Pompei: La Villa dei Misteri "non" Svelati - by Valeria Scuderi


L'elaborazione di questo articolo nasce dalla curiosità di comprendere il significato degli affreschi che decorano le pareti del triclinio 
della Villa dei Misteri di Pompei. Dopo aver letto l'articolo di
Alberto Cottignoli pubblicato il 13/05/15 sul suo blog, in cui lui polemizza con l'interpretazione classica di questi affreschi. Ho deciso di confrontare le sue ipotesi con quella che invece è la lettura condivisa dalla maggior parte degli altri studiosi della villa. Per farlo ho usato l'articolo pubblicato da Valeria Auricchio il 23/01/18 su Altervista, il Senso del Bello.

Valeria Auricchio introduce la storia della villa ubicata a poche centinaia di metri fuori dalle mura dell’antica città di Pompei, sepolta durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. La villa (inizialmente chiamata villa Item), fu riportata alla luce tra il 1909 e il 1910, durante uno scavo condotto dal proprietario del terreno sotto cui era sepolto l’edificio. Dopo l’esproprio dell’area da parte dello Stato Italiano, lo scavo fu ripreso in modo scientifico negli anni 1929-1930, sotto la guida dell’archeologo Amedeo Maiuri. 
Appartenuta forse agli Istacidii, nota famiglia della Pompei di età augustea, la Villa dei Misteri è il tipico esempio di residenza di lusso sviluppatosi a partire dal tardo II secolo a.C. come rifugio dal caos urbano
L’edificio, a pianta quadrata, fu costruito su un pendio affacciato verso la marina, lungo la strada che da Pompei si dirigeva a Ercolano
Intorno al 60 a.C. la villa fu rinnovata con una ricchissima decorazione parietale e pavimentale, mentre assunse l’aspetto odierno durante gli interventi seguiti al terremoto del 62 d.C., periodo in cui avvenne la conversione da villa residenziale a fattoria agricola.


La Villa dei Misteri vista dall’esterno.

Ciò che rende la Villa dei Misteri uno degli edifici più celebri, affascinanti e visitati del Parco Archeologico di Pompei, è senza dubbio 
il ciclo di affreschi del triclinio, raffigurante riti misterici, da cui la struttura prende il nome. 

La pittura, in secondo stile pompeiano, ricopre le quattro pareti della sala. In origine, quest’ambiente, ornato da un pavimento in sectile a riquadri in bianco e nero, era un oecus, collegato alla doppia alcova nuzialee solo più tardi assunse la destinazione di triclinio invernale. 

Realizzato da un artista anonimo nel I secolo a.C., il grande affresco raffigura ventinove personaggi di dimensioni quasi naturali che sembrano essere stati ritagliati, incollati e privati delle ombre, un genere pittorico definito “megalografia”, disposti a gruppi sopra un podio decorato a finto marmo, che corre lungo la parte inferiore delle pareti. La maggior parte degli studiosi ha riconosciuto nella scena la rappresentazione di un rito legato a Dioniso (il dio venerato dai romani col nome di Bacco), ispirata "probabilmente" a un originale ellenistico riferibile all’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci.



Bacchino di Guido Reni

BACCO E I BACCANALI
La devozione a Bacco affonda radici profonde nel mondo italico e romano e si traduce nella diffusione dei “baccanali”, festività divenute poi veri e propri riti orgiastici durante i quali veniva invocato il dio. Nel 186 a.C. il Senato romano, nel tentativo di frenare la rapida diffusione di queste cerimonie misteriche, estranee alla religione ufficiale di Statoemanò un’ordinanza che ne vietava lo svolgimentoil Senatus consultum de Bacchanalibus. Ma il culto continuò a diffondersi segretamente, in particolar modo in Campania. E una testimonianza della complessità di quei riti è rappresentata proprio dal grande affresco della Villa dei Misteri a Pompei.

ANALISI DEGLI AFFRESCHI
Lo sconosciuto autore di quest'opera viene comunemente definito "pittore locale" in quanto il suo lavoro viene confrontato con altre pitture parietali pompeiane che rivelano maggiore maestria nell'esecuzione, soprattutto per quanto riguarda l'anatomia dei personaggi. Tuttavia, Alberto Cottignoli afferma che, chi così semplicemente lo definisce sembra non rendersi conto del fatto che tutte le altre pitture di Pompei s'ispirarono "almeno in parte" a opere precedentemente dipinte a Roma o addirittura in GreciaAlla luce di questa precisazione la dimensione dell'autore del ciclo che agisce invece in piena autonomia si eleva enormemente al di sopra dei suoi colleghi.

Alberto Cottignoli lamenta che il recente restauro degli affreschi, operato con una moderna tecnica laser, ha compromesso, almeno in parte, la sua lettura. Alberto, fa notare che il colore dominante in tutti gli episodi, oltre al rosso dei fondali, è il VIOLA, anche se il restauro purtroppo ha compromesso ed eliminato le infinite sfumature di questo colore che il pittore aveva utilizzato e che davano al dipinto una ricchezza cromatica che adesso non possiede più. Fortunatamente rimangono delle foto di questo capolavoro precedenti al restauro.



Per il colore ​VIOLA, occorre fare riferimento al Mito di Dioniso ed Ametista per rendersi conto che, per l’antichità greco-romana, il colore del vino viene ritenuto il viola, probabilmente perché all’epoca permaneva  nel vino il colore del mosto.​ Il viola era il colore utilizzato nei baccanali e nei riti Dionisiaci.​Dioniso si invaghì della ninfa Ametista che cercò di sfuggirgli, ma il Dio le scagliò contro i suoi leopardi. Ella allora chiese aiuto ad Artemide a cui aveva votato la sua verginità e la Dea per salvarla la trasformò in una statua di cristallo. Il Dio allora, preso dal furore, rovesciò sulla statua una coppa di vino che ​colorò il cristallo ​di viola​, nacque così l’ametista.

Il grandioso fregio appare come una sequenza di fotogrammi che immortalano diversi momenti della cerimonia con le figure impegnate in azioni sacre. 

​PRIMO EPISODIO



La lettura classica degli affreschi indica nella prima scena tre donne e un bambino nudo, identificato come Dioniso fanciullo (quindi puro), intento nella lettura delle formule sacre sotto la guida della madre Semele e della zia Ino, segue poi una terza donna che porta un'offerta. È plausibile, quindi, che questa sia la sequenza della catechesi, dove a sinistra è affrescata la sposa iniziata ai riti, e al centro una sacerdotessa con accanto il fanciullo che legge i testi sacri. 

Alberto Cottignoli, si oppone a questa lettura, affermando che il giovanissimo personaggio raffigurato all’inizio del ciclo non è di sesso maschile ma FEMMINILE, secondo lui, è assai probabile che i restauratori abbiano confuso il sesso del personaggio identificando nell'intonaco rovinato, un piccolo sesso maschile (nella foto), a cui però mancano i testicoli. A conferma di questa ipotesi, Alberto fa notare che gli episodi successivi si riferiscono all’evolversi di eventi riguardanti sempre il medesimo personaggio, che secondo lui sarebbe una ragazza iniziata ai culti dionisiaci. Che si tratti dello stesso personaggio, ormai cresciuta, lo rivelerebbe un particolare: il papiro, che la bambina legge attentamente nel primo episodio, e che ritroviamo nell’episodio successivo, inserito nella veste dell'ancella che versa l'acqua dalla brocca. 



La bambina, precisa Alberto Cottignoli, che vediamo all’interno di una stanza, che molto probabilmente non è quella della sua famiglia, viene educata da una insegnante (la figura femminile alla sua destra), ai principi dionisiaci in presenza di una anziana matrona dipinta alla sua sinistra. Che di insegnamenti dionisiaci si tratti ce lo confermano il fatto che la bambina sia nuda, la spalla scoperta della giovane insegnante, e i colori della sua veste che sono il bianco e il viola (a sottolineare il tentativo di sovrapporre dei principi negativi dionisiaci all’animo ancora candido ed inconsapevole della bimba). La matura matrona, dal volto contratto in una smorfia risoluta, tiene il braccio destro appoggiato al fianco con atteggiamento determinato e prevaricatore, è probabilmente colei che ha sacrificato la bimba al culto.



La bimba appare evidentemente spaventata, notiamo la sua postura mentre legge il papiro che le è stato dato: essa ha LO SGUARDO PERPLESSO, E LE SPALLE LEGGERMENTE SOLLEVATE E RISTRETTE, CIOE' HA L'ATTEGGIAMENTO DI CHI SI TROVA DAVANTI QUALCOSA CHE LO SPAVENTA E CON CUI NON VORREBBE AVERE A CHE FARE. E' questo atteggiamento contrito che ci da la sicurezza di trovarci di fronte ad una innocente bambina e non certo a Dioniso fanciullo che avrebbe invece letto con grande interesse e godimento gli insegnamenti relativi al proprio culto.

Sulla destra poi, è  presente un terzo personaggio un'ancella con il capo cinto da una corona di mirto, che trasporta un vassoio con un’offerta e che si appresta a varcare la scena successiva. La donna ci guarda ammiccante, muovendo e accompagnando il nostro sguardo verso l’episodio successivo.

Sul contenuto del vassoio si è a lungo discusso, la maggioranza degli studiosi vi avvisa una focaccia considerata di buon auspicio per gli sposi, ma secondo Alberto Cottignoli si tratterebbe di una pezza di stoffa di color viola bordata in oro accuratamente ripiegata e di un ramoscello di mirto o d'ulivo, oggetti che ritroveremo anche nella scena successiva. 


SECONDO EPISODIO
immagine dopo il restauro
In questa scena, secondo la lettura ufficiale, sono rappresentate tre donne impegnate nella preparazione di un bagno rituale che, secondo la tradizione, precedeva il primo rapporto sessuale. La sposa siede al centro di spalle, ed è assistita da due ancelle, una sostiene un cesto coperto da un drappo contenente forse gli oggetti sacri del rito, l’altra versa dell’acqua su un ramo di mirto, pianta considerata simbolo di fecondità, sacra ad Afrodite, ma legata anche a Dioniso in quanto, nell’antica Grecia, si raccontava che quando il dio era sceso nell’Ade per liberare la madre Semele aveva dovuto lasciare in cambio una pianta di mirto.  

Alberto Cottignoli, ci da una lettura leggermente diversa anche di questo secondo episodio, dove secondo lui la ragazza di spalle sarebbe la bambina ormai cresciuta, che continua ad essere la protagonista del racconto. La fanciulla siede su di un sedile ricoperto da un tessuto color oro bordato di viola, ha il capo coperto da un fazzoletto listato di viola coronato con foglie di mirto o di alloro, e solleva con la mano sinistra una stoffa viola contenuta in una scatola, che le viene offerta da un'ancella, quasi a soppesare la possibilità di vestirsi anch'ella di quel colore. Ci conferma il rito di iniziazione alle pratiche dionisiache il fatto che ella stringa nella destra un ramoscello di mirto, che si accinge a purificare (Abluzione), lavandolo in una patera. Il ramoscello di mirto simboleggia la dimensione boschiva ricollegabile al ciclo vitale della vegetazione.


particolare del ramoscello di mirto presente prima del restauro
Alberto Cottignoli, protesta  che l’iconografia tradizionale sostiene una colossale sciocchezza, e cioè che la protagonista si accingerebbe ad un “bagno rituale”, sottintendendo quindi che la struttura che le sta davanti sia una vasca e che quindi il personaggio di destra stia versando acqua nella vasca medesima, è invece ben visibile che la parte sinistra della supposta "vasca" non è che una scatola sorretta dall'ancella, e che quanto si trova davanti alla protagonista sia un tavolo su cui è poggiata la patera (piatto) in cui viene purificato il rametto di mirto. Ancor più ci inquieta il fatto che per riempire una vasca si possa utilizzare una piccola brocca, per cui non basterebbero centinaia di viaggi per avere una quantità di acqua sufficiente a riempire una vasca da bagno.



A versare l'acqua che serve a purificare il ramoscello di mirto (o ulivo) ​è una "panisca" dalle orecchie appuntite come quelle dei satiri, che ha la testa coronata di foglie di mirto, e la veste di color viola​, dalla cui cintola spunta un rotolo di pergamena.​ ​Sicuramente si tratta della stessa pergamena con insegnamenti dionisiaci che la protagonista leggeva da bambina ma, il suo inserimento ​nella cintola​sembra alludere a un fallo eretto.



Con che animo poi, la protagonista si disponga a divenire una ​sacerdotessa, possiamo percepirlo dalla sua espressione​, notiamo​ ​gli angoli della bocca piegati ​verso ​i​l​ basso, la pupilla spostata in alto, semicoperta dalla palpebra, denotano la profonda amarezza con cui ella si sta sottoponendo a questa cerimonia. E’ ben chiaro che ella sta subendo una costrizione a cui non può sottrarsi ma che le sue intenzioni sarebbero ben altre.
TERZO EPISODIO
In questa scena, si entra nel mondo mitico del corteo dionisiaco: un vecchio sileno dalla figura possente intento a suonare la lira, un giovane satiro che suona una siringa e una Panisca seduti su un masso roccioso. Due capretti stanno loro accanto e uno di essi sugge il latte dal seno della Panisca. Vi è poi una donna che forse sta ballando, o che forse è spaventa, ma da cosa?
 Ma Alberto Cottignoli, ​è incerto sulla natura dei due personaggi raffigurati al centro, che secondo lui non sono un satiro e una panisca, ma due satiri di sesso maschile, inoltre ci fa notare che nella foto scattata dopo il restauro, il personaggio sulla destra sembra semplicemente accarezzando il capretto, invece che allattarlo.



Chiude la scena (e la parete) una figura femminile in posizione dinamica, forse balla, o come dice Alberto Cottignoli, sembra arretrare spaventata innanzi a ciò che vede sulla parete di fronte, ovvero la flagellazione di una neofita.  
QUARTO EPISODIO
Qui osserviamo una scena divisa in tre episodi: 
1) sulla sinistra è rappresentato un sileno che, secondo Alberto Cottignoli, sembra volgere lo sguardo accigliato alla donna terrorizzata della sequenza precedente, e che regge una coppa in cui si sta specchiando un giovane satiro (che allude alla catottromanzia, ossia la divinazione attraverso lo specchio). Un secondo satiro solleva beffardo una maschera teatrale, ricordandoci che il culto di Dioniso è strettamente legato alle origini del teatro.
Anche per questa scena, Alberto Cottignoli, nota degli errori d'interpretazione: i satiri dovrebbero avere volti caprini e capelli incolti, e non indossano mantelli ma al massimo pelli di leopardo. Il ragazzo di destra non sta specchiandosi perchè l'oggetto in cui sta guardando non è uno specchio ma un recipiente o una tazza. Però non sta neppure bevendo da uno skyphos come proposto da altri. Secondo Cottignoli, il sileno porge al ragazzo un contenitore perché lui vi guardi dentro. Egli non si accinge a specchiarsi o a bere, bensì sta guardando con estrema attenzione l’interno del vaso. Ce lo rivela la pupilla sua che fissa il fondo del vaso, per praticare la ”oinomanzia”, cioè la lettura dei fondi del vino rimasti all’interno dei vasi, finalizzata a predire il futuro. Una pratica largamente in uso tra i romani e dalla quale si sviluppò poi quella della lettura dei fondi di thé e di caffè. E di chi sia il futuro che viene letto, secondo Alberto Cottignoli, ce lo dice la testa del vecchio sileno e lo sguardo suo girati verso sinistra, verso la protagonista dell’episodio di iniziazione, e la tragicità di quanto l’adepto veda nel vaso ci è rivelata dall’altro adepto, che innalza sopra il compagno una maschera tragica.



2) Il centro della sequenza è occupato da Dioniso che si abbandona languidamente tra le braccia di una figura femminile seduta in trono (che è purtroppo lacunosa, essendo questa la parte più rovinata della megalografia). La tesi maggiormente seguita, identifica questa figura femminile con Arianna, sposa di Dioniso. La coppia divina starebbe a simboleggiare la felicità ultraterrena che attende gli iniziati al culto. Secondo altri studi, invece, potrebbe trattarsi della dea Afrodite, in quanto la donna ha un ruolo rilevante nella scena e quindi sarebbe più plausibile identificarla con una divinità. Un’altra ipotesi avanzata dal professore Gilles Sauron, autore di "Memorie di una devota di Dioniso" (Jaca Book Editore), identifica la figura con Semele, la madre del dio. 

3) Sulla destra del quarto episodio,  è raffigurata l’azione più significativa, il rito essenziale del culto dionisiaco: lo svelamento della cesta mistica, tradotto con l’immagine di una donna inginocchiata presso una cesta che nasconde, sotto un drappo di porpora, un simbolo fallico di grosse dimensioni la cui forma è ben evidente, ovvero il simbolo della fecondità. Di fronte vi è un essere femminile alato (forse Teleté, figlia di Dioniso e Nikaia, il cui nome significa “iniziazione”, “ultimo compimento”) che, munita di bastone, si appresta a colpire il dorso nudo della donna.

Anche qui Alberto Cottignoli, rivela un colossale errore nella lettura iconografica tradizionale relativa all’atteggiamento della protagonista inginocchiata , lettura che recita “...una giovane donna in atto di proteggere il contenuto di un paniere coperto da un panno...”: ma quale atto protettivo? possibile che non ci si sia accorti del tirso che l'ha obbligata ad inginocchiarsi e che nessuno si sia chiesto come faccia il panno a reggersi, teso com’è verso l’alto? Quale magica forza lo attira? Forse che la nostra protagonista, è un’antenata del mago Silvan ed esperta quindi di levitazione? Forse che il panno è stato inamidato ad arte o forse che è sostenuto da quello, anch’esso forse abbondantemente inamidato che si distacca dai fianchi del personaggio alato?  

Alberto Cottignoli, protesta che nessuno si è accorto che la mano della protagonista sovrapposta al panno è di fattura scadentissima al contrario di quella che accarezza il fallo che è invece molto ben eseguita? E come mai il panno termina in alto con quella netta linea orizzontale che lo fa levitare nel nulla, in modo assolutamente insensato? Come non capire che questa zona era sicuramente danneggiata all’epoca della scoperta e che un restauratore ​della prima metà del 1900, ha operato un restauro completamente privo di senso? Sicuramente il panno era sostenuto in alto dalla mano della protagonista, mano che era naturalmente atteggiata in modo leggermente diverso.

Ma risolto questo problema, andiamo a cercare di decodificare chi sia e quale funzione abbia la figura alata armata di frusta. La sua natura è sicuramente problematica ma tendiamo ad identificarla, con un certo margine di certezza, con una delle Lare, custodi della virtù di epoca etrusca (rappresentate quasi sempre alate), personaggi il cui culto, popolarissimo, attraversa tutto il periodo romano per arrivare poi addirittura ad assimilare le Lare agli angeli cristiani. L’atteggiamento di questo personaggio corrisponderebbe perfettamente alla natura di queste divinità, preposte appunto anche alla salvaguardia dei canoni di dirittura morale a cui la protagonista sta venendo meno: ella (la Lara) tenta, infatti, minacciandola con la frusta mentre si accinge a scoprire il fallo, di far desistere la protagonista dalle sue intenzioni.
Alberto Cottignoli, nota poi come la lettura iconografica tradizionale di un altro particolare di questo episodio sia assolutamente priva di senso: l’idea che questo personaggio alato stia frustando la donna dipinta sull’altra parete e non quella davanti a lui è semplicemente assurda, la postura delle gambe della supposta “Lara” non è assolutamente ricollegabile con un’azione diretta alle proprie spalle ma solo con un’azione laterale alla sua destra, la frusta è quindi alzata per colpire la figura inginocchiata davanti al fallo e la motivazione evidente è determinata dal fatto che ella sta compiendo un’azione moralmente disdicevole. Vediamo infatti come la donna alata sia visibilmente disgustata da quanto avviene davanti a lei e come cerchi di non vedere e di allontanarsi simbolicamente da quanto sta accadendo, alzando la mano sinistra (un gesto talmente usuale da potersi addirittura ritenere retorico e non si capisce perchè non sia stato riconosciuto).

Riguardo al fatto che la supposta “Lara” guarda verso destra, essa è così girata per due motivi: per distrarre lo sguardo dalla protagonista e da quanto ella sta facendo e contemporaneamente per invitaci a entrare nell’episodio seguente. Già avevamo visto come in ogni episodio fosse presente un personaggio che invitava con lo sguardo e l’azione  a passare all’episodio successivo: la donna con vassoio nel primo episodio ci invita a seguirla nel secondo e nel secondo la protagonista è girata a destra verso la rappresentazione dionisiaca; qui poi, la menade con velo alzato all'estrema destra dell'episodio, guarda di nuovo verso destra ad introdurci alla quarta scena. La figura alata è quindi anch’essa girata verso destra per assecondare la prassi di passaggio all’ultimo episodio rappresentato nella parete adiacente.
In ogni caso è chiaro che la figura alata interpretabile come “Lara” rappresenta una sorta di “divinità” positiva (infatti è l’unico personaggio alato) che si oppone alla discoverta del falloAlberto Cottignoli azzarda un’ipotesi: la figura sembra rappresentare il genio alato (una Lara appunto) preposto all’attività sessuale regolare, cioè legato ad un sano coinvolgimento sentimentale, ovviamente contrari​a all’orgiastica ed indiscriminata gestione dell’attività sessuale tipica dei riti dionisiaci: una specie di moraleggiante fustigatore non ignoto, anche se in altre forme, a tutte le epoche storiche. Non dimentichiamo che tutto questo corrisponde al fatto che poi dalle Lare sembrano essere derivati i “Lari”, cioè le divinità protettici della famiglia romana e quindi anche dei rapporti sessuali attuati all’interno di legami sentimentali ed istituzionalizzati. 

QUINTO  EPISODIO


Epilogo: la protagonista divenuta adepta dei culti dionisiaci

La cerimonia continua, infatti, con la flagellazione dell’iniziata, raffigurata in ginocchio e con la schiena nuda, china sulle gambe di una compagna dall’espressione pietosa. Il volto è seminascosto fra le pieghe delle vesti ed è solcato da occhiaie profonde, le ciocche dei capelli sono incollate alla fronte e alle tempie dal sudore: tutto suggerisce il dolore che sta provando. Secondo le antiche fonti, nei riti dionisiaci la fustigazione era intesa come mezzo catartico​, ipotizzando​ che questa donna sia una giovane sposa infeconda che subisce la flagellazione per cacciare dal suo corpo la sterilità, assimilando quindi i Misteri ai Lupercalia, antichi rituali in cui le donne sterili venivano frustate per essere rese feconde. 
La cerimonia si chiude con un donna nuda, l’iniziata ormai divenuta baccante, invasa dall’ebrezza del dio, che danza orgiasticamente suonando i cembali. È accompagnata da una ministra del culto che regge il tirso, ovvero l’alto bastone sormontato da un viluppo d’edera in forma di pigna, il più famoso attributo di Dioniso. È una danza delirante, vorticosa, che trascina i sensi e lo spirito oltre il dolore e la gioia, conducendo all’estasi

Anche per quest'ultima scena Alberto Cottignoli propone un'interpretazione differente, secondo lui, la donna seminuda che piange affranta sulle ginocchia dell'altra donna, non piange perché viene frustata, ma piuttosto perché è stata costretta fin da bambina ad iniziarsi al culto dionisiaco contro la sua volontà. Quali che siano le motivazioni di questa costrizione non lo sapremo mai, ma è indubbio che quella di diventare una baccante non è una sua scelta. Essendo stata fin da piccola soggetta ad insegnamenti dionisiaci​, Alberto immagina​ che si tratti di un’orfana priva di beni e quindi costretta a comportarsi in tal modo per sopravvivere, ma in ogni caso la povertà deve essere stata senza dubbio la causa fondamentale del suo dover accettare le scelte che le furono imposte. Ci conferma comunque il suo ingresso nella comunità dionisiaca il fatto che adesso indossi il panno viola che prima copriva il fallo nella cesta e il fatto che a consolarla sia una donna, in vesti discinte, con corona di foglie che le cinge i capelli.
La donna seminuda danzante, secondo ​Alberto, è anche in questo caso sempre la protagonista che è appena stata spogliata, dalla donna dietro di lei, del panno viola che indossava nell’episodio precedente.



Particolare della donna che si spoglia

Che questa nuda danzante sia la medesima donna piangente, è testimoniato della banda di stoffa dorata che emerge da sotto gomito destro della donna in lacrime, che è lo stesso utilizzato dalla ballerina. Stupisce il particolare della banda di stoffa color ocra tesa al vento: quasi a simboleggiare una vela pronta a far della donna un oramai ingovernato vascello, preda d’ogni mutar di vento che con se trascini il suo corpo. L’epilogo è adesso chiarissimo: il processo di iniziazione si è concluso e la protagonista, divenuta una seguace di Dioniso, pare adesso identificarsi in una menade che liberamente espone il suo corpo nudo, danzante, a chi sia pronto a concupirla.  
Le bande di stoffa di colore identico prima dei restauri

Sulle pareti ai lati dell’ingresso della sala sono raffigurate,  da una parte una bellissima e giovane ragazza dai capelli biondi (forse la sposa a cui è dedicato il ciclo pittorico), assistita da un’ancella e da un amorino durante la toletta nuziale (come a sottolineare che il rito della sacra iniziazione è rivolto alle spose); dall’altra, una matrona, seduta ed elegantemente ammantata, intenta a osservare le fasi del rito. Forse è la facoltosa padrona della villa e, in quanto tale, committente del grande affresco dionisiaco. E chissà che quest’ultimo non sia proprio la rappresentazione simbolica delle sue nozze​ iniziatiche​, ​cioè ​della sua iniziazione al Mistero.  


CONCLUSIONI
La complessa lettura sopra descritta, secondo me (Valeria Scuderi 05/04/20), non è riuscita a svelare alcun mistero.


Il primo mistero, è la data in cui il ciclo di affreschi è stato dipinto, se dipinti sul finire del I secolo a.C (60 a.C), questi sarebbero di secondo stile, e decorerebbero una sala (un oecus), che immetteva in una stanza da letto, descritta come alcova nunziale di una villa dell’ozio. Mentre se dipinti dopo il terremoto del 69 d.C, sarebbero di quarto stile, e decorerebbero le pareti di un triclinio invernale di una fattoria agricola.

Volendo ipotizzare che il ciclo sia stato dipinto sul finire del I secolo a.C, e quindi in secondo stile, a chi apparteneva la villa dell’ozio, e a chi era dedicato il ciclo di affreschi?

Le fonti storiche indicano che la villa apparteneva in origine alla famiglia degli Istacidii, nota famiglia della Pompei di età augustea (ma in questo caso gli affreschi sarebbero di terzo stile e non secondo). Comunque sia, secondo questa ipotesi, il ciclo di affreschi sarebbe stato dipinto per addestrare una giovane sposa alle gioie derivate da una sana vita sessuale, che ha come scopo finale la procreazione di una numerosa prole. Però notiamo, nelle varie scene, che la fanciulla protagonista del racconto, non si presta con piacere a queste iniziazioni, anzi sembra scandalizzata e disgustata all’idea di doversi lasciare andare ai piaceri delle lenzuola. Ovviamente, bisognerebbe conoscere l’età e l’aspetto del marito, per poter giustificare la sua riluttanza a lasciarsi andare.

Rimangono però incomprensibili, la presenza del bambino/o bambina raffigurato nella prima scena, quale sarebbe il suo rapporto con la giovane sposa?

Se invece, la villa e l’alcova, fossero appartenuti ad una sacerdotessa, forse identificabile con l’elegante matrona raffigurata sulla parete di destra che osserva incuriosita le fasi del rito. Essa avrebbe commissionato al pittore di rappresentare le varie fasi d’iniziazione a cui si è dovuta sottomettere prima di diventare una baccante. Se così fosse l’alcova sarebbe stata utilizzata dalla donna per ricevere dei clienti e non un marito. In questo caso il ciclo potrebbe essere stato dipinto nel 60 a.C, cioè prima che la villa passasse di proprietà alla famiglia degli Istacidii in epoca augustea, confermando di conseguenza che il ciclo pittorico è di secondo stile.

Rimane però un ultimo mistero, e cioè per quale motivo la famiglia degli Istacidii avrebbe conservato tale ciclo pittorico, legato ad un rito divenuto fuori legge già dal 186 a.C, proibizione rimarcata dalle leggi Augustee? E perché il ciclo pittorico non fu alterato dopo il terremoto del 69 d.C, cioè quando la villa dell’ozio fu trasformata in una fattoria agricola, e l’alcova in un triclinio d’inverno?

Per me i misteri rimangono taciuti, soprattutto non sono convinta che il ciclo pittorico sia stato dipinto nel I secolo a.C, ma piuttosto secondo me fu dipinto in epoca neroniana, e quindi dopo il terremoto del 69 d.C, età in cui i riti dionisiaci erano tornati in auge. Ma anche in questo caso, rimane un mistero, e cioè per quale motivo la donna appare restia e contrariata nell’essere iniziata ai misteri delle pratiche sessuali?
APPENDICE:
IL SIGNIFICATO SIMBOLICO DELLE PIANTE

ALLORO: 
Considerata in antichitа la pianta della metamorfosi e dell’illuminazione, l'alloro è il simbolo della sapienza divina. Pianta consacrata ad Apollo​ (​Ovidio racconta​ ​che il dio del sole si era perdutamente innamorato della ninfa Dafne, ​che si tramutò in una pianta di alloro, Apollo, allora x rimanerle vicino, si cinse la testa con le sue foglie).​
Gli antichi romani​ ​ponevano sul capo dei poeti e dei generali vittoriosi ​una corona​ di alloro​, chiamata 'laurea'  rimasta nelle epoche successive come iconografia nella rappresentazione pittorica di poeti ed imperatori​.


MIRTO: 
Gli antichi greci avevano associato il mirto all'universo femminile, rendendo la pianta sacra alla dea Afrodite. ​E'​ stato sempre considerato simbolo di feconditа, tanto che veniva usato nei banchetti di nozze come augurio di vita serena e felice.Una corona di mirto posta sul capo era anche augurio di buona sorte.​ ​ Dai romani antichi era considerato una rappresentazione dell’amore sia sacro che profano. Con una corona di mirto, simbolo dell’unione coniugale, chiamata "coniugalo" si soleva adornare le spose il giorno delle nozze. Si credeva che chiunque lo toccasse potesse essere folgorato da una nuova e duratura passione.
Gli antichi abitanti di Creta ritenevano avesse proprietа afrodisiache, invitando a raccoglierne un rametto a tutte le persone in cerca d'amore.
Nell’antica Roma era una delle piante simboliche pi​ù​ importanti e secondo Tito Livio l’Urbe era nata nel punto dove era spuntato questo arbusto​,per questo era anche ritenuto un simbolo di gloria e supremazia, tanto che le corone di mirto sostituivano a volte quelle di alloro nell'ornare il capo dei generali vincitori.

OLIVO:
I greci antichi consideravano l’olivo una pianta sacra e la usavano per fare delle corone con cui cingevano gli atleti vincitori delle olimpiadi. A quel tempo la pianta non era ancora l’olivo coltivato ma il suo progenitore selvatico l’oleastro. Secondo il mito ci pens​ò​ Atena a trasformare la pianta selvatica in pianta coltivata e da quel momento essa divenne sacra alla Vergine Atena e di conseguenza divenne anche simbolo di castità.  

I Quattro stili della Pittura Romana - by Valeria Scuderi 21/03/20


Villa dei Misteri - Pompei 
In questo articolo vogliamo esaminare i principali stili della pittura romana, ma prima di farlo occorre introdurre l'argomento con una premessa, ed una introduzione storica.

PREMESSA
L'esigenza di scrivere questo articolo nasce dalla difficoltà nel distinguere e riconoscere i quattro stili della pittura romana, sopratutto gli ultimi tre. Spesso non è semplice distinguerli perché mischiati fra loro, poiché in uno stesso edificio possono coesistere pitture di più stili dipinte in fasi cronologiche diverse, mentre nel terzo e quarto stile spesso vi sono rimandi a modi pittorici precedenti. Inoltre, va osservato come gli affreschi di quarto stile sopravvissuti nella Domus Aurea di Roma, si presentino visivamente assai diversi da pitture coeve affrescate in ambito Vesuviano, dimostrando come il gusto del committente potesse influenzare l'esecuzione finale dei pittori

INTRODUZIONE  STORICA
La pittura romana è tra quelle che meglio si sono tramandate, nella generale rovina della pittura antica

La straordinaria conoscenza di questa pittura è dovuta soprattutto alle uniche condizioni di conservazione di Pompei e delle altre città vesuviane, dove sono stati ritrovati enormi quantitativi di pitture, soprattutto affreschi parietali, databili tra il II secolo a.C. e la data dell'eruzione che le sommerse nel 79 d.C. 

Lo studioso tedesco August Mau classificò la pittura pompeiana in quattro stili, basandosi sulle sue osservazioni, e sulle descrizioni trattate da Vitruvio nel VII libro del De Architectura.

Tuttavia, è bene ricordare che il centro della produzione della pittura romana non fu Pompei ma Rom​a​, dove schemi e modelli decorativi venivano elaborati prima di diffondersi nelle altre provincie

La pittura romana si può, a ragione, definire ​"​eclettica​"​ poiché fuse in se elementi presi a prestito dalla produzione artistica medio-italica (principalmente etrusca e campana) con quella ellenistica, di cui imitò modelli e tecniche, creando innumerevoli copie che, in maniera analoga alla scultura, hanno permesso di conoscere, con una certa approssimazione, gli originali perduti.

I modelli greci furono inizialmente difficili da far accettare a quella parte dei romani più legata alle tradizioni, ma l'intervento di eminenti personaggi pubblici, quali Giulio Cesare e l'imperatore Augusto, promotori di esposizioni artistiche di pittura grecacomportarono un aumento dell’interesse nei confronti di questa espressione artistica.

L'arte, espressione del suo tempo, testimone dei cambiamenti socio-politici e culturali di una nazione e del suo popolo, seppe tradurre in linguaggio figurato l'evoluzione della civiltà romana, attraverso le sue vittorie e conquiste sociali.​ 

​La pittura ad affresco si affermò inizialmente nella decorazione di templi e sepolcreti, ne abbiamo le prime testimonianze a partire dal IV secolo a.C quando prima nel Tempio della Salus (attribuite a Fabius Pictor) e poi nella necropoli Esquilina vennero dipinte scene delle guerre sannitiche. 

La pittura trionfale ebbe origine dalla tradizione di portare in trionfo nei cortei, delle tavole pittoriche raffiguranti le varie fasi della campagna militare che portò alla vittoria. Tale tradizione​, ebbe sicuramente influenza anche sul rilievo storico di epoca imperiale.

​La pittura​ ad affresco​ inizierà a diffondersi anche nelle abitazioni private​ dopo la conquista della Magna Grecia, Cartagine e Grecia, quando l’arte, il bello e lo sfarzo divennero testimonianza della potenza e dominio di Roma sul mar Mediterraneo. Potenza che accrebbe ancor più in epoca Silliana e Cesariana, affermandosi dopo la sconfitta dell’Egitto e l’ascesa al potere di Ottaviano Augusto, primo imperatore di Roma.

I QUATTRO STILI DELLA PITTURA ROMANA
Si individuano quattro "stili" per la pittura romana, anche se sarebbe più corretto parlare di schemi decorativi:
  • Il primo stile (detto ad incrostazione), imita strutture murarie e rivestimenti in marmi preziosi, derivato dalla pittura greca, iniziò a diffondersi a Roma dal II secolo a.C.
  • Il secondo stile (finte architetture e narrazioni pittoriche), databile dal 120 a.C. al 50 a.C. circa, non ha lasciato tracce fuori da Roma e le città vesuviane, eccezion fatta per le pareti affrescate del Santuario repubblicano di Brescia.
  • Il terzo stile (ornamentale), nato in epoca Augustea, continuò a diffondersi negli anni della dinastia Giulio-Claudia.
  • Il quarto stile (illusionismo prospettico), si affermò in età neroniana, distinguendosi dai precedenti per l'inserimento di architetture fantastiche di grande impatto visivo. Questo nuovo stile dilaga presto in tutto l’impero romano e perdura almeno fino al 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio che distruggendo le città vesuviane pone fine alla possibilità di classificare ulteriori evoluzioni stilistiche della pittura romana, poiché a Roma e nelle altre città dell'impero, la presenza di pitture successive al I secolo d.C. è molto scarsa.  
Per aiutare il lettore a meglio comprendere le differenze fra i quattro stili della pittura romana, ho utilizzato delle foto e dei link che rimandano ai vari siti archeologici qui esaminati.

Primo stile:
detto anche stile Strutturale o a Incrostazione, diffusa sia negli edifici pubblici che nelle abitazioni, imita strutture murarie con blocchi squadrati (opus quadratum), e eleganti lastre marmoree che disegnano forme geometriche e a meandro, utilizzando in alcuni casi anche elementi in stucco a rilievo, detti crusta, da cui il nome "stile dell'incrostazione". Le pitture di questo stile contengono anche piccoli elementi architettonici, come ad esempio pilastri per la divisione verticale delle superfici.
Le prime testimonianze relative e al primo stile si collocano a cavallo fra la fine del III secolo e II secolo aC. (età sannitica), sia negli edifici pubblici che nelle domus private.

Il primo stile derivava da una profonda ispirazione ellenistica diffusasi a partire dal IV secolo aC.: degli esempi possiamo ammirarli a Delos e in altre città greche, come alcune città sul Mar Nero.
Casa di Sallustio - casa di età Sannitica - Pompei
Il primo stile era giocato sia su monocromi che riproducevano la struttura di un muro in blocchi (talvolta mediante elementi in stucco a rilievo, tendeva a riprodurre il rivestimento delle pareti in opus quadratum, che veniva chiamato anche stile dell’incrostazione), sia sulla contrapposizione di più colori, geometricamente organizzati a imitare i rivestimenti in marmo prezioso, il cui elemento decorativo principale è spesso costituito da cubi, meandri, e losanghe dipinti in prospettiva.

Le austere pareti dipinte in primo stile poggiano su altrettanto sobri pavimenti a mosaico bicromi.
Le pitture in primo stile sono generalmente composte da tre zone che seguono una sequenza fissa:
  • una fascia  superiore decorata con cornici in stucco sporgente.
  • una fascia mediana dipinta che imitava il marmo, il granito o l’alabastro, utilizzando colori come il rosso, il nero, il viola, il giallo e il verde.
  • uno zoccolo solitamente di colore giallo, ma non sempre.
Nella pittura pompeiana di questo stile trovavano spazio anche piccoli elementi architettonici, come pilastri utilizzati per la divisione verticale delle superfici, oppure decorate con cornici in chiaroscuro, finto rilievo e piccole semicolonne in stucco.

Nell’area vesuviana, in particolare a Pompei, questa tecnica è presente nella Basilica, nel tempio di Giove, nella Casa del Fauno e nella Casa di Sallustio. Per quanto riguarda Ercolano, ve ne sono tracce nella Casa Sannitica.

Secondo stile:
anche detto stile architettonicosimula false architetture, con la presenza di colonne, architravi, archi e nicchie dipinte prospetticamente a trompe l'oeil con il chiaro intento di ampliare illusionisticamente le stanze. Il secondo stile vede l'inserimento di quadretti riportati con narrazioni mitologiche, nature morte, e altri soggetti.

Il secondo stile inizia a diffondersi in Italia è a partire dalla fine del II secolo a.C. (in epoca Silliana e Cesariana), negli stessi anni in cui si diffondono i santuari a terrazze tardo repubblicani, su imitazione di quelli ellenistici, come ad esempio quelli della Fortuna Primigenia a Palestrina,  quello di Ercole Vincitore a Tivoli,  o quello di Giove Anxur a Terracina.

Questo stile si differenzia dal primo perché sulle pareti vengono rappresentate strutture architettoniche, come colonnati, frontoni, edicole, porte e finestre, per suddividere lo spazio tramite l’effetto trompe l’oeil (inganna l’occhio) sfondando prospetticamente il limite murario delle stanze superando i limiti dello spazio reale.

L’esempio più antico di pittura di secondo stile, è stato ritrovato a Roma nella casa repubblicana dei Grifi sul Palatino, collocabile tra il 120 e il 90 a.C.
La differenza sostanziale di questo tipo di pittura con quella di primo stile sono le creazioni di cornici e fregi dipinti e non più realizzati in stucco, che riproducono ad esempio, tralci vegetali. Rispetto al primo stile, l’innovazione è fornita dall’effetto a tromp l'oeil, dove con tecniche illusionistiche vengono dipinti finti podi e finti colonnati, edicole e porte, attraverso le quali si aprivano vedute prospettiche.
Parete della Villa di Publio Fannio Sinistore al Metropolitan Art Museum di New York  
L'effetto illusionistico viene ottenuto dividendo la parete su due o tre registri divisi da una falsa cornice marmorea dipinta a monocromo. Nel registro inferiore viene riprodotto uno zoccolo decorato con finte lastre marmoree, o a finto bugnato. Mentre nel registro mediano troviamo un'alternanza di falsi colonnati a imitazione di logge, affacciate illusionisticamente su paesaggi naturalistici, che imitano la campagna, i boschi, il mare, le montagne, i laghi, o altri luoghi naturali. L'uso di questi paesaggi rompeva la monotonia della parete, creando nel muro, fenditure illusionisticamente aperte sul mondo.

Negli anni centrali del I secolo a.C. le architetture illusionistiche diventano sempre più sofisticate ed effimere, allontanandosi sempre più dall'imitazione della realtà, rappresentando architetture peculiari affacciate su paesaggi di fantasia poco probabili
In alcuni casi le cornici architettoniche anziché iscrivere paesaggi, circondano la visione di episodi mitici
Cesta di Fichi - Oplontis
Secondo Vitruvio il secondo stile era una sorta di imitazione di vedute di edifici, colonne e frontoni sporgenti, e negli spazi centrali erano raffigurate, su dei larghi pannelli, scene tragiche, comiche o satiriche che rimandavano a storie mitologiche.

Spesso nei larghi pannelli della zona mediana, venivano riprodotte nature morte con cacciagione guarnite da ortaggi e frutta, oppure scenari teatrali su cui venivano dipinte maschere tragi-comiche, o ancora delle megalografie su cui venivano rappresentate figure umane di ampie dimensioni.  
Un caso particolare, nell’ambito megalografico, è rappresentato dai misteriosi personaggi che appaiono nella Villa dei misteri di Pompei (nella foto), in un interno raffinato e ricco di simboli.
Altri esempi del secondo stile a Pompei sono presenti nella casa di Marco Lucrezio Frontone (nella foto), nel Lupanare, nella domus delle Nozze d’Argento, e nella casa del Criptoportico e in quella di Obellio Firmo. In queste opere si nota per la prima volta in ambito romano un disporsi compiuto delle figure nello spazio che sembra "sfondare" la parete.
Affresco dalla villa di Publio Fannio Sinistore, oggi al Metropolitan Art Museum di New York  
Il luogo dove è presente l’esempio più elegante e ricco di questo stile si trovava nelle ville di Boscoreale, nell’area vesuviana, posteriore al 50 a.C., di cui le pitture sono oggi conservate in più musei, come il Louvre, il Metropolitan Museum di New York e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Mentre a Roma, tra gli esempi più interessanti riferibili al secondo stile, vi sono gli affreschi con scene dell'Odissea dalla Casa repubblicana di via Graziosa sull'Esquilino (scoperta nel 1848), che oggi sono conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana dei Musei Vaticani, e che vengono datate tra il 50 e il 40 a.C., probabilmente delle copie, eseguite con diligenza (e qualche errore, come nei nomi trascritti in greco dei personaggi) di un originale alessandrino perduto databile attorno al 150 a.C., oppure di modelli tratti dalle illustrazioni dei poemi effettuate nella biblioteca di Alessandria.
I pannelli che raffigurano episodi dell'Odissea erano collocati nella parte alta della parete dell'ambiente principale, secondo una disposizione che ha un parallelo nei rilievi nilotici dell'atrio della villa dei Misteri di Pompei. Uno dei pannelli più vivaci è quello dell'Assalto dei Lestrigoni (nella foto), con figurette disseminate in un vasto paesaggio, comprendente una visuale aerea e riempito di rocce e alberi, con pastori ed animali. La rappresentazione è arricchita dal nome di ciascun personaggio scritto vicino in greco, che lascia supporre la presenza di modelli ben precisi, magari forniti dalle illustrazioni dei poemi effettuate nell'ambito della biblioteca di Alessandria.

Le tonalità scelte si armonizzano bene tra di loro e la tecnica scelta è di tipo quasi "impressionistico", secondo un metodo che venne ampiamente usato fino a tutta l'epoca medio-imperiale nella decorazione di fregi minori e di pinakes a sportello.


Il secondo stile non ha lasciato tracce fuori da Roma e le città vesuviane, eccezion fatta per le pareti affrescate del Santuario repubblicano di Brescia, databile dal 120 a.C. per le proposte più antiche, fino agli esempi più tardi del 50 a.C. circa.

T​erzo stile: 
definito anche stile ornamentale, vede diminuire la presenza delle false architetture. Nato in epoca Augustea (prima epoca imperiale), cronologicamente coincise per un lasso di tempo al secondo stile arrivando alla metà del I secolo, sotto il principato dell’imperatore Claudio (41-54). 
La testimonianza più antica del terzo stile viene convenzionalmente identificata nella decorazione interna della piramide di Caius Cestius a Roma (nella foto), datata secondo criteri epigrafici intorno al 12 a.C.,
dove osserviamo vaste aree di pittura riempite con un solo colore, che presentavano al centro piccole figure alate, oggetti come crateri o esili candelabra.
La pittura di terzo stile si afferma sotto il principato dell'imperatore Augusto. Una vera matrice del gusto dell’epoca è rappresentata dai dipinti sulle pareti della sua residenza al Palatino, dove caratteristiche del secondo stile tardo si fondono con quelle del terzo stile. Ostentazione e lusso sono aboliti dagli spazi abitati da colui che si proclamava ‘primus inter pares’”.
La caratteristica principale del ‘terzo stile augusteo’ è il rifiuto delle finte architetture, unitamente all’adozione di una decorazione fondata sull’associazione di grandi superfici piane colorate con tinte vivaci e spesso ornate nella parte centrale con grandi pannelli figurati. 

La pittura di secondo stile non ha più quelle caratteristiche prospettiche e illusionistiche proprie del secondo stile. Le architetture perdono del tutto la loro tridimensionalità (alcune volte solo le colonne la mantengono). Lo spazio è suddiviso e riempito con pittura monocroma e colori tenui come il bianco, il crema o il giallo, o come nella stanza delle maschere dove i colori sono più vivaci: rosso, nero, verde. Sulla parete si possono vedere candelabri, calami, bruciaprofumi che in molti casi sorreggono tetti e strutture.  

L’impianto architettonico, divenuto più esile, serve innanzi tutto a mettere in evidenza i pannelli figurati che si dispongono al centro della parete. Le colonne si riducono ad esili fusti, spesso vegetalizzati o trasformati in candelabri​, le loro delicate esilità ne accentuano l’aspetto irreale.​  La policromia si fa più discreta e fa risaltare le raffigurazioni sulle quali si concentra il messaggio visivo.
Negli affreschi della domus trasteverina appartenuta ad Agrippa (nella foto) e su cui in epoca rinascimentale sorse la villa della Farnesina (conservati a Palazzo Massimo alle Terme), o quelli dell’Aula Isiaca al Palatino, si andò delineando una tecnica ricca di decorazione architettonica che riproduceva i grandi edifici ellenistici come colonnati e ampi porticati.


Un altro esempio di terzo stile, è rappresentato dalle Nozze Aldobrandini sono una pittura romana ad affresco della seconda metà del I secolo a.C., conservata presso l'omonima sala della Biblioteca Apostolica Vaticana, che rappresenta una scena di matrimonio, con la partecipazione di Imene e Venere. A lungo ritenuta copia di un originale ellenistico del IV secolo a.C., è invece un prodotto originale della pittura romana di età augustea. Il dipinto, spezzato alle estremità, costituisce parte del fregio della decorazione parietale in terzo stile di una domus dell'Esquilino.
Un esempio grandioso di terzo stile lo possiamo trovare nel tablinum della Casa di Marco Lucrezio Frontone (nella foto), presso gli scavi archeologici di Pompei. Profondamente diverso dal secondo stile nella tridimensionalità, presenta vaste aree di pittura riempite con un solo colore, in prevalenza scure e paragonabili ad odierni tendaggi, che presentavano al centro piccoli pannelli (pinakes) in cui sono raffigurate scene di varia natura. Alcuni esempi di questi ornamenti, solitamente a tonalità più chiare, potevano essere candelabri, figure alate, ramificazioni vegetali. Viene, inoltre, potenziata la presenza del quadro riportato, che appare come una sorta di finestra aperta nel muro, attraverso la quale è possibile assistere a scene urbane.
Altri esempi di questo genere si trovano nella Villa Imperiale a Pompei, e quella di Boscotrecase, detta di Agrippa Postumo.
In concomitanza con la nascita di questo stile, fecero la comparsa i cosiddetti paesaggisti, in quanto dipingevano i dettagli dei giardini con grande maestria, ne è un esempio il giardino dell'imperatrice Livia dipinto nella villa a Prima Porta (nella foto), conservati in palazzo Massimo alle Terme a Roma.
Il dipinto diventa illusione di un grande giardino augusteo
E’ davvero impossibile passare a descrivere i dipinti parietali della villa di Livia Drusilla, moglie di Augusto, senza prima transitare attraverso la magia dalla quale queste opere furono suscitate. Livia, prima delle nozze con Augusto, aveva ricevuto in grembo una gallina bianca lasciata cadere da un’aquila. L’animale domestico che, nonostante l’aggressione, era in perfetta forma fisica, teneva nel becco un ramo di alloro con le bacche. “Gli aruspici ordinarono che il rametto fosse piantato, e questo diede vita al bosco annesso alla villa ‘ad gallinas alba’ (alle bianche galline). I lauri trionfali della famiglia imperiale provenivano da quel luogo, e gli stessi divennero il simbolo della prosperità del lignaggio. Alla morte di Nerone, il bosco si incendiò e tutte le galline morirono”. Il grande affresco della villa di Livia a Prima Porta documenta, nell’ambito del terzo stile, la nascita della cosiddetta pittura di giardini, “spesso in contraddizione con lo spazio reale, paradiso immaginario ma, al contempo, collezione di curiosità botaniche a metà strada tra il giardino di Alcinoo e i paradisi dei re orientali. I dipinti decoravano un ninfeo di grandissime dimensioni (5,90×11,70 m) sprovvisto di finestre”.


Il pittore Studius considerato​ ​l’inventore del paesaggio
Nelle dimore imperiali, al centro dei pannelli che ornano le pareti non appaiono soltanto scene mitologiche o figure divine, ma anche paesaggi e pitture di giardini che costituiscono un altro riferimento all’età augustea.
E’ significativo che l’unico nome di pittore appartenente a quest’epoca trasmesso da fonti scritte sia quello di Studius, il quale secondo Plinio il Vecchio, per primo inventò l’assai leggiadra pittura delle pareti raffigurandovi case di campagna, porti e temi paesaggistici, boschetti sacri, boschi, colline, peschiere, canali, fiumi, spiagge secondo i desideri di ognuno, e in quell’ambiente vari tipi di persone che passeggiano e che navigano, oppure che si dirigono per terra verso le loro ville su asinelli o carri, oppure che pescano o cacciano o anche vendemmiano. Tra i suoi soggetti compaiono anche delle nobili dimore di campagna, raggiungibili attraversando una palude, e delle donne, prese al collo da trasportatori a pagamento, che caracollano sulle spalle dei trepidi facchini.

Quarto stile: 
Il quarto stile, detto anche dell’illusionismo prospettico, si diffuse in epoca neroniana come reazione alla stilizzazione dello stile precedente.
Originato probabilmente dalle novità artistiche legate alla costruzione della Domus Aurea, sfarzosa dimora, che l’imperatore Nerone realizzò nel cuore di Roma tra il 64 e il 68 d.C., il quarto stile si diffuse presto in tutto l'impero. A Pompei moltissime case sono decorate con questo stile in quanto la maggior parte di esse furono ricostruite dopo il terremoto del 62 d.C.  
Nel 1480 un giovane romano, cadendo in una cavità del terreno sull’altura del colle Oppio, si ritrovò in una sala bizzarra ed eccentricamente decorata.​ ​La grotta scoperta, inizialmente creduta un ambiente delle Terme di Tito, era in realtà il soffitto a volta interrato della villa di Nerone, la Domus Aurea.
Ambiente rinascimentale decorato a grottesca
Caratteristica del Quarto Stile è la tripartizione della parete in zoccolo (parte bassa), zona mediana e zona superiore. La zona mediana presenta un’alternanza di larghi pannelli e di scorci architettonici, nei quali riemerge il gusto per le prospettive articolate, come nel Secondo Stile.  Nel pannello centrale si trova sempre un quadro mitologico, mentre nei pannelli laterali la decorazione può spaziare tra quadretti con paesaggi, figure volanti, amorini, medaglioni ritratto, etc.​ ​La zona superiore è decorata con edicole prospettiche ricca di elementi floreali e fantastici. Altro filone compositivo del Quarto Stile, è quello delle "scaenae frontes" che imita le scenografie teatrali e di cui abbiamo testimonianza proprio nella zona superiore dell’affresco di Positano.

Il quarto stile si distingue dagli altri principalmente per l’introduzione di architetture di ispirazione fantasy, dotate di grande scenicità.  A differenza del secondo stile dove le architetture risultavano plausibili, nel quarto stile (così come il terzo stile), queste appaiono come improbabili, bidimensionali e puramente decorative, dal tratto fortemente calligrafico. Adoperando un paragone anacronistico, potremmo paragonare il quarto stile alla frivolezza e all'iperdecorativismo del rococò.

Le pareti erano decorate soprattutto con il colore rosso su fondo bianco o nero, dove tornano un revival di elementi e formule decorative già sperimentate in precedenza come le imitazioni dei rivestimenti marmorei del primo stile, o le ornamentazioni con candelabri, figure alate, tralci vegetali, già viste nel terzo stile.

Il quarto stile e anche detto dell’illusionismo prospettico, perchè paragonabile all’intenso decorativismo, caratteristico dell'arte barocca e rococò, che riempie ogni minimo spazio​, e dove l’accumularsi di elementi decorativi, creano un autentico horror vacui, che non lascia il minimo spazio libero attorno ai riquadri nei quali appaiono elementi paesaggistici o raffigurazioni mitologiche. I personaggi vengono dipinti in pose plastiche o con espressioni enfatizzate. La sensazione di eccesso decorativo è accentuata dal moltiplicarsi delle prospettive architettoniche nella parte superiore della parete e ad ogni angolo della stanza. 
A Pompei, il quarto stile si impose dopo il 60 d.C.: questa datazione abbastanza certa la dobbiamo alla gran parte delle ville pompeiane in cui sono presenti pitture create dopo la ricostruzione della città a seguito del terribile terremoto del 62 d.C., una avvisaglia della disastrosa e tristemente nota eruzione che colpì l’area vesuviana nel 79 d.C. Esempi pompeiani pregiati li ritroviamo nella Casa dei Vettii (come non citare il Priapo per il quale la Casa dei Vettii è famosa) e nella Casa dei Dioscuri, probabilmente affidati ad artisti della stessa bottega. Sempre a Pompei, altri esempi di quarto stile lo possiamo trovare nella Casa di Menandro, nella quale sono presenti piccoli ed eleganti riquadri che raccontano la guerra di Troia.
Palestra - Ercolano

TECNICHE DI PITTURA
Luciana Jacobell​i​, scrive che la tecnica con cui veniva realizzata la pittura parietale nell'antica Roma è detta ad “affresco”, perché si dipingeva sull’intonaco ancora umido (fresco). Ciò faceva sì che i colori si amalgamassero con gli strati preparatori di calce e polvere di marmo formando uno strato compatto e capace di mantenere i colori lucidi e resistenti nel tempo. Il lavoro veniva effettuata “a giornata”: i decoratori iniziavano lavorando sempre dalla parte alta della parete, applicando l’intonaco non sull’intera superficie, ma solo sulla zona che potevano finire nell’arco di una giornata.

La maggior parte dei colori antichi era di origine minerale: i gialli, i rossi, i bruni, alcuni verdi, sono ottenuti per decantazione – e talvolta per calcinazione – di terre naturali. Altri sono di origine vegetale, come il rosa, il nero, ottenuto spesso dal nerofumo. Particolarmente costoso era il blu, conosciuto anche con il nome di blu egizio ottenuto dal riscaldamento di una miscela composta da silicato di rame, calcite e carbonato di sodio come fondente.
Casa dei Vettii, Pompei
I quadri centrali e le vignette laterali venivano realizzati per ultimi. Si lasciava uno spazio libero nel quale i pittori più qualificati (pictores imaginarii) potevano eseguire i quadri – quasi sempre a carattere mitologico – grazie all’aiuto di cartoni. Le cornici, dal motivo ripetitivo, erano realizzate grazie​ ​all’uso di stampi.


ARTICOLI CORRELATI

I pittori di Roma antica replicavano le figure con le sagome di cartone (pubblicato il 19/03/11 su StileArte.it). Un accurato esame delle pitture romane rivela l’utilizzo, nel mondo antico, di sagome standard per la realizzazione di figure. Affreschi in serie, quindi? E’ stato scoperto che, osservando le opere a luce radente, è possibile individuare una successione di impronte identiche di cartoni, ravvisabile in particolar modo in due immagini affrontate di caproni, caratterizzate da avvallamenti ottenuti senza dubbio poggiando una sagoma sull’intonaco fresco. A questa tecnica si ricorreva con frequenza nel Medioevo, e poi si estese ad ogni secolo, ma fino ad oggi non si conoscevano casi di impiego nella classicità: anche se a sagome adibite alla replica delle figure aveva accennato nei suoi scritti Plinio, chiamandole catagrapha. I cosiddetti cartoni o stencil forniscono una forma base, ma permettono poi si mutare lievemente le forme e i colori o possono essere ribaltate specularmente, ottenendo figure all’apparenza diverse, I cartoni erano utilizzati anche per la pittura cavalletto.




La Domus dei Casti Amanti, a Pompei, contiene un affresco significativo sull’orizzonte sentimentale degli antichi romani, tra affetto amicale e sentimento di coppia. La casa fa parte  di un’unica grande Insula che comprende anche la Domus dei Pittori al Lavoro e alcune botteghe e si estende per oltre 1500 metri quadri. Il nome origina dal bacio “casto” che due amanti si scambiano in uno dei quadretti (in foto) di banchetto che decorano il triclinio della casa, con annesso panificio. Si trattava infatti dell’abitazione di un ricco panettiere e all’interno della domus sono visibili  oltre al forno del panificio, splendidamente conservato, con le annesse macine anche le due stalle con i resti di sette animali. Ancora non integralmente esplorata, Vittorio Spinazzola nel 1912 aveva iniziato l’indagine della facciata con il balcone con colonnato,  poi danneggiato nel bombardamento del 1943. Lo scavo è proseguito, a più riprese, dal 1982 fino al 2004, con un ampio progetto di restauro e valorizzazione.


Poco prima dell’evento drammatico del 79 d.C., erano in corso la risistemazione della rete idraulica e, nella Casa dei Pittori al lavoro, il rifacimento della decorazione parietale nel grande oecus: l’interruzione improvvisa lasciò incompleti i quadretti dei quali era già eseguita la sinopia. Indizio dell’abbandono repentino dei lavori sono le numerose coppette ancora piene di pigmenti che l’artista stava adoperando.

Ma qual è il significato del dipinto? Esso si lega parzialmente all’amore, nonostante le due figure centrali si bacino sulla bocca. L’opera, probabilmente una tempera a secco – lo sfarinarsi del colore in un unico strato lo indica – e non un affresco – è un canto all’inizio della stagione estiva che porta sole, gioia, sete di acqua e di amore.



che​ si stagliano su uno sfondo bianco. L'affresco, di forma trapezoidale, probabilmente posto al di sotto di una scala, è emerso alle spalle dello slargo di incrocio tra il Vicolo dei Balconi e il vicolo delle Nozze d'Argento.
Il dipinto molto probabilmente decorava un ambiente frequentato da gladiatori, forse una bettola dotata di un piano superiore, destinato ad alloggio dei proprietari dell'esercizio commerciale o come di frequente, soprattutto vista la presenza di gladiatori, destinato alle prostitute.