Il Cardinal Bessarione e gli affreschi della Cappella dei Santi Eugenia, Giovanni Battista e Michele Arcangelo nella basilica dei Santi XII Apostoli in Roma, di Sabina Isidori
Pubblichiamo sul nostro sito un articolo di Sabina Isidori che presenta gli affreschi della Cappella Bessarione nella basilica dei Santi XII Apostoli in Roma. Il testo è una sintesi della tesi discussa dall'autricepresso l’Università di Roma Tre, di cui è stata relatrice la prof.ssa Silvia Ginzburg. Un testo più ampio sarà pubblicato a breve negli Atti del Convegno “Bessarione e la sua Academia”, svoltosi il 18 marzo scorso presso la Sala dell’Immacolata, che saranno pubblicati a cura dell’Academia Cardinalis Bessarionis. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sulla pittura del quattrocento a Roma, vedi su questo stesso sito la sezione Roma e le sue basiliche.
La Cappella Bessarione - così denominata in quanto luogo deputato ad accogliere i resti mortali dell’insigne cardinale bizantino - presenta un ciclo di affreschi che, progressivamente deteriorato ed occultato tra il XVI e il XVIII secolo, viene occasionalmente rinvenuto nel 1959 da Clemente Busiri Vici durante lavori di manutenzione nell’ala di Palazzo Colonna addossata ai Santi Apostoli: attraverso un’apertura, l’architetto ritrova l’abside imbiancata e, rimossi alcuni tratti di scialbo, brani della decorazione originaria quattrocentesca[1]. Tra il 1989 e il 1990, l’opera vieneparzialmente recuperata in seguito alla campagna di restauro diretta dal Dott. Vitaliano Tiberia per la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma. Grazie agli interventi della Soprintendenza per il Polo Museale e i finanziamenti del Fondo Edifici di Culto, i lavori inerenti la cappella continuano fino al 2005 e dal 2008 gli affreschi sono nuovamente visibili al pubblico.
I dipinti, testimonianza rara di pittura romana di XV secolo - realizzati tra il 1464 e il 1467 ca. -, denunciano nelle varie parti difformità stilistiche e qualitative tali da aver dato adito a svariate proposte attributive: la critica, nel tentativo di definire le varie “mani”, ha ipotizzato alternativamente - a fianco di Antoniazzo Romano e dei suoi collaboratori di bottega - l’intervento del giovane Melozzo da Forlì e di Lorenzo da Viterbo.
Tre le fonti letterarie principali che ci riferiscono del ciclo pittorico:
- la prima è rappresentata dal Compendio historico della ven. basilica di SS. dodeci apostoli di Roma di padre Bonaventura Malvasia[2], epitome pubblicata nel 1665 nella quale sono descritti gli affreschi presenti nell’abside fino al 1645, anno in cui viene presa la decisione di intonacare completamente il sacello funerario[3];
- il secondo scritto, per noi di fondamentale importanza in quanto presenta documenti d’archivio quattrocenteschi, è costituita dal testo De Bessarionis cardinalis Nicaeni vita, rebus gestis, scriptis, commentarius, edito nel 1777 a Roma per i tipi della Sacra Congregazione De propaganda Fide e successivamente confluito nella Patrologia Graeca di J. P. Migne (Paris 1866). Sono qui rese note la prima[4]e la seconda[5] versione del testamento del Bessarione, stilate tra il 1464 e il 1467. Nel testamento del 1464, redatto nel mese di febbraio a Venezia - dove il cardinale si era recato quale legato a latere per organizzare l’intervento crociato della Serenissima - sono riportati lavori strutturali da eseguire nella cappella e la minuziosa descrizione di una recinzione presbiteriale, sorta di iconostasi - in questo caso priva di icone - atta ad isolare la zona più sacra della cappella dallo spazio dei fedeli[6]. Il testo in questione - dove vengono esposti in dettaglio i lasciti del cardinale alla propria cappella funeraria e le volontà inerenti la realizzazione del suo sepolcro - presenta altresì la raffigurazione dedicatoria che doveva campeggiare in controfacciata alla parete di ingresso: Cristo in trono affiancato da Maria, S. Giovanni Battista, l’Arcangelo Michele, S. Eugenia e il cardinale Bessarione; nell’affresco votivo il prelato compare inginocchiato accanto ai santi eponimi e, sotto di lui, le sue armi. Lo schema iconografico sembra far riferimento a quello tradizionale bizantino della Deesis nel quale Maria e Giovanni Battista, ai lati di Cristo, intercedono per le anime dei fedeli, tema che ribadisce la destinazione funeraria della cappella. È importante rilevare che nel documento si rinvia ad un accordo precedentemente preso con il magister a noi non pervenuto[7], nel quale era forse descritto a grandi linee l’intero schema della decorazione e, più precisamente, le pitture da realizzare nella parte absidale;
- la terza ed ultima fonte è costituita dall’opera di Eugène Müntz[8], redatta tra il 1878 e il 1882. Compaiono in questo volume i due contratti di allogagione stipulati tra il cardinale niceno e il pittore romano, risalenti al settembre del 1464 e all’agosto del 1465; il primo dei due atti riporta il nome di Antonatzio Romano quale maestro cui viene affidata l’esecuzione del ciclo decorativo ma non fornisce indicazioni riguardante la decorazione pittorica della cappella “Sancti Angeli”; grazie al documento del 1465 veniamo informati dell’ornamentazione che doveva svolgersi sulla copertura della volta - gli Evangelisti tra Dottori della Chiesa greca e latina, unica iconografia riscontrabile sia negli atti quattrocenteschi che nel compendio seicentesco del Malvasia - e lungo le pareti del sacello.
Sulla base delle testimonianze sopra citate, la decorazione ad affresco doveva presentare il seguente schema:
In praesentia:
- nella fascia superiore del registro centrale dell’abside trovano posto i due splendidi riquadri relativi alle Storie di S. Michele Arcangelo, il Miracolo del toro sul Monte Gargano e la Processione verso il Monte Tumba, separati da un’alta candelabra e contornati da una finta cornice architettonica;
- nel catino absidale, Cristo in gloria tra le schiere angeliche; di questo affresco è stata recuperata la parte inferiore, dove sono visibili un lembo del manto del Redentore e parte dei cori angelici.
In absentia:
- lungo il basamento pittorico della decorazione parietale era previsto lo svolgersi di velari drappeggiati riproducenti un aureo panno damascato riccamente decorato con motivi floreali;
- nella fascia inferiore del registro centrale dell’abside, così come riportato da Padre Malvasia, era presente la Natività del Battista - o, come più probabile, due scene relative alle Storie di San Giovanni Battista. Tra il XVI e il XVII secolo, le ripetute inondazioni del Tevere comportarono la distruzione del registro inferiore degli affreschi bessarionei: le Storie del Battista vennero quindi sostituite da mediocri immagini delle sante martiri Eugenia e Claudia, oggi visibili. Sempre in questa zona, al tempo della “riscoperta” della cappella, fu rinvenuta un’edicola marmorea: in origine vi trovava posto la tavola lignea raffigurante una Madonna con Bambino, attribuita ad Antoniazzo Romano e probabilmente commissionata dal Niceno[9], successivamente spostata da padre Malvasia nell’odierna Cappella Bonaventura;
- nella volta del sacello comparivano, su di un cielo stellato, I quattro Evangelisti affiancati dai Dottori della Chiesa greca e latina con, al centro, l’immagine clipeata del Redentore contornata da quattro angeli;
- le pareti ai lati dell’abside erano scandite da una decorazione illusionistica, dove finte finestre si alternavano a quelle vere, affiancate da colonnine ed altri ornamenti in materiali lapidei. Nella parte compresa tra questa zona e la fascia inferiore, erano effigiati tre angeli - probabilmente i tre arcangeli - e il Prodromos, distribuiti a coppie sulle due opposte pareti;
- l’intradosso dell’arco d’ingresso doveva riportare al centro, ripetuto per tre volte, lo stemma del cardinale raffigurante due braccia reggenti una stessa croce, chiaro riferimento alla vagheggiata unione delle Chiese latina e orientale;
- in controfacciata, sulla parete d’ingresso, il dipinto devozionale con Cristo in trono affiancato da Maria, S. Giovanni Battista, S. Michele Arcangelo, S. Eugenia e il cardinale Bessarione.
Come già accennato, quello di Antoniazzo Romano è l’unico nome certo in una vicenda dai tanti misteri; risulta però oltremodo arduo restituire al pittore dell’Urbe i dipinti rinvenuti nel sacello ai SS. Apostoli. Guardando difatti alla produzione coeva di Antonio Aquili - questo il vero nome di Antoniazzo -, quali la Madonna del latte, la tavola con San Francesco che riceve le stimmate e il Trittico di Subiaco - opere realizzate tra il 1464 e il 1467 - notiamo la presenza di elementi ancora tardogotici, oltre ad un chiaro influsso della cultura benozzesca. Madonne con panneggi caratterizzati da una linea grafica serpentinata e dalle lunghe mani affusolate sono affiancate, nelle Sacre Conversazioni, da personaggi maschili in pose statiche, dai volti poco espressivi e dai rigidi panneggi. È comunque da segnalare un momento “critico”, proprio attorno al 1467, nella produzione artistica di Antoniazzo: accenni della lezione pierfrancescana si riscontrano nella “monumentalizzazione” delle figure, nel progressivo abbandono del decorativismo gotico e nell’aprirsi del pittore ad uno studio più attento della prospettiva e ad una maggiore resa plastica e volumetrica delle figure. Le fisionomie delicate, dal sottile ed elegante linearismo di Antoniazzo non trovano un convincente raffronto con il ductus pittorico con cui sono descritti i visi popolareschi, “rusticamente corposi”, della scena dellaProcessione al Monte Tumba, caratterizzati dalle espressioni marcate dei volti e dai volumi resi con deciso chiaroscuro. È plausibile che l’intervento di Antoniazzo - nella cappella ai SS. Apostoli - sia da circoscrivere alla porzione di dipinti della calotta absidale (Cristo in gloria tra gli angeli): esclusi i primi tre cori - Serafini, Cherubini e Troni, riferibili ad elementi minori della bottega, le creature alate dei rimanenti sei ordini, di fattura rigida e convenzionale ma che comunque denunciano un’ascendenza gozzoliana, possono facilmente collocarsi nella produzione giovanile dell’Aquili.
Ci si potrebbe a questo punto chiedere come mai la scelta del cardinale Bessarione cada su Antoniazzo, in un momento in cui la Città eterna pullula di illustri stranieri orbitanti attorno al cantiere vaticano.
A capo di una fiorente ed importante bottega romana, già nel 1464 crocevia di pittori romani e non, Antonio Aquili era artista conosciuto ed apprezzato soprattutto per la sua ricca produzione di immagini devozionali e pale d’altare: peculiarità della bottega dell’Aquili fu quella di eseguire immagini di Madonne miracolose, le rinomate Madonne delle Grazie, e di riprodurre importanti icone orientali venerate a Roma: nel recupero di tematiche e di iconografie della cultura bizantina si indovina la decisiva spinta che diede in tal senso il porporato greco, promotore del revival bizantino che interessò l’Urbe nella seconda metà del Quattrocento, determinato dalla diaspora della cultura orientale “in fuga” da Costantinopoli caduta in mano turca[10].
Il primo degli artisti indicati dalla critica[11] a fianco dell’Aquili è Melozzo da Forlì. Tale attribuzione, però, non può avere riscontri convincenti in quanto rimane insoluto il nodo storiografico relativo alla effettiva presenza del forlivese a Roma negli anni Sessanta. Sicuramente a Forlì fino al 1464, si fa silenzio attorno alla sua figura fino al 1477, anno in cui realizza il celeberrimo affrescoSisto IV nomina il Platina prefetto della biblioteca Vaticana. Tra il 1472 e il 1474 ca., Melozzo dipinge la grandiosa Ascensione di Cristo tra angeli musicanti e gli Apostoli per l’abside SS. Apostoli mentre all’inizio degli anni Ottanta collabora con Antoniazzo Romano alla decorazione - perduta - della Bibliotheca secreta vaticana di Sisto IV[12].
In occasione dell’ultima mostra monografica dedicata all’artista - dove peraltro non si fa alcun riferimento alle pitture bessarionee - le raffigurazioni del San Prosdocimo e del San Giovanni Battista dipinte su due ante lignee oggi agli Uffizi sono state assegnate alla produzione giovanile del pittore e datate “ante 1465”[13]: i santi denunciano una cultura artistica assai diversa da quella espressa nella cappella romana del cardinale; in particolar modo, la magistrale resa dei panneggi e la loro calda cromia rivelano un chiaro influsso dell’arte veneta e dimostrano come già a quest’epoca il forlivese avesse raggiunto una notevole maestria tecnica e una spiccata sensibilità pittorica.
L’altro nome più volte avanzato dalla critica quale artefice di parte dei dipinti bessarionei è quello di Lorenzo da Viterbo, uno dei protagonisti del rinnovamento della pittura laziale della seconda metà del ‘400.
La Cappella Mazzatosta in S. Maria della Verità a Viterbo conserva un ciclo pittorico che - commissionato a Lorenzo e bottega e realizzato tra il 1466 ca. e il 1469 - esibisce svariate analogie compositive con il sistema decorativo del sacello del cardinale, palesando al contempo notevoli differenze nello stile. Nella volta a crociera della cappella, divisa in quattro vele da costolonature, lo schema triadico su cielo stellato con gli Evangelisti abbinati a coppie di Dottori della Chiesa greca e latina trova un corrispettivo simile, ma non uguale, nella decorazione della volta della cappella ai SS. Apostoli: dei quattro greci, essenziali in chiave unionista per il porporato bizantino, resta a Viterbo il solo S. Giovanni Crisostomo. I palesi influssi di Beato Angelico e di Benozzo Gozzoli uniti a potenti e indubbie suggestioni pierfrancescane nei riquadri ubicati sulla parete di sinistra - la Presentazione al Tempio e lo Sposalizio della Vergine, unica parte del ciclo che attesti l’autografia laurenziana - costituiscono il medesimo substrato fertile che ha interessato e permeato di sé la pittura di Antoniazzo, portando i due artisti ad una comunanza di risultati (a prescindere da una loro effettiva collaborazione). Ma i dipinti laurenziani testimoniano con maggiore evidenza rispetto agli affreschi romani il radicamento della nuova concezione pittorica rinascimentale, mostrando una decorazione equilibrata e simmetrica, articolata nello spazio tramite una persuasiva e ardita resa prospettica. La cesura tecnica e stilistica riscontrabile tra le varie parti del ciclo ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare un allontanamento del magister viterbese dal cantiere della cappella Mazzatosta e un suo intervento nella decorazione del sacello romano. Tale ipotesi è suffragata dal fatto che, negli anni in cui viene realizzato il ciclo mariano, Niccolò Perotti da Sassoferrato - segretario personale del Bessarione nonché suo esecutore testamentario, raffinato umanista e illustre familiaris dell’Academia Bessarionis - ricopre la carica di rettore papale di Viterbo: secondo taluni sarebbe dunque stato il prelato marchigiano a far “approdare” Lorenzo nell’Urbe[14].
A tutt’oggi, il ciclo di dipinti rinvenuto nella Basilica dei Santi Apostoli non ha ancora trovato una sua definizione attributiva certa né un sicuro inquadramento stilistico. La posizione che attualmente viene sempre più condivisa dalla maggioranza della critica è l’intervento di un gruppo di artisti di diverse culture - aiutanti di bottega e pittori stranieri con una più spiccata individualità artistica - coordinati dal capo bottega e “gestore dell’impresa” Antoniazzo Romano.
Un aspetto particolarmente interessante di queste pitture è costituito dall’unicità in alcuni punti del programma iconografico, peculiarità che trova spiegazione nell’orientamento politico, teologico e filosofico del cardinal Bessarione. Per capire dunque le ragioni del ciclo e cercare di interpretare le non neutrali scelte iconografiche del prestigioso committente è necessario far luce sulla non comune biografia del dotto porporato umanista e tenere ben presenti le principali cause cui il cardinale consacrò la sua vita pubblica: l’Unione delle Chiese di Roma e di Bisanzio e il progetto di Crociata contro l’Islam, per il salvataggio dell’Oriente cristiano e del suo patrimonio culturale.
Basilio Bessarione nasce a Trebisonda, sul Mar Nero, nel 1403; trasferitosi a Costantinopoli, a vent’anni entra nell’Ordine di San Basilio. Tra il 1431 e il 1435 si reca a Mistrà, nell’attuale Peloponneso, per frequentare la scuola di Giorgio Gemisto Pletone, filosofo bizantino che propugna il ritorno ad una sorta di “neopaganesimo”, religione filosofica secondo cui i culti delle antiche divinità elleniche avrebbero nuovamente trionfato unendo tutti i popoli nell’unica, autentica “teologia platonica”[15]. Eletto nel 1437 metropolita di Nicea, l’anno seguente Bessarione - assieme a Pletone e al patriarca Giuseppe II - è presente, come parte della delegazione orientale, al Concilio ecumenico di Ferrara-Firenze (1438-39), al seguito del basileus Giovanni VIII Paleologo. Il Congresso è indetto nella speranza di ricomporre lo scisma della Chiesa latina e di quella orientale - sancito in via definitiva nel 1054 - sotto un unico intento: il riscatto della christianitas contro la dilagante avanzata degli infedeli Ottomani. Nel dicembre del 1439, appena concluso il Concilio fiorentino - che grazie all’infaticabile impegno del Bessarione, sancisce una provvisoria unione tra le due Chiese -, il Niceno è nominato da Eugenio IV cardinale titolare della Basilica dei Santi XII Apostoli, carica ricoperta dal prelato greco fino al 1449; nei primi anni Cinquanta, sotto il pontificato di Niccolò V, ne diviene amministratore perpetuo e commendatario[16]. Si stabilisce quindi a Roma dove la sua residenza, ubicata nel lato dell’attuale Palazzo Colonna attiguo alla Chiesa, diviene sede della rinomataAcademia Bessarionis, cenacolo di dotti umanisti impegnati a custodire e trasmettere il patrimonio culturale della classicità greca e latina.
Nel 1458 Bessarione riceve da Pio II la carica di protettore dell’Ordine dei Frati Minori; il 30 aprile del 1463, con la bolla Personam tuam[17] dello stesso Papa Piccolomini, è a lui concesso lo jus patronatus della cappella sita nel transetto destro della Basilica; inizialmente intitolata alla sola S. Eugenia, la cappella viene affiancata nella dedicazione ai SS. Giovanni Battista e Michele Arcangelo. Due mesi dopo, la bolla pontificia Sedis apostolicae provvidenta[18] permette al porporato orientale di trasferire la curia generalizia dei Frati Minori Conventuali ai Santi XII Apostoli.
Avendo quindi delineato, per sommi capi, la personalità dell’illustre committente, possiamo procedere ad una cauta e prudente lettura del sistema iconografico della cappella.
Partendo dalla raffigurazione delle Storie di S. Giovanni Battista, intendendo il sacramento istituito dal Precursore quale rito che - secondo le parole dello pseudo Dionigi l’Areopagita - è «morte e nascita ad una nuova vita, la quale comporta un impegno a lottare contro il male accanto a Cristo», la cui luce divina «si custodisce con l’impegno morale della militia Christi»[19], il ciclo continua nella fascia superiore con le Storie di S. Michele Arcangelo.
Al di sotto dei riquadri sono presenti due tituli in lettera capitale epigrafica antica: APPARITIO EIUSDEM IN MONTE GARGANO e APPARITIO EIUSDEM IN MONTE TUMBA[20]: le didascalie - che scartano l’ipotesi della successione consequenziale dei due dipinti - fanno riferimento alla legenda italiana del santo angelo e alla sua “variante francese”, la Revelatio ecclesiae sancti Michaelis in monte Tumba (IX secolo), in cui è narrata la storia del celebre santuario micaelico fondato sul Monte Tombe in Normandia (Mont-Saint-Michel au Péril-de-Mer) nel 708 dal vescovo di Avranches S. Auberto: il dettaglio iconografico rinvenuto durante i lavori di restauro del 1989-90, le tante conchiglie sparse sulla sabbia nel modo in cui affiorano sulla rena dopo una bassa marea - fenomeno che, come è noto, caratterizza l’isolotto normanno ai confini con la Bretagna - avvalora tale supposizione.
La Legenda Aurea, sulla base del Liber de apparitione s. Michaelis in monte Gargano (scritto anonimo di VIII sec.), descrive le tre epifanie dell’Arcangelo avvenute per tradizione nel V secolo, di cui quella sul monte pugliese è la prima e la più celebre. Nella parte sinistra della parete absidale è istoriato l’episodio de Il miracolo del toro sul Monte Gargano, ove si narra della manifestazione di S. Michele attraverso un evento divino: un toro rifugiatosi in una grotta respinge i dardi di alcuni arcieri intenzionati a catturare l’animale; in seguito all’accadimento miracoloso il vescovo di Siponto, dietro precisa indicazione dell’arcangelo, consacra la caverna a S. Michele. I gesti concitati e le espressioni di meraviglia degli arcieri in primo piano e dal guardiano di armenti ritratto sulla destra dirigono lo sguardo di chi osserva, dalla base del monte verso il fulcro della compagine compositiva, rappresentato dal venerabile antrum entro cui si attua il mirabile evento, rendendo lo “spettatore” partecipe dell’evento. Ai lati del rilievo garganico la visuale si allarga su uno scorcio marittimo intervallato da un digradare di isolotti e indugia sulla descrizione della turrita Siponto dalle mura merlate.
Proseguendo con la narrazione della Vita sancti Michealis, alla tumultuosa scena del miracolo si contrappone la quieta e maestosa Processione verso il Monte Tumba: ai piedi di un’altura, sul cui crinale si individua un toro legato ad un albero, un corteo di autorità religiose e di laici avanza solennemente su una spiaggia disseminata di conchiglie; collocato al centro della scena, apre la processione per ladedicatio della grotta un vescovo con mitria, nimbato, dalla fisionomia molto caratterizzata ma dalla controversa identificazione, abbigliato con sontuosi paramenti liturgici damascati e in atto di benedire. Partecipano alla consacrazione del luogo al santo Angelo, di spalle in primo piano, due ecclesiastici con sfarzosi piviali riccamente ornati e recanti sul dorso immagini sacre su fondo d’oro. Sulla destra, un gruppo di Frati Minori con il tipico saio e alcuni monaci basiliani in abito nero innalzano inni e preghiere[21]: e sembra proprio essere questo lento salmodiare dei frati a dare il ritmo alla scena; segue un drappello di devoti cittadini in abiti corti e calze colorate e, subito dietro al vescovo, due accoliti in lunghe vesti recanti in mano ceri ardenti. La scena si svolge in un tranquillo scenario collinare verdeggiante dove si distingue sulla destra un rilievo montuoso sul quale si erge una fortezza. La luce naturale, radente, diurna e cristallina avvolge persone e paesaggi in entrambi i riquadri.
A questo punto, una domanda pare legittima: perché la Francia in un affresco situato nella cappella funeraria romana di un potente cardinale greco?
«Ben di rado s’era fatta una spedizione in Oriente per difendere la religione senza i Francesi; anzi era un compito tradizionale dei Francesi quello di combattere in difesa della fede»[22]: ritenuto da Pio II l’unico sovrano in grado di poter realizzare l’impresa contro i Turchi, Vitaliano Tiberia allude, nei dipinti, ad una sorta di captatio benevolentiae nei confronti del potente monarca[23]. Nel marzo del 1462 Pio II rivela a sei cardinali il suo intento di mettersi personalmente a capo della spedizione; la Curia Romana, inizialmente scettica verso i temerari propositi del Piccolomini, inizia a sperare nell’ardita impresa. Anche il precario ottimismo del Bessarione si rinsalda e durante il soggiorno veneziano, con il pensiero rivolto all’imminenza della missione antiturca, il prelato greco decide di fare testamento (17 febbrario 1464)[24], fornendo precise disposizioni in merito alla realizzazione del suo sepolcro e ai lavori da effettuare nella chiesa dei SS. Apostoli. Il clamoroso annuncio di Pio II, finalizzato principalmente a sollecitare il duca di Borgogna, Filippo il Buono, ad onorare la sua promessa di impegnarsi militarmente nella “causa della fede” e di spingere con il proprio esempio anche il re di Francia a muovere guerra contro l’Impero Ottomano, non sortisce gli effetti sperati. La fine è nota: lasciato solo alla vigilia della partenza delle flotte pontificie, il Papa senese troverà la morte ad Ancona nell’agosto del 1464 e il progetto antiturco, portato avanti dal Bessarione fino alla fine dei suoi giorni[25], è destinato a fallire.
L’accentuata fisionomia dei personaggi ha indotto non pochi studiosi a ravvisare nel corteo rappresentato in primissimo piano incedente verso il monte Tumba alcuni eminenti protagonisti delle vicende storiche coeve ai dipinti.
Per quanto riguarda l’identificazione del santo prelato, Lollini[26] - su una prima indicazione di Busiri Vici - individua nella figura nell’ecclesiastico il segretario apostolico Niccolò Perotti (arcivescovo di Siponto dal 1458 al 1480), suggestione che affascinerà e persuaderà gran parte della critica. Ancora, l’architetto di Casa Colonna ravvisa nell’uomo abbigliato in veste scarlatta recante un cero in mano il futuro Papa Sisto IV, Francesco Della Rovere[27], tesi in seguito avvalorata dal Tiberia. Per quanto riguarda l’identità degli altri personaggi, è ancora il Busiri Vici ad avanzare suggestivi raffronti: tra i protagonisti della scena propone di vedere il magister Antoniazzo Romano nell’uomo con le mani giunte e copricapo rosso, l’unico a guardare in direzione opposta rispetto agli astanti, e Melozzo da Forlì in colui che incede con abito verde e candela in mano. L’unico ad aggiungere un personale contributo all’individuazione dei ritratti è il Tiberia il quale indovina nel giovane con la veste violacea il nipote di Sisto IV, Giuliano della Rovere (Papa Giulio II) [28].
Continuando nella lettura iconografica dei dipinti, rivolgiamo idealmente il nostro sguardo al catino absidale, dove il Cristo in Gloria tra i nove cori angelici, suddivisi in cerchi concentrici attornianti il Redentore, costituisce un unicum iconografico nell’arte occidentale. Gli ordini delle creature alate raffigurate in tal guisa sono chiaro riferimento alla “Gerarchia celeste”, opera dello pseudo Dionigi l’Areopagita, autore di V-VI secolo - che Bessarione non esita a definire “il principe della teologia cristiana” - di fondamentale importanza sia per l’impulso dato allo sviluppo teologico nel mondo greco-bizantino, sia per la corrente filosofica neoplatonica che permeava di sé la cultura umanistica. L’interesse di Dionigi, come anche quello di Bessarione, è dimostrare come l’uomo possa salvarsi e arrivare all’unione con Dio: la disposizione angelica è offerta quale modello dell’ordinamento gerarchico della realtà, entrambe derivate per emanazione da Dio; la salvezza è dunque possibile grazie al santo operare degli ordini sovramondani preposti alla cura sacra di ogni nazione, i quali, rivelandosi agli uomini li rendono, secondo le parole di Dionigi, “collaboratori di Dio”[29].
Nella volta, come ricordato, erano dipinti I quattro Evangelisti affiancati dai Dottori della Chiesa greca e latina, evidente esortazione all’unione tra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica, aldilà delle divergenze dogmatiche. Il cardinale bizantino, arrivato al Concilio di Ferrara-Firenze con l’intento di ricomporre lo scisma orientale, scopre - durante i lavori conciliari iniziati nella città estense - la silloge di Giovanni Bekkos, patriarca filounionista costantinopolitano di XIII secolo; il florilegio patristico, che mirava ad affermare la formulazione latina del Filioque e a dimostrare la sostanziale uguaglianza delle due professioni di fede cristiane, suscita un’entusiastica adesione del Bessarione alle teorie dell’esimio teologo esicasta[30]. La celebre Oratio dogmatica pro unione - discorso composto sulla base del compendio di Bekkos - sancisce il compromesso tra la Curia Romana e il Niceno. Dopo il Discorso di Firenze, il porporato non tornerà più sulla diatriba trinitaria: identificando nell’allontanamento di Bisanzio da Roma la rovina della Chiesa Orientale, il cardinale affida alle immagini la sua attività “pro unione”: le Auctoritates greche e latine effigiate nell’affresco della volta del sacello romano, nella loro disposizione solenne, armonica ed equilibrata, sono un richiamo alla comune esegesi della dottrina cristiana in nome della quale agire compatti contro l’avanzare dell’armata musulmana.
Sintesi tra mondo greco e civiltà latina, gli affreschi bessarionei si prestano ad un’interpretazione sia spirituale che “propagandistica”.
La tripartizione del sistema decorativo vuole illustrare l’itinerario soteriologico dell’anima. Il “bellum contra Turcharum” - a cui gli episodi di S. Michele alludono - rappresenta per il cardinale un mezzo concesso all’umanità per riscattarsi: il concetto, caro al pensiero di Gemisto Pletone, di rendersi degni di ascendere al livello divino attraverso l’esercizio delle virtù, è qui trasposto in termini figurativi.
Così come il mondano deve essere speculum del sovramondano, le immagini sono chiamate ad attestare l’operare terreno del cardinale niceno in favore della crociata e dell’unione delle due chiese ma anche - come dimostra l’iconografia della Deesis in controfacciata - la ricerca individuale di una relazione stretta con i propri interlocutori celesti, pro remedio animae; ed è proprio l’animula del defunto - nelle sembianze di un bimbo nudo inginocchiato, con le mani giunte - ad essere portata al cospetto di Dio da un angelo.
NOTE AL TESTO
[1] C. Busiri Vici, Un ritrovamento eccezionale relativo all’antica basilica dei SS. Apostoli in Roma, in Fede e Arte, XIII, Roma 1960
[2] B. Malvasia, Compendio historico della ven. basilica di SS. dodeci apostoli di Roma, sua fondatione, origine, nobiltà, sito, pretiosi tesori delle Sante reliquie, Roma 1665, pp. 36-37.
[3] Cf. A. Cecchini, Instromento con l’imbiancatore, in V. Tiberia, Antoniazzo Romano per il Cardinale Bessarione a Roma, Todi 1992, Doc. 10, p. 124.
[4] A. Bandini, De Bessarionis cardinalis Nicaeni vita, rebus gestis, scriptis, commentarius, in J. P. Migne (a cura di), Patrologia Graeca, Paris 1866, Appendix Monumentorum, 161, cc. LXXVIII-LXXXI.
[5] A. Bandini, cit., Appendix Monumentorum, 161, cc. cc. LXXXIII-XCI. Il testo originale si trova presso l’Archivio Vaticano.
[6] La struttura divisoria, consistente in una transenna marmorea trabeata intervallata da colonne con grata in ferro decorata alla sommità da foglie, appare molto simile a quella che sarà realizzata sotto Sisto IV, alcuni anni dopo, nella Cappella Sistina
[7] «Item volo et ordino ut omnino depingatur capella eo modo prout conveni et ordinavi cum magistro», A. Bandini, cit., 161, cc. LXXVIII-LXXXI.
[8] E. Müntz, Les arts à la cour des papes pendant le XVe et le XVIe siècle. Recueil de documents inédits, II, Paris, 1879, p. 82.
[9] All’interno dell’edicola è stata collocata una copia della tavola realizzata in occasione dei lavori di restauro inerenti il sacello partiti nel 1996.
[10] In merito alla questione, cf. A. Cavallaro, Antoniazzo Romano e gli antoniazzeschi. Una generazione di pittori nella Roma del Quattrocento, Udine 1992.
[11] Cf. C. Busiri Vici, op. cit.
[12] Cf. A. Cavallaro 1992, op. cit., doc. X, p. 531; Ead.,, Melozzo da Forlì a Roma, in Il ‘400 a Roma. La rinascita delle arti da donatello a Perugino, M. Grazia Bernardini - M. Bussagli (a cura di), Milano, 2008, vol. I, p. 177.
[13] M. Minardi, schede 30-31, pp. 179-180, in D. Benati - M. Natale - A. Paolucci (a cura di), Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello. Catalogo della mostra (29 Gennaio 2011-12 Giugno 2011), Cinisello Balsamo, 2011.
[14] Cf. F. Lollini, 1991, op. cit., pp. 12-13; A. Coliva, Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta, in “Studi in onore di Giulio Carlo Argan”, Scandicci 1994, p. 113.
[15] Cf. M. Bertozzi, Il convito di Ferrara. Giorgio Gemisto Pletone e il mito del paganesimo antico ai tempi del Concilio, in Ferrara e il Concilio 1438-1439. Atti del convegno di studi nel 550° anniversario del concilio dell’unione delle due chiese d’oriente e d’occidente, Ferrara, 1989, pp. 133-141.
[16] Cf. A. Coccia, Il Cardinale Bessarione e la Basilica dei SS. XII Apostoli in Roma, in Miscellanea Francescana, 73, III-IV, 1973, pp. 371-38
[17] Cf. A. Bandini, cit., 161, cc. LXXVI-LXXVII.
[18] Ibidem, cc. LXXIII-LXXVI.
[19] P. Scazzoso-E. Bellini (a cura di), Dionigi Areopagita. Tutte le opere, Milano, 2009, pp. 68-69
[20] L’iscrizione è riportata per la prima volta in I. Mazzucco, Iscrizioni della basilica e convento dei Santi Dodici Apostoli in Roma, Roma 1987, p. 50; l’autore è il primo a collegare il Monte Tumba al Monte Tombe, l’attuale Mont Saint Michel.
[21] Anche qui, come nell’affresco della volta con i Padri: le due Chiese, la greca e la latina, sarebbero adombrate nei due gruppi di monaci, francescani e basiliani, che assistono alla scena.
[22] L. Totaro (a cura di), E. S. Piccolomini, I Commentarii, Milano 1984 libro III, cap. 13, p. 481.
[23] Cf. V. Tiberia, op. cit., p. 37
[24] Ricordiamo che i primi accordi tra il cardinale e Antoniazzo Romano, ai quali si riferisce il testamento, sono stati verosimilmente presi tra il 30 aprile e il 5 luglio del 1463, periodo in cui le speranze riposte nel progetto antiturco risultano ancora convincenti.
[25] La morte coglierà il cardinale levantino a Ravenna, il 18 novembre 1472, di ritorno da Orlèans dopo un ennesimo, inutile tentativo di risvegliare in Luigi XI velleità crociate
[26] F. Lollini, 1991, op. cit., p. 12.
[27] Illustre familiaris dell’Accademia bessarionea, nel 1464 (anno in cui iniziano i lavori nella cappella romana) il Della Rovere riceve la nomina di Ministro Generale dell’Ordine dei Minori.
[28] Cf. C. Busiri Vici, op. cit., p. 80 e V. Tiberia, op. cit., p. 46.
[29] P. Scazzoso-E. Bellini (a cura di), Dionigi Areopagita, cit., p. 63
[30] Intervento del prof. Antonio Rigo (Università Ca' Foscari di Venezia), Bessarione teologo fra Oriente e Occidente, tenutosi presso l’Academia Cardinalis Bessarionis in data 18/3/2011, in occasione della giornata di studio dal titolo Bessarione e la sua Accademia, riunione alla quale era presente chi scrive.