta della stessa pergamena con insegnamenti dionisiaci che la protagonista leggeva da bambina ma, il suo inserimento ​nella cintola​sembra alludere a un fallo eretto.



Con che animo poi, la protagonista si disponga a divenire una ​sacerdotessa, possiamo percepirlo dalla sua espressione​, notiamo​ ​gli angoli della bocca piegati ​verso ​i​l​ basso, la pupilla spostata in alto, semicoperta dalla palpebra, denotano la profonda amarezza con cui ella si sta sottoponendo a questa cerimonia. E’ ben chiaro che ella sta subendo una costrizione a cui non può sottrarsi ma che le sue intenzioni sarebbero ben altre.
TERZO EPISODIO
In questa scena, si entra nel mondo mitico del corteo dionisiaco: un vecchio sileno dalla figura possente intento a suonare la lira, un giovane satiro che suona una siringa e una Panisca seduti su un masso roccioso. Due capretti stanno loro accanto e uno di essi sugge il latte dal seno della Panisca. Vi è poi una donna che forse sta ballando, o che forse è spaventa, ma da cosa?
 Ma Alberto Cottignoli, ​è incerto sulla natura dei due personaggi raffigurati al centro, che secondo lui non sono un satiro e una panisca, ma due satiri di sesso maschile, inoltre ci fa notare che nella foto scattata dopo il restauro, il personaggio sulla destra sembra semplicemente accarezzando il capretto, invece che allattarlo.



Chiude la scena (e la parete) una figura femminile in posizione dinamica, forse balla, o come dice Alberto Cottignoli, sembra arretrare spaventata innanzi a ciò che vede sulla parete di fronte, ovvero la flagellazione di una neofita.  
QUARTO EPISODIO
Qui osserviamo una scena divisa in tre episodi: 
1) sulla sinistra è rappresentato un sileno che, secondo Alberto Cottignoli, sembra volgere lo sguardo accigliato alla donna terrorizzata della sequenza precedente, e che regge una coppa in cui si sta specchiando un giovane satiro (che allude alla catottromanzia, ossia la divinazione attraverso lo specchio). Un secondo satiro solleva beffardo una maschera teatrale, ricordandoci che il culto di Dioniso è strettamente legato alle origini del teatro.
Anche per questa scena, Alberto Cottignoli, nota degli errori d'interpretazione: i satiri dovrebbero avere volti caprini e capelli incolti, e non indossano mantelli ma al massimo pelli di leopardo. Il ragazzo di destra non sta specchiandosi perchè l'oggetto in cui sta guardando non è uno specchio ma un recipiente o una tazza. Però non sta neppure bevendo da uno skyphos come proposto da altri. Secondo Cottignoli, il sileno porge al ragazzo un contenitore perché lui vi guardi dentro. Egli non si accinge a specchiarsi o a bere, bensì sta guardando con estrema attenzione l’interno del vaso. Ce lo rivela la pupilla sua che fissa il fondo del vaso, per praticare la ”oinomanzia”, cioè la lettura dei fondi del vino rimasti all’interno dei vasi, finalizzata a predire il futuro. Una pratica largamente in uso tra i romani e dalla quale si sviluppò poi quella della lettura dei fondi di thé e di caffè. E di chi sia il futuro che viene letto, secondo Alberto Cottignoli, ce lo dice la testa del vecchio sileno e lo sguardo suo girati verso sinistra, verso la protagonista dell’episodio di iniziazione, e la tragicità di quanto l’adepto veda nel vaso ci è rivelata dall’altro adepto, che innalza sopra il compagno una maschera tragica.



2) Il centro della sequenza è occupato da Dioniso che si abbandona languidamente tra le braccia di una figura femminile seduta in trono (che è purtroppo lacunosa, essendo questa la parte più rovinata della megalografia). La tesi maggiormente seguita, identifica questa figura femminile con Arianna, sposa di Dioniso. La coppia divina starebbe a simboleggiare la felicità ultraterrena che attende gli iniziati al culto. Secondo altri studi, invece, potrebbe trattarsi della dea Afrodite, in quanto la donna ha un ruolo rilevante nella scena e quindi sarebbe più plausibile identificarla con una divinità. Un’altra ipotesi avanzata dal professore Gilles Sauron, autore di "Memorie di una devota di Dioniso" (Jaca Book Editore), identifica la figura con Semele, la madre del dio. 

3) Sulla destra del quarto episodio,  è raffigurata l’azione più significativa, il rito essenziale del culto dionisiaco: lo svelamento della cesta mistica, tradotto con l’immagine di una donna inginocchiata presso una cesta che nasconde, sotto un drappo di porpora, un simbolo fallico di grosse dimensioni la cui forma è ben evidente, ovvero il simbolo della fecondità. Di fronte vi è un essere femminile alato (forse Teleté, figlia di Dioniso e Nikaia, il cui nome significa “iniziazione”, “ultimo compimento”) che, munita di bastone, si appresta a colpire il dorso nudo della donna.

Anche qui Alberto Cottignoli, rivela un colossale errore nella lettura iconografica tradizionale relativa all’atteggiamento della protagonista inginocchiata , lettura che recita “...una giovane donna in atto di proteggere il contenuto di un paniere coperto da un panno...”: ma quale atto protettivo? possibile che non ci si sia accorti del tirso che l'ha obbligata ad inginocchiarsi e che nessuno si sia chiesto come faccia il panno a reggersi, teso com’è verso l’alto? Quale magica forza lo attira? Forse che la nostra protagonista, è un’antenata del mago Silvan ed esperta quindi di levitazione? Forse che il panno è stato inamidato ad arte o forse che è sostenuto da quello, anch’esso forse abbondantemente inamidato che si distacca dai fianchi del personaggio alato?  

Alberto Cottignoli, protesta che nessuno si è accorto che la mano della protagonista sovrapposta al panno è di fattura scadentissima al contrario di quella che accarezza il fallo che è invece molto ben eseguita? E come mai il panno termina in alto con quella netta linea orizzontale che lo fa levitare nel nulla, in modo assolutamente insensato? Come non capire che questa zona era sicuramente danneggiata all’epoca della scoperta e che un restauratore ​della prima metà del 1900, ha operato un restauro completamente privo di senso? Sicuramente il panno era sostenuto in alto dalla mano della protagonista, mano che era naturalmente atteggiata in modo leggermente diverso.

Ma risolto questo problema, andiamo a cercare di decodificare chi sia e quale funzione abbia la figura alata armata di frusta. La sua natura è sicuramente problematica ma tendiamo ad identificarla, con un certo margine di certezza, con una delle Lare, custodi della virtù di epoca etrusca (rappresentate quasi sempre alate), personaggi il cui culto, popolarissimo, attraversa tutto il periodo romano per arrivare poi addirittura ad assimilare le Lare agli angeli cristiani. L’atteggiamento di questo personaggio corrisponderebbe perfettamente alla natura di queste divinità, preposte appunto anche alla salvaguardia dei canoni di dirittura morale a cui la protagonista sta venendo meno: ella (la Lara) tenta, infatti, minacciandola con la frusta mentre si accinge a scoprire il fallo, di far desistere la protagonista dalle sue intenzioni.
Alberto Cottignoli, nota poi come la lettura iconografica tradizionale di un altro particolare di questo episodio sia assolutamente priva di senso: l’idea che questo personaggio alato stia frustando la donna dipinta sull’altra parete e non quella davanti a lui è semplicemente assurda, la postura delle gambe della supposta “Lara” non è assolutamente ricollegabile con un’azione diretta alle proprie spalle ma solo con un’azione laterale alla sua destra, la frusta è quindi alzata per colpire la figura inginocchiata davanti al fallo e la motivazione evidente è determinata dal fatto che ella sta compiendo un’azione moralmente disdicevole. Vediamo infatti come la donna alata sia visibilmente disgustata da quanto avviene davanti a lei e come cerchi di non vedere e di allontanarsi simbolicamente da quanto sta accadendo, alzando la mano sinistra (un gesto talmente usuale da potersi addirittura ritenere retorico e non si capisce perchè non sia stato riconosciuto).

Riguardo al fatto che la supposta “Lara” guarda verso destra, essa è così girata per due motivi: per distrarre lo sguardo dalla protagonista e da quanto ella sta facendo e contemporaneamente per invitaci a entrare nell’episodio seguente. Già avevamo visto come in ogni episodio fosse presente un personaggio che invitava con lo sguardo e l’azione  a passare all’episodio successivo: la donna con vassoio nel primo episodio ci invita a seguirla nel secondo e nel secondo la protagonista è girata a destra verso la rappresentazione dionisiaca; qui poi, la menade con velo alzato all'estrema destra dell'episodio, guarda di nuovo verso destra ad introdurci alla quarta scena. La figura alata è quindi anch’essa girata verso destra per assecondare la prassi di passaggio all’ultimo episodio rappresentato nella parete adiacente.
In ogni caso è chiaro che la figura alata interpretabile come “Lara” rappresenta una sorta di “divinità” positiva (infatti è l’unico personaggio alato) che si oppone alla discoverta del falloAlberto Cottignoli azzarda un’ipotesi: la figura sembra rappresentare il genio alato (una Lara appunto) preposto all’attività sessuale regolare, cioè legato ad un sano coinvolgimento sentimentale, ovviamente contrari​a all’orgiastica ed indiscriminata gestione dell’attività sessuale tipica dei riti dionisiaci: una specie di moraleggiante fustigatore non ignoto, anche se in altre forme, a tutte le epoche storiche. Non dimentichiamo che tutto questo corrisponde al fatto che poi dalle Lare sembrano essere derivati i “Lari”, cioè le divinità protettici della famiglia romana e quindi anche dei rapporti sessuali attuati all’interno di legami sentimentali ed istituzionalizzati. 

QUINTO  EPISODIO


Epilogo: la protagonista divenuta adepta dei culti dionisiaci

La cerimonia continua, infatti, con la flagellazione dell’iniziata, raffigurata in ginocchio e con la schiena nuda, china sulle gambe di una compagna dall’espressione pietosa. Il volto è seminascosto fra le pieghe delle vesti ed è solcato da occhiaie profonde, le ciocche dei capelli sono incollate alla fronte e alle tempie dal sudore: tutto suggerisce il dolore che sta provando. Secondo le antiche fonti, nei riti dionisiaci la fustigazione era intesa come mezzo catartico​, ipotizzando​ che questa donna sia una giovane sposa infeconda che subisce la flagellazione per cacciare dal suo corpo la sterilità, assimilando quindi i Misteri ai Lupercalia, antichi rituali in cui le donne sterili venivano frustate per essere rese feconde. 
La cerimonia si chiude con un donna nuda, l’iniziata ormai divenuta baccante, invasa dall’ebrezza del dio, che danza orgiasticamente suonando i cembali. È accompagnata da una ministra del culto che regge il tirso, ovvero l’alto bastone sormontato da un viluppo d’edera in forma di pigna, il più famoso attributo di Dioniso. È una danza delirante, vorticosa, che trascina i sensi e lo spirito oltre il dolore e la gioia, conducendo all’estasi

Anche per quest'ultima scena Alberto Cottignoli propone un'interpretazione differente, secondo lui, la donna seminuda che piange affranta sulle ginocchia dell'altra donna, non piange perché viene frustata, ma piuttosto perché è stata costretta fin da bambina ad iniziarsi al culto dionisiaco contro la sua volontà. Quali che siano le motivazioni di questa costrizione non lo sapremo mai, ma è indubbio che quella di diventare una baccante non è una sua scelta. Essendo stata fin da piccola soggetta ad insegnamenti dionisiaci​, Alberto immagina​ che si tratti di un’orfana priva di beni e quindi costretta a comportarsi in tal modo per sopravvivere, ma in ogni caso la povertà deve essere stata senza dubbio la causa fondamentale del suo dover accettare le scelte che le furono imposte. Ci conferma comunque il suo ingresso nella comunità dionisiaca il fatto che adesso indossi il panno viola che prima copriva il fallo nella cesta e il fatto che a consolarla sia una donna, in vesti discinte, con corona di foglie che le cinge i capelli.
La donna seminuda danzante, secondo ​Alberto, è anche in questo caso sempre la protagonista che è appena stata spogliata, dalla donna dietro di lei, del panno viola che indossava nell’episodio precedente.



Particolare della donna che si spoglia

Che questa nuda danzante sia la medesima donna piangente, è testimoniato della banda di stoffa dorata che emerge da sotto gomito destro della donna in lacrime, che è lo stesso utilizzato dalla ballerina. Stupisce il particolare della banda di stoffa color ocra tesa al vento: quasi a simboleggiare una vela pronta a far della donna un oramai ingovernato vascello, preda d’ogni mutar di vento che con se trascini il suo corpo. L’epilogo è adesso chiarissimo: il processo di iniziazione si è concluso e la protagonista, divenuta una seguace di Dioniso, pare adesso identificarsi in una menade che liberamente espone il suo corpo nudo, danzante, a chi sia pronto a concupirla.  
Le bande di stoffa di colore identico prima dei restauri

Sulle pareti ai lati dell’ingresso della sala sono raffigurate,  da una parte una bellissima e giovane ragazza dai capelli biondi (forse la sposa a cui è dedicato il ciclo pittorico), assistita da un’ancella e da un amorino durante la toletta nuziale (come a sottolineare che il rito della sacra iniziazione è rivolto alle spose); dall’altra, una matrona, seduta ed elegantemente ammantata, intenta a osservare le fasi del rito. Forse è la facoltosa padrona della villa e, in quanto tale, committente del grande affresco dionisiaco. E chissà che quest’ultimo non sia proprio la rappresentazione simbolica delle sue nozze​ iniziatiche​, ​cioè ​della sua iniziazione al Mistero.  


CONCLUSIONI
La complessa lettura sopra descritta, secondo me (Valeria Scuderi 05/04/20), non è riuscita a svelare alcun mistero.


Il primo mistero, è la data in cui il ciclo di affreschi è stato dipinto, se dipinti sul finire del I secolo a.C (60 a.C), questi sarebbero di secondo stile, e decorerebbero una sala (un oecus), che immetteva in una stanza da letto, descritta come alcova nunziale di una villa dell’ozio. Mentre se dipinti dopo il terremoto del 69 d.C, sarebbero di quarto stile, e decorerebbero le pareti di un triclinio invernale di una fattoria agricola.

Volendo ipotizzare che il ciclo sia stato dipinto sul finire del I secolo a.C, e quindi in secondo stile, a chi apparteneva la villa dell’ozio, e a chi era dedicato il ciclo di affreschi?

Le fonti storiche indicano che la villa apparteneva in origine alla famiglia degli Istacidii, nota famiglia della Pompei di età augustea (ma in questo caso gli affreschi sarebbero di terzo stile e non secondo). Comunque sia, secondo questa ipotesi, il ciclo di affreschi sarebbe stato dipinto per addestrare una giovane sposa alle gioie derivate da una sana vita sessuale, che ha come scopo finale la procreazione di una numerosa prole. Però notiamo, nelle varie scene, che la fanciulla protagonista del racconto, non si presta con piacere a queste iniziazioni, anzi sembra scandalizzata e disgustata all’idea di doversi lasciare andare ai piaceri delle lenzuola. Ovviamente, bisognerebbe conoscere l’età e l’aspetto del marito, per poter giustificare la sua riluttanza a lasciarsi andare.

Rimangono però incomprensibili, la presenza del bambino/o bambina raffigurato nella prima scena, quale sarebbe il suo rapporto con la giovane sposa?

Se invece, la villa e l’alcova, fossero appartenuti ad una sacerdotessa, forse identificabile con l’elegante matrona raffigurata sulla parete di destra che osserva incuriosita le fasi del rito. Essa avrebbe commissionato al pittore di rappresentare le varie fasi d’iniziazione a cui si è dovuta sottomettere prima di diventare una baccante. Se così fosse l’alcova sarebbe stata utilizzata dalla donna per ricevere dei clienti e non un marito. In questo caso il ciclo potrebbe essere stato dipinto nel 60 a.C, cioè prima che la villa passasse di proprietà alla famiglia degli Istacidii in epoca augustea, confermando di conseguenza che il ciclo pittorico è di secondo stile.

Rimane però un ultimo mistero, e cioè per quale motivo la famiglia degli Istacidii avrebbe conservato tale ciclo pittorico, legato ad un rito divenuto fuori legge già dal 186 a.C, proibizione rimarcata dalle leggi Augustee? E perché il ciclo pittorico non fu alterato dopo il terremoto del 69 d.C, cioè quando la villa dell’ozio fu trasformata in una fattoria agricola, e l’alcova in un triclinio d’inverno?

Per me i misteri rimangono taciuti, soprattutto non sono convinta che il ciclo pittorico sia stato dipinto nel I secolo a.C, ma piuttosto secondo me fu dipinto in epoca neroniana, e quindi dopo il terremoto del 69 d.C, età in cui i riti dionisiaci erano tornati in auge. Ma anche in questo caso, rimane un mistero, e cioè per quale motivo la donna appare restia e contrariata nell’essere iniziata ai misteri delle pratiche sessuali?
APPENDICE:
IL SIGNIFICATO SIMBOLICO DELLE PIANTE

ALLORO: 
Considerata in antichitа la pianta della metamorfosi e dell’illuminazione, l'alloro è il simbolo della sapienza divina. Pianta consacrata ad Apollo​ (​Ovidio racconta​ ​che il dio del sole si era perdutamente innamorato della ninfa Dafne, ​che si tramutò in una pianta di alloro, Apollo, allora x rimanerle vicino, si cinse la testa con le sue foglie).​
Gli antichi romani​ ​ponevano sul capo dei poeti e dei generali vittoriosi ​una corona​ di alloro​, chiamata 'laurea'  rimasta nelle epoche successive come iconografia nella rappresentazione pittorica di poeti ed imperatori​.


MIRTO: 
Gli antichi greci avevano associato il mirto all'universo femminile, rendendo la pianta sacra alla dea Afrodite. ​E'​ stato sempre considerato simbolo di feconditа, tanto che veniva usato nei banchetti di nozze come augurio di vita serena e felice.Una corona di mirto posta sul capo era anche augurio di buona sorte.​ ​ Dai romani antichi era considerato una rappresentazione dell’amore sia sacro che profano. Con una corona di mirto, simbolo dell’unione coniugale, chiamata "coniugalo" si soleva adornare le spose il giorno delle nozze. Si credeva che chiunque lo toccasse potesse essere folgorato da una nuova e duratura passione.
Gli antichi abitanti di Creta ritenevano avesse proprietа afrodisiache, invitando a raccoglierne un rametto a tutte le persone in cerca d'amore.
Nell’antica Roma era una delle piante simboliche pi​ù​ importanti e secondo Tito Livio l’Urbe era nata nel punto dove era spuntato questo arbusto​,per questo era anche ritenuto un simbolo di gloria e supremazia, tanto che le corone di mirto sostituivano a volte quelle di alloro nell'ornare il capo dei generali vincitori.

OLIVO:
I greci antichi consideravano l’olivo una pianta sacra e la usavano per fare delle corone con cui cingevano gli atleti vincitori delle olimpiadi. A quel tempo la pianta non era ancora l’olivo coltivato ma il suo progenitore selvatico l’oleastro. Secondo il mito ci pens​ò​ Atena a trasformare la pianta selvatica in pianta coltivata e da quel momento essa divenne sacra alla Vergine Atena e di conseguenza divenne anche simbolo di castità.