articolo rielaborato da Valeria Scuderi il 10/02/18
Porta Maggiore
è una delle porte nelle Mura aureliane di Roma. Si trova nel punto in
cui convergevano otto degli undici acquedotti che portavano l'acqua alla città,
nella zona che, per la vicinanza al vecchio
tempio dedicato nel 477 a .C.
alla dea Speranza (da non confondere con l'omonimo tempio più recente,
inaugurato verso il 260 nell'area del Foro Olitorio), veniva chiamata ad Spem
Veterem. Tutta l'area nelle vicinanze è ricca di reperti antichi: piccoli
monumenti funebri, colombari, ipogei e, soprattutto, una "basilica
sotterranea".
La basilica sotterranea di Porta Maggiore
si trova a Roma, nel quartiere Prenestino-Labicano, vicino alla Porta Maggiore. È di epoca tiberiana o claudia (tra il 14 ed il 54 d.C.).
La sua scoperta avvenne casualmente il 23 aprile 1917, in seguito al cedimento di una volta della basilica, sulla quale si stava costruendo il viadotto ferroviario da e per la stazione Termini e, a livello stradale, la linea tramviaria che serve i quartieri situati lungo la via Prenestina.
Per evitare danneggiamenti derivanti dalle vibrazioni dei treni e dalle infiltrazioni d'acqua, nel 1951 venne posta una soletta di cemento armato con una intercapedine. Tale intervento, però, non ne garantisce la completa protezione e la presenza di un parassita contribuisce al danneggiamento degli stucchi.
La basilica ha una struttura a tre navate con abside centrale e misura circa 12 metri di lunghezza, 9 di larghezza e 7 di altezza.
Per costruire la basilica sono state scavate sottoterra le forme delle colonne e poi è stato colato dentro dell'aggregato cementizio, questo aggregato una volta consolidato ha permesso di creare la volta e un'apertura sul vertice, e successivamente è stata svuotata la terra dentro.
La basilica, quindi non si trova sottoterra perché col passare del tempo c'è stata una stratificazione del territorio che ha fatto scomparire l'edificio, ma è stata realizzata per essere sotterranea.
I soffitti e le pareti sono fittamente adornati di stucchi rappresentanti diverse scene mitologiche con tema il destino dell'anima e i segreti delle iniziazione ai Misteri. Tra queste: Ganimede rapito da Zeus, Medea che offre una bevanda magica al drago che custodisce il vello d'oro in modo che Giasone se ne possa impadronire, la poetessa Saffo che si getta in mare e, ancora, vittorie alate, teste di medusa, bambini che giocano, anime condotte agli inferi, un rito di matrimonio, oggetti di culto, animali e un pigmeo che torna dalla caccia alla sua capanna.
L'ingresso, seminascosto e quasi sempre chiuso al pubblico, non è quello originario. Dalla fine dell'aprile 2015 previa prenotazione pochi visitatori possono visitare questi ambienti in giorni prestabiliti dal MIBAC.
Probabile opera di una setta mistico-esoterica, risulta ancora incerta la sua funzionalità: tomba o basilica funeraria, ninfeo o, più probabilmente, tempio neopitagorico.
La natura magica e misteriosa del luogo ha dato adito a voci che la vogliono sede di celebrazioni di riti magici in cui evocare creature sotterranee e sataniche.
La sua scoperta avvenne casualmente il 23 aprile 1917, in seguito al cedimento di una volta della basilica, sulla quale si stava costruendo il viadotto ferroviario da e per la stazione Termini e, a livello stradale, la linea tramviaria che serve i quartieri situati lungo la via Prenestina.
Per evitare danneggiamenti derivanti dalle vibrazioni dei treni e dalle infiltrazioni d'acqua, nel 1951 venne posta una soletta di cemento armato con una intercapedine. Tale intervento, però, non ne garantisce la completa protezione e la presenza di un parassita contribuisce al danneggiamento degli stucchi.
La basilica ha una struttura a tre navate con abside centrale e misura circa 12 metri di lunghezza, 9 di larghezza e 7 di altezza.
Per costruire la basilica sono state scavate sottoterra le forme delle colonne e poi è stato colato dentro dell'aggregato cementizio, questo aggregato una volta consolidato ha permesso di creare la volta e un'apertura sul vertice, e successivamente è stata svuotata la terra dentro.
La basilica, quindi non si trova sottoterra perché col passare del tempo c'è stata una stratificazione del territorio che ha fatto scomparire l'edificio, ma è stata realizzata per essere sotterranea.
I soffitti e le pareti sono fittamente adornati di stucchi rappresentanti diverse scene mitologiche con tema il destino dell'anima e i segreti delle iniziazione ai Misteri. Tra queste: Ganimede rapito da Zeus, Medea che offre una bevanda magica al drago che custodisce il vello d'oro in modo che Giasone se ne possa impadronire, la poetessa Saffo che si getta in mare e, ancora, vittorie alate, teste di medusa, bambini che giocano, anime condotte agli inferi, un rito di matrimonio, oggetti di culto, animali e un pigmeo che torna dalla caccia alla sua capanna.
L'ingresso, seminascosto e quasi sempre chiuso al pubblico, non è quello originario. Dalla fine dell'aprile 2015 previa prenotazione pochi visitatori possono visitare questi ambienti in giorni prestabiliti dal MIBAC.
Probabile opera di una setta mistico-esoterica, risulta ancora incerta la sua funzionalità: tomba o basilica funeraria, ninfeo o, più probabilmente, tempio neopitagorico.
La scuola pitagorica
appartenente al
periodo presocratico, fu fondata da Pitagora a Crotone intorno al 530 a .C., sull'esempio delle
comunità orfiche e delle sette religiose d'Egitto e di Babilonia, terre che,
secondo la tradizione, egli avrebbe conosciuto in occasione dei suoi precedenti
viaggi di studio.
La scuola filosofica dei pitagorici venne fondata da Pitagora (575-490/97 a.C.), di cui non abbiamo notizie certe per quanto riguarda la vita ne le teorie. Da ricerche storiche risulta che altri filosofi a lui contemporanei ne ignorassero o non comprendessero con precisione quale fossero le sue teorie filosofiche.
La scuola pitagorica nacque in Grecia ma si sviluppò in Magna Grecia, nei centri culturali di Sibari, Crotone, Reggio Calabria e Agrigento dove professarono le loro idee fino al V secolo aC, quando vennero allontanati da queste città perché accusati di avere idee anti democratiche.
La filosofia pitagorica venne più tardi rielaborata da studiosi greci di cui il più importante esponente fu Filolao (Crotone, 470 a.C. - Tebe, 390 a.C.).
Pitagora (575-490/97 a.C.) Pitagora (Samo in Grecia, tra il 580 a.C. e il 570 a.C. – Metaponto (vicino Matera), 495 a.C. circa) è stato un filosofo greco antico. Fu matematico, taumaturgo, astronomo,scienziato, politico e fondatore a Crotone in Calabria di una delle più importanti scuole di pensiero dell'umanità, che prese da lui stesso il suo nome: la Scuola pitagorica.
La città di Crotone fu fondata da coloni greci provenienti dalla regione dell'Acaia nella seconda metà dell'VIII secolo a.C. nel luogo di un preesistente insediamento indigeno, e rappresentò uno dei centri più importanti della Magna Grecia. La città vecchia si sviluppa in un dedalo di stretti vicoli e piazzette fino al duomo e alla centrale piazza Pitagora, punto di contatto tra città "vecchia" e "nuova".
Pitagora viene ricordato come fondatore storico della scuola a lui intitolata, nel cui ambito si svilupparono molte conoscenze, in particolare quelle matematiche e le sue applicazioni come il noto teorema di Pitagora. Il suo pensiero ha avuto enorme importanza per lo sviluppo della scienza occidentale, perché ha intuito per primo l'efficacia della matematica per descrivere il mondo. Le sue dottrine segnerebbero la nascita di una riflessione improntata all'amore per la conoscenza.
Quasi sicuramente Pitagora non lasciò nulla di scritto e le opere Tre libri e Versi aurei vanno ascritte ad autori sconosciuti, che li scrissero in epoca cristiana o di poco antecedente.
Giamblico (Siria, 245 – 325) fondatore di una scuola neopitagorica ad Apamea, in Siria, attesta che i primi libri a contenuto pitagorico pubblicati furono opera di Filolao (Crotone, 470 a.C. - Tebe, 390 a.C.).
La vita di Pitagora è avvolta nel mistero, di lui sappiamo pochissimo e la maggior parte delle testimonianze che lo riguardano sono di epoca più tarda.
Alcuni autori suoi contemporanei o di poco posteriori come Senofane, Eraclito ed Erodoto ci danno testimonianze tali da far pensare alla esistenza storica di Pitagora, pur se inserita nella tradizione leggendaria, la sua fisionomia di filosofo risulta confusa poiché si mescola alla leggenda narrata nelle numerose Vite di Pitagora, composte nel periodo del del neopitagorismo, nelle quali il filosofo viene presentato come figlio del dio Apollo.
Sulla sua morte i resoconti dei biografi non coincidono: essendo scoppiata una rivolta dei democratici contro il partito aristocratico pitagorico, la casa dove si erano riuniti gli esponenti più importanti della setta fu incendiata. Si salvarono Archippo e Liside che si rifugiò a Tebe. Secondo una versione, Pitagora prima della sommossa si era ritirato a Metaponto, dove morì. Secondo altri invece casualmente era assente alla riunione nella casa incendiata e quindi riuscì a salvarsi fuggendo prima a Locri, quindi a Taranto e da lì a Metaponto dove morì.
Organizzazione all’interno della scuola
Pitagora fu un discepolo di Anassimandro, filosofo di Mileto, entrambi devoti dei misteri eleusini e dei culti orfici di derivazione orientale. La scuola dei pitagorici, molto diversa dalle altre scuole filosofiche classiche, era organizzata come una setta religiosa aperta a tutti, donne e stranieri compresi.
Caso strano nell’antichità, i pitagorici elaboravano le dottrine filosofiche lavorando in gruppo, non era il singolo che primeggiava ma la squadra, a differenza di altri filosofi di altre scuole (anche quelli di Mileto). Infatti Aristotele dopo aver parlato dei fisiologi, (Talete, Anassimandro e Anassimene), esamina i pitagorici, senza far distinzione fra Pitagora e i suoi discepoli.
Man mano la scuola perse il suo carattere prettamente filosofico per abbracciarne uno mistico e religioso. Il ruolo del filosofo si confondeva con quello del sacerdote e educatore religioso, che pronunciava oracoli invece di avanzare ipotesi e teorie razionali ed equilibrate.
All’interno della cerchia dei discepoli, c’erano due categorie: gli acusmatici (coloro che ascoltano), che potevano solo ascoltare senza poter contestare ciò che diceva il maestro, e i matematici, che invece avevano la facoltà di parlare liberamente con il maestro e quindi di formare un’opinione personale.
Gli acumastici prima dovevano purificarsi (come gli adepti dei culti orfici) e sottoporsi ad una sorta di catechismo, che insegnava loro i principi del loro credo religioso: essi dovevano rispettare gli dei, essere fedeli agli amici, fare un esame di coscienza ogni sera, un progetto per la nuova giornata ogni mattina, non dovevano mangiare né carne né fave, non dovevano indossare panni di lana e anelli, non potevano girarsi indietro per raccogliere qualcosa caduto, inoltre non potevano spezzare il pane o attizzare il fuco con il metallo.
I pitagorici riprendono dai misteri eleusini l’esotericità, cioè i loro insegnamenti non erano destinati ad un pubblico vasto, ma solo agli appartenenti alla scuola, e questi non potevano rivelarlo a quelli che ne erano al di fuori, pena la morte. Ippaso di Metaponto, fu ad esempio ucciso per aver rivelato l'interpretazione che i pitagorici facevano di alcuni numeri, e che a suo avviso era interpretazione irrazionale.
Caso strano nell’antichità, i pitagorici elaboravano le dottrine filosofiche lavorando in gruppo, non era il singolo che primeggiava ma la squadra, a differenza di altri filosofi di altre scuole (anche quelli di Mileto). Infatti Aristotele dopo aver parlato dei fisiologi, (Talete, Anassimandro e Anassimene), esamina i pitagorici, senza far distinzione fra Pitagora e i suoi discepoli.
Man mano la scuola perse il suo carattere prettamente filosofico per abbracciarne uno mistico e religioso. Il ruolo del filosofo si confondeva con quello del sacerdote e educatore religioso, che pronunciava oracoli invece di avanzare ipotesi e teorie razionali ed equilibrate.
All’interno della cerchia dei discepoli, c’erano due categorie: gli acusmatici (coloro che ascoltano), che potevano solo ascoltare senza poter contestare ciò che diceva il maestro, e i matematici, che invece avevano la facoltà di parlare liberamente con il maestro e quindi di formare un’opinione personale.
Gli acumastici prima dovevano purificarsi (come gli adepti dei culti orfici) e sottoporsi ad una sorta di catechismo, che insegnava loro i principi del loro credo religioso: essi dovevano rispettare gli dei, essere fedeli agli amici, fare un esame di coscienza ogni sera, un progetto per la nuova giornata ogni mattina, non dovevano mangiare né carne né fave, non dovevano indossare panni di lana e anelli, non potevano girarsi indietro per raccogliere qualcosa caduto, inoltre non potevano spezzare il pane o attizzare il fuco con il metallo.
I pitagorici riprendono dai misteri eleusini l’esotericità, cioè i loro insegnamenti non erano destinati ad un pubblico vasto, ma solo agli appartenenti alla scuola, e questi non potevano rivelarlo a quelli che ne erano al di fuori, pena la morte. Ippaso di Metaponto, fu ad esempio ucciso per aver rivelato l'interpretazione che i pitagorici facevano di alcuni numeri, e che a suo avviso era interpretazione irrazionale.
Gli insegnamenti impartiti dal maestro erano a carattere dogmatico, cioè dovevano
essere presi come verità assoluta e non potevano essere contestati.
Diogene Laerzio riporta che il maestro all’inizio di ogni discorso soleva dire che non avrebbe tollerato nessuna insinuazione riguardo a quello che stava dicendo. Inoltre il maestro parlava dietro una tenda e chi riusciva a vederlo se ne vantava a vita. Diogene Laerzio (180 – 240) è stato uno storico greco antico, la cui opera, Vite dei filosofi, è una delle fonti principali sulla storia della filosofia greca.
Da queste testimonianze, sembrerebbe che nella scuola pitagorica, venne a mancare la caratteristica principale della filosofia, che ricerca la verità attraverso la discussione, confutazione, confronto e rielaborazione di concetti preesistenti. La base della ricerca filosofica è proprio la libertà di pensiero, ma sembrerebbe che nella scuola pitagorica questo principio venne a cadere.
La filosofia pitagorica venne più tardi rielaborata da studiosi greci di cui il più importante esponente fu Filolao (Crotone, 470 a.C. - Tebe, 390 a.C.). Secondo Diogene Laerzio, Filolao nacque a Crotone[1]. Si ritiene sia stato un pitagorico[1] della seconda generazione. Per primo contribuì ad esportare il pensiero della scuola pitagorica fuori dai confini ellenici. Fu il maestro di Archita e fu menzionato da Platone. Contemporaneo di Socrate, negli ultimi decenni del V secolo a.C. visse a Tebe.
Diogene Laerzio riporta che il maestro all’inizio di ogni discorso soleva dire che non avrebbe tollerato nessuna insinuazione riguardo a quello che stava dicendo. Inoltre il maestro parlava dietro una tenda e chi riusciva a vederlo se ne vantava a vita. Diogene Laerzio (180 – 240) è stato uno storico greco antico, la cui opera, Vite dei filosofi, è una delle fonti principali sulla storia della filosofia greca.
Da queste testimonianze, sembrerebbe che nella scuola pitagorica, venne a mancare la caratteristica principale della filosofia, che ricerca la verità attraverso la discussione, confutazione, confronto e rielaborazione di concetti preesistenti. La base della ricerca filosofica è proprio la libertà di pensiero, ma sembrerebbe che nella scuola pitagorica questo principio venne a cadere.
La filosofia pitagorica venne più tardi rielaborata da studiosi greci di cui il più importante esponente fu Filolao (Crotone, 470 a.C. - Tebe, 390 a.C.). Secondo Diogene Laerzio, Filolao nacque a Crotone[1]. Si ritiene sia stato un pitagorico[1] della seconda generazione. Per primo contribuì ad esportare il pensiero della scuola pitagorica fuori dai confini ellenici. Fu il maestro di Archita e fu menzionato da Platone. Contemporaneo di Socrate, negli ultimi decenni del V secolo a.C. visse a Tebe.
Nel campo dell'astronomia, Filolao approdò alla conoscenza del ruolo marginale della terra nel sistema solare, attribuendo la massima importanza al "fuoco centrale", Hestia, ovvero la sede di Zeus, centro dell'attività cosmica; egli infatti sosteneva un modello non geocentrico. Al centro dell'universo vi era dunque un grande Fuoco attorno al quale ruotavano in senso antiorario dieci corpi: la Terra, l'Antiterra, la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, e il cielo delle stelle fisse interpretato come un fuoco esterno.
I dieci corpi si trovavano lontani dal Fuoco centrale secondo distanze proporzionali a fattori del numero 3, un numero ritenuto sacro dai pitagorici. I rapporti numerici tra i pianeti costituivano un'armonia, un ordine perfetto, percepibile dalle menti più sviluppate come intelligenza sonora, chiamata anche musica delle sfere.
Viene attribuita a Filolao la formalizzazione del ruolo del numero nei modelli fisici con la proposizone: «Tutte le cose conosciute posseggono un numero e nulla possiamo comprendere e conoscere senza di questo».
I pitagorici credevano nella metempsicosi, cioè nella
reincarnazione dell’anima. Essi molto probabilmente avevano ereditato questa
convinzione dai culti orfici, che a loro volta la avevano ripresa
dall’induismo.
I pitagorici ritenevano che l’anima fosse di origine divina e che quindi il corpo fosse una sorta di prigione, dalla quale essa si poteva liberare dopo aver passato alcune vite via via sempre migliori, fino alla purificazione (catarsi) quando l’anima sarebbe ritornata di origine divina e libera. Durante questo cammino di conoscenza, l'anima poteva anche reincarnare in animali, la cui carne per questo motivo non si poteva mangiare.
Un’altra teoria sull’anima venne elaborata più tardi dalla seconda generazione dei pitagorici, che riteneva che l’anima fosse in equilibrio con il corpo, e una volta rotto questo stato di armonia essa sarebbe morta.
I pitagorici ritenevano che l’anima fosse di origine divina e che quindi il corpo fosse una sorta di prigione, dalla quale essa si poteva liberare dopo aver passato alcune vite via via sempre migliori, fino alla purificazione (catarsi) quando l’anima sarebbe ritornata di origine divina e libera. Durante questo cammino di conoscenza, l'anima poteva anche reincarnare in animali, la cui carne per questo motivo non si poteva mangiare.
Un’altra teoria sull’anima venne elaborata più tardi dalla seconda generazione dei pitagorici, che riteneva che l’anima fosse in equilibrio con il corpo, e una volta rotto questo stato di armonia essa sarebbe morta.
L’arché nei numeri
Mentre nei culti orfici la purificazione si raggiungeva attraverso alcuni riti purificatori, per i pitagorici la purificazione avvenniva attraverso lo sturitenevano che la vita del matematico fosse quella più vicina alla purificazione, e alla sua fine l’anima sarebbe ritornata di origine divina e libera. Questo perché essi ritenevano che l’arché fosse nei numeri.
Pitagora fu il primo filosofo a introdurre il concetto di Armonia Cosmica legata ai numeri e alla musica da loro cantata. I pitagorici consideravano la musica come la massima forma di armonia, perchè creata da proporzioni numeriche. La musica delle sfere celesti aveva per i pitagorici il compito di ordinare l'Universo bilanciando forse negative e positive che avevano il compito di tenere in equilibrio l'intero Cosmo (questo concetto è simile a quello dell'albero della vista Caballistico, dove le sfere (seforat) si tengono in equilibrio grazie alla potenza di forze positive e negative che si attraggono e respingono fra loro, creando il respiro cosmico, descritto come musica prodotta dal movimento delle sfere celesti.
Per i pitagorici l'arché era nei numeri, che compongono ogni cosa che è naturale e che possono essere utilizzati per rappresentare tutte le cose che esistono in natura. Per meglio comprendere questa concetto, va detto che per i Greci i numeri non erano concetti astratti, ma proporzioni armoniche rappresentate attraverso forme geometriche, date da un susseguirsi di punti, definiti numeri per l'appunto.
Pitagora fu il primo filosofo a introdurre il concetto di Armonia Cosmica legata ai numeri e alla musica da loro cantata. I pitagorici consideravano la musica come la massima forma di armonia, perchè creata da proporzioni numeriche. La musica delle sfere celesti aveva per i pitagorici il compito di ordinare l'Universo bilanciando forse negative e positive che avevano il compito di tenere in equilibrio l'intero Cosmo (questo concetto è simile a quello dell'albero della vista Caballistico, dove le sfere (seforat) si tengono in equilibrio grazie alla potenza di forze positive e negative che si attraggono e respingono fra loro, creando il respiro cosmico, descritto come musica prodotta dal movimento delle sfere celesti.
Per i pitagorici l'arché era nei numeri, che compongono ogni cosa che è naturale e che possono essere utilizzati per rappresentare tutte le cose che esistono in natura. Per meglio comprendere questa concetto, va detto che per i Greci i numeri non erano concetti astratti, ma proporzioni armoniche rappresentate attraverso forme geometriche, date da un susseguirsi di punti, definiti numeri per l'appunto.
L’armonia della natura è riconducibile quindi al numero, cioè alle
proporzioni numeriche, che non rappresentano le cose, ma il principio, l’ordine
che si trova dietro di esse e che non si può vedere, perchè è intelligibile, cioè ci
si può arrivare solo grazie al pensiero elaborando ciò che si è osservato attraverso il pensiero filosofico.
Quindi ad ogni numero corrisponde una cosa, che a sua volta ha dietro di essa
una relazione numerica che la lega con le altre.
Quindi la natura delle cose si modella su quella dei numeri, quindi i contrari in natura (concetto che riprende da Anassimandro) sono determinanti dai contrari numerici, che vengono individuati in numeri pari, imperfetti, o dispari, perfetti. I pitagorici individuavano i vari contrari fondamentali associati ai numeri pari o dispari: le determinazioni positive erano associate a numeri dispari mentre quelle negative a numeri pari.
A questi due insiemi erano associati rispettivamente i concetti di illimitato (apeiron) e limite (peras). C’era poi l’uno, che era parimpari, in quanto che se sommato ad un numero pari dava un numero dispari e viceversa (mancava invece lo 0 perchè introdotto molti secoli più tardi dagli arabi).
Ogni numero era carico di un suo significato fondamentale: l’uno, ad esempio era l’intelligenza, il sette indicava i momenti critici della vita (kairos), cioè il parto settimino, la perdita del primo dente da latte a sette anni, la pubertà a 14 e la maturità a 21. Il dieci invece, era il numero perfetto, formato dai primi quattro numeri e che conteneva i primi quattro pari e i primi quattro dispari, rappresentato da un triangolo equilatero. Dieci erano inoltre le opposizioni fondamentali individuate.
Per i pitagorici giunsero alla profonda convinzione che i numeri fossero l’arché alla base della natura e di tutte le cose, grazie a precise relazioni numeriche disposte armonicamente.
Quindi la natura delle cose si modella su quella dei numeri, quindi i contrari in natura (concetto che riprende da Anassimandro) sono determinanti dai contrari numerici, che vengono individuati in numeri pari, imperfetti, o dispari, perfetti. I pitagorici individuavano i vari contrari fondamentali associati ai numeri pari o dispari: le determinazioni positive erano associate a numeri dispari mentre quelle negative a numeri pari.
A questi due insiemi erano associati rispettivamente i concetti di illimitato (apeiron) e limite (peras). C’era poi l’uno, che era parimpari, in quanto che se sommato ad un numero pari dava un numero dispari e viceversa (mancava invece lo 0 perchè introdotto molti secoli più tardi dagli arabi).
Ogni numero era carico di un suo significato fondamentale: l’uno, ad esempio era l’intelligenza, il sette indicava i momenti critici della vita (kairos), cioè il parto settimino, la perdita del primo dente da latte a sette anni, la pubertà a 14 e la maturità a 21. Il dieci invece, era il numero perfetto, formato dai primi quattro numeri e che conteneva i primi quattro pari e i primi quattro dispari, rappresentato da un triangolo equilatero. Dieci erano inoltre le opposizioni fondamentali individuate.
Per i pitagorici giunsero alla profonda convinzione che i numeri fossero l’arché alla base della natura e di tutte le cose, grazie a precise relazioni numeriche disposte armonicamente.
Concetto di intelligibile
I pitagorici furono i primi a dedurre che l’osservazione della natura fosse limitante per la filosofia, perché l'osservazione "razionale" si poneva davanti al filosofo come un velo che non gli permetteva di vedere chiaramente cosa ci fosse dietro, spesso ciò che si cela dietro la natura non è visibile, e va immaginato e dedotto attraverso ragionamenti intelligibili.
Il pensiero permette di oltrepassare questo velo (physis) e di conoscere la verità a coloro che ambiscono a scoprirla, e che comprendono che fermarsi ai dati che provengono dai sensi sarebbe riduttivo. Questo concetto fu ripreso da Platone, che teorizzò che non ci si può limitare all'osservazione della pura fisicità delle cose (physis), ma che occorre interrogarsi su cosa c'è oltre la mera apparenza delle cose fisiche, andando a ricercare il loro principio più intimo definito filodoxoi.
Eraclito dice che coloro che si fidano delle apparenze hanno solo opinioni, che dice essere giochi da ragazzi. Essi, aggiunge, credono di sapere e capire ma sono sordi e ciechi.
I pitagorici sfruttarono le capacità del pensiero umano per giungere ad elaborare le loro idee filosofiche, tramite interrogativi, ma comprendendo che le risposte a questi interrogativi è complessa e profonda come l'infinito cosmico.
Il pensiero permette di oltrepassare questo velo (physis) e di conoscere la verità a coloro che ambiscono a scoprirla, e che comprendono che fermarsi ai dati che provengono dai sensi sarebbe riduttivo. Questo concetto fu ripreso da Platone, che teorizzò che non ci si può limitare all'osservazione della pura fisicità delle cose (physis), ma che occorre interrogarsi su cosa c'è oltre la mera apparenza delle cose fisiche, andando a ricercare il loro principio più intimo definito filodoxoi.
Eraclito dice che coloro che si fidano delle apparenze hanno solo opinioni, che dice essere giochi da ragazzi. Essi, aggiunge, credono di sapere e capire ma sono sordi e ciechi.
I pitagorici sfruttarono le capacità del pensiero umano per giungere ad elaborare le loro idee filosofiche, tramite interrogativi, ma comprendendo che le risposte a questi interrogativi è complessa e profonda come l'infinito cosmico.
In conclusione, i pitagorici hanno introdotto due concetti come l’intelligibile e l’arché,
che ancora oggi sono utilizzati da fisici che studiano le
leggi matematiche che sono dietro la natura e i suoi fenomeni. Questi due concetti permettono ai
pitagorici di sopravvivere nella storia e di essere ricordati per la loro
filosofia; anche se il loro modo di "filosofare" è considerato diverso e troppo lontano da quello
canonico.
Anche se ricca di candido marmo travertino, l'imponente struttura con inserite roboanti lapidi in caratteri latini venne costruita dagli architetti romani con il solo scopo di mantenere "a livello" alcuni degli acquedotti che, in varie epoche e da diverse direzioni, portavano acqua alla Capitale dell'Impero.
Monumento degli Acquedotti di Porta Maggiore
Transitare a ridosso o attraverso i fornici monumentali di quella che a Roma è nota come "Porta Maggiore" propone al visitatore una singolare prospettiva storica. Questo splendido avanzo di manufatto romano fa venire in mente, sul momento, l'Arco di Tito o quello di Vespasiano nei Fori ma poi si scopre che si tratta semplicemente di una struttura posta al servizio di alcuni dei più noti tra i manufatti della Roma repubblicana o imperiale e dei quali sono avanzi in tutti i territori dell'Impero Romano: gli acquedotti!
Transitare a ridosso o attraverso i fornici monumentali di quella che a Roma è nota come "Porta Maggiore" propone al visitatore una singolare prospettiva storica. Questo splendido avanzo di manufatto romano fa venire in mente, sul momento, l'Arco di Tito o quello di Vespasiano nei Fori ma poi si scopre che si tratta semplicemente di una struttura posta al servizio di alcuni dei più noti tra i manufatti della Roma repubblicana o imperiale e dei quali sono avanzi in tutti i territori dell'Impero Romano: gli acquedotti!
Anche se ricca di candido marmo travertino, l'imponente struttura con inserite roboanti lapidi in caratteri latini venne costruita dagli architetti romani con il solo scopo di mantenere "a livello" alcuni degli acquedotti che, in varie epoche e da diverse direzioni, portavano acqua alla Capitale dell'Impero.
Per la precisione, gli acquedotti che convergevano sopra l'antico manufatto erano ben otto degli undici totali: Anius Vetus, Appio, Alessandrino, Claudio, Anius Novus, Tepula, Marcio, Julio.
Per praticità, però, le diverse condotte, a circa una cinquantina di metri dal monumento vennero razionalmente riuniti in due sole condotte sovrapposte, in una cisterna o castello d'acqua oggi scomparsa.
Se si guarda con attenzione il profilo del monumento si possono ancora osservare i due tunnel sovrapposti delle condotte del più antico Anius, sopra, e del Claudio, sotto. Fra le due condotte e la sostruzione vera e propria si notano due marcapiano che servirono a posizionare i canali di scorrimento degli acquedotti.
Anticamente dove sono i due archi monumentali transitavano le strade Labicana e Prenestina che conducevano alle due omonime cittadine poste rispettivamente a 120 stadi romani [22 kmt] ed a 250 stadi romani [50 kmt] dal centro dei Fori.
Nel III Sec dC, il monumento venne inserito nelle Mura Aureliane e definito Porta Prenestina.
Con l'avanzare nei territori imperiali degli invasori barbari, la Porta venne più volte fortificata con l'aggiunta di torri e bastioni che, nei secoli, vennero modificati soprattutto quando, tagliati i diversi acquedotti che fornivano d'acqua la città di Roma, il monumento venne a perdere le caratteristiche originarie.
Nel corso dei lavori di ristrutturazione del monumento, nel 1838, abbattendo il torrione centrale che proteggeva i fornici per l'attraversamento, venne rinvenuto un singolarissimo monumento funerario: la tomba del panettiere M. Virgilio Aurisace e di sua moglie Atistia. Aurisace volle far costruire la sua tomba con le forme dei forni della sua epoca e la stessa costituisce un unicum del suo genere in quanto arricchita con strutture circolari in marmo travertino del tutto simili ai forni per il pane del 30 avanti Cristo tutt'ora ben visibili.
Le scritte scolpite nel marmo travertino che campeggiano sulla cima del monumento fanno riferimento agli Imperatori Claudio, Vespasiano, Tito, Arcadio ed Onorio ed, inoltre, ricordano il Curator e Prefetto di Roma Flavio Macrobio Longiniano. Particolarmente interessante è la lapide scolpita in onore degli Imperatori Arcadio ed Onorio in quanto vi è inscritto anche l'unico riferimento storico col nome del generale Flavio Stilicone che, messo a morte per teorica connivenza con Alarico, Re dei Goti, venne condannato alla "damnatio memoriae" con la conseguente cancellazione del suo come da ogni epigrafe e monumento pubblico dell'epoca.