Bomarzo - il Bosco Sacro e la sua simbologia


Articolo pubblicato il 25/3/2010 da Ny Sage e modificato da Astry su Spinner's end

E’ un complesso monumentale che Vicino Orsini fece costruire nel XVI secolo in onore della moglie Giulia Farnese. Progettato dagli architetti Pirro Ligorio, Jacopo Barozzi da Vignola ed altri successori.
E’ un labirinto di simboli di matrice alchemica misti a statue gigantesche e creature mostruose. Scienziati storici e filologi hanno fatto diversi tentativi per spiegare il labirinto, ma la sua vera chiave di lettura resta ancora celata nel mistero.

Consiglio di fare questa visita con calma, in compagnia di pochissime persone e durante un giorno feriale. I mostri hanno un loro linguaggio silenzioso, e vanno “affrontati” con la possibilità di riflettere, lontano dagli assalti “turistici”.


Pirro Ligorio, architetto, autore del progetto di una parte della fantastica scenografia di Bomarzo, proveniva dalla corte Estense (è lui il progettista della straordinaria Villa d’Este di Tivoli), e fu anche autore di una delle prime opere enciclopediche di mito-antiquaria.

Pier Francesco Orsini detto Vicino, fu invece in contatto con gli epigoni di quell’accademia di ermetisti (Cosimo, Pico, Ficino ecc.), fiorita un secolo prima a Firenze, sia perché imparentato con i Medici tramite suo nonno Franciotto, sia perché amico di alchimisti come Drouet e soprattutto del cardinale Madruzzo (promotore del Concilio di Trento).


Vicino Orsini fu sicuramente un guerriero che, nella seconda parte della sua vita, dedicò gran parte delle sue energie al famoso giardino, quasi a produrre un’emanazione della sua ricerca interiore da condividere con alcuni amici. E dedicò il tempietto, che si trova in cima al giardino, a quella Giulia Farnese con la quale visse per poco più di dieci anni.


La dinamica del giardino di Bomarzo risente solo in parte di progetti analoghi esistenti nell’Umbria e nel Lazio. Vicino s’impegnò a ricercare gli aspetti, per così dire “critici” del percorso dell’anima, quelli che comportano scelte difficili, o equilibri pericolosi e, in uscita dai quali il ricercatore deve cambiare drasticamente prospettiva su se stesso.
Quindi, sia che si voglia credere che nel giardino sia esistita una ispirazione al viaggio di Polifilo alla ricerca di Polia, secondo la Hipnerotomachia di Francesco Colonna, (www.italica.rai.it/rinascimento/cen...erotomachia.htm ), sia che Vicino Orsini abbia voluto esprimere una sua visione del tutto originale, antropomorfizzando ogni aspetto del processo ermetico, diventa strategico soffermarsi sulla “drammaticità” delle tensioni esistenti.


Teniamo presente che, nella stessa epoca, i Farnese, i Colonna, gli Estensi, gli Orsini, e più o meno tutte le famiglie nobili, facevano a gara per produrre magioni circondate da giardini meravigliosi. La meraviglia consisteva spesso in un suggerimento ermetico, o iniziatico, favorito dalla presenza di giochi d’acqua, e di gruppi statuari inseriti in una ritmica di proporzioni sapienti.
L’apertura di tali giardini non serviva soltanto a confinare i giochi erotici dei signori del luogo come qualche critico poco accorto avrebbe voluto, ma apriva, a coloro che avevano capacità di vederlo, quel mondo fiabesco che tanto si presta alla traduzione delle anagogie metafisiche più ardite.
Una grande lacuna del giardino di Bomarzo (si deve comunque alla pazienza della famiglia dei Bettini l’aver tentato un decoroso ripristino) è l’assoluta assenza dei grandiosi giochi d’acqua e delle fontane che lo animavano. Quell’acqua che nelle ville del tempo (come la vicina Villa Lante di Bagnaia), costituiva il filo d’Arianna dell’intero percorso.

Un buon punto di partenza alternativo, per il viaggio nel bosco di Bomarzo potrebbe essere costituito dalla cosiddetta “panca etrusca”, 
che invece s’incontra più o meno a metà strada del percorso “turistico”.


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Non si sa assolutamente quali fossero i sentieri che Vicino Orsini aveva voluto programmare per i suoi ospiti, ma dobbiamo osservare che su tale struttura campeggia la scritta:
Voi che per mondo gite errando, vaghi di veder meraviglie alte e stupende, venite qua, ove son facce horrende, elefanti, leoni, orsi, orchi e draghi.



Questa “panca” si trova attualmente in una zona relativamente appartata e pianeggiante. Potrebbe essere realmente una “tappa”, un punto di riposo e di riflessione dopo un incontro con i primi “mostri” ma, a nostro avviso è ugualmente possibile che l’ingresso “iniziatico” del bosco potesse trovarsi lì, magari subito dopo le due “sfingi”, 
ognuna delle quali riporta un suggerimento sul tipo di “atteggiamento interiore” da tenere durante il percorso, che dunque viene esplicitamente dichiarato come equivalente a un cammino iniziatico.


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La prima sfinge riporta:
“Tu ch’entri qua pon mente, parte a parte, e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”.

Mentre la seconda sfinge riporta:
“Chi con ciglia inarcate e labbra strette non va per questo loco, manco ammira, le famose del mondo moli sette”

Sommando le tre frasi potremmo parafrasare come segue:
“Voi che gite errando (il parallelo con i cavalieri erranti è fin troppo facile) alla ricerca del mistero dell’avventura, che cercate meraviglie esteriori con le quali gratificarvi, venite invece in questo bosco interiore dove troverete facce orrende (i mostri interiori, gli aspetti meno nobili o comunque terrifici) ma anche gli elementi dell’opera (drago, orso, orchi, elefanti e leoni hanno un esplicito senso in parallelo agli “elementi” dell’Opera alchemica). E ditemi se ponendo mente (cioè esercitando una attenzione reale), parte a parte (separando e raffinando, come in un processo alchemico), tutte queste meraviglie siano fatte per inganno (soltanto una proiezione illusoria della mente o comunque un inganno di chi le ha progettate) o se, in realtà, tali incontri non abbiano un senso magistrale e non celino un'Arte (l’arte, per gli alchimisti cela il magistero con cui si conduce l’Opera alchemica). Ovviamente è necessario che chi va in questo loco, abbia ciglia inarcate (cioè il cuore e la mente pronti allo stupore ma anche in-arco e cioè atte alla visione… arcana) e labbra strette (mantenga celato nel suo animo il segreto dell’Opera).”

Sulla sinistra della strada d’ingresso un sentiero porta verso una bocca colossale (fig.3),


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che ricorda quella del “mostro” oracolare, nella quale ogni pensiero vola (fig.4);

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ma tale bocca non è pronta a parlare. Quasi tutti gli interpreti vi vedono l’elemento proteiforme della natura non ancora ordinata, il principio caotico, divoratore e produttore di tutte le trasformazioni. Insomma, l’energia primordiale fluttuante nell’Universo e, se si volesse spingere il ragionamento verso un’interpretazione alchemica più consona: l’allume. 

Ovviamente in questa come in altre considerazioni relative all'alchimia parliamo degli aspetti geometrici dei simboli, e non del loro uso spagirico (n.d.Ary: Relativo alla dottrina medica di Paracelso che si basa sullo studio e l'esame critico della natura dei mezzi chimici e sul loro sfruttamento terapeutico), che parte dalla quadri-partizione dell'uomo nelle sue direzioni e nei suoi elementi.


Ma, al disopra di tale maschera una sfera ruotante indica forse la materia in corso di aggregazione formale, la prima separazione dal caos. La fascia intermedia potrebbe alludere al primo elemento che si forma dalla prima materia: il sale (anche in questo caso alludiamo alla forma geometrica del simbolo e non alle moltissime varianti del "sale" presenti in alchimia).


Alcuni vedono in tale maschera la via sbarrata, l’ostacolo insormontabile o addirittura l’errore di percorso, ma forse potrebbe rappresentare la base e il fondamento stesso dell’opera, presente in tutto il percorso e complementare a quella Demetra o Cerere che incontreremo più oltre. E il fatto che non faccia parte del cammino e sia difficilmente collegabile alle altre strutture potrebbe suggerire che, colui che vuol passare da tale direzione, deve affrontare un salto terribile, non concesso a tutti.


Proseguendo invece nella direzione opposta s’incontrano gli altri mostri. Iniziamo dalla “tartaruga” (fig.5), connessa al “Visita interiora terrae” e quindi al Vitriol e al Tartaro.


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La tartaruga attraversa le acque sopra una nave e punta dritta verso la bocca spalancata di una Balena. Tale ulteriore mostro (non visibile nella foto) ci fa venire in mente l’avventura di Giona e quindi l’elemento che rappresenta la “prudenza” e il “coraggio” necessari sia per attraversare la Grande Acqua come per sprofondare all’interno di se stessi. Sopra la Tartaruga campeggia una “Vittoria” o, forse meglio, una “Fortuna” che come quelle famose illustrate dal Durer, si mantiene in equilibrio su una palla, a mostrare la precarietà del cammino, ma anche la certezza del risultato e il dominio sul mondo.

Vicino alla Tartaruga appare il trionfo del Pegaso (fig.6), probabilmente disposto in un punto inesatto.


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Infatti, la piccola statua del cavallo alato è stata sicuramente riassemblata in quel luogo, durante i vari lavori di ricostruzione. Se volessimo paragonare i due simboli fra loro potremmo dire che il primo concerne il viaggio verso il “tartaro” o verso il basso, e il secondo il viaggio verso l’alto (verso le acque celesti), parafrasando uno dei temi classici dell’alchimia e forse lo stesso concetto del “solve e coagula” proprio delle fasi dell’opera. Forse il Pegaso potrebbe trovar posto assai più lontano, e cioè verso il tempietto di Giulia Farnese che completa l’opera. Teniamo infatti presente che Pegaso deriva il suo nome da un termine greco che ha il senso di “sorgente” e che si diceva fosse nato alle sorgenti dell’Oceano, quando Perseo aveva ucciso la Gorgone.


In altre tradizioni si dice che fosse nato direttamente dal sangue della Gorgone e che, appena nato, si fosse slanciato verso il cielo portando a Giove il dono del “fulmine”. Il mito di Pegaso è legato anche a Bellerofonte, l’uccisore della Chimera ma anche a una leggenda meno nota. Quella che vede il cavallo impegnato a calpestare il monte Elicona che si gonfiava smisuratamente di piacere durante la contesa fra le Muse e le Pieridi.

Il Pegaso in questione appare proprio su una montagna e quindi non sarebbe male avvicinarlo a quel “ridimensionamento dell’ego” che è “conditio sine qua non” per una prosecuzione del cammino.


Tale significato s’incontrerebbe bene con quanto esposto in vicinanza di una delle più celebri statue del Bosco: quella nota come Ercole e Caco (fig.7)


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connessa allo squaternamento e al rovesciamento della prospettiva o meglio, alla “conversione” di colui che affronta il cammino che resta nudo e perde le armi.

Vicino Orsini, per bocca dell’Eroe gigantesco (forse Ercole o Orlando) dichiara in una scritta che “se Rodi fu già del suo colosso, pur di questo mio bosco anco si gloria, e per più poter fo quanto posso”. Ecco, questo fo’ quanto posso per più potere” è un’espressione assai interessante poiché rappresenta sicuramente l’impegno e sotto un certo aspetto, l’elemento sacrificale all’inizio dell’Opera ed è immediato e strategico il confronto con il colosso di Rodi (che fu appunto una delle “moli sette” cui si allude all’inizio).
Raffrontare il settenario delle meraviglie del mondo, con il settenario dei metalli e della loro influenza sugli elementi “sottili” dello psicosoma, sembra fin troppo ovvio, ed è evidente che lo squaternamento operato dal gigante, rappresenta il vero inizio dell’opera. Ma non bisogna confondere il potere cui allude Vicino Orsini al potere come prevaricazione e dominio del prossimo. Questa come tante altre frasi semplici nascondono, com’è giusto che sia, la… sapienza in fieri degli adepti.


La fig.8 mostra il cosiddetto antro delle Ninfe e delle Grazie, che appaiono vicine le une alle altre.


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Soprattutto a partire dall’accademia Ficiniana, le Grazie assunsero una funzione operativa (e non erano solo un ricordo mitologico) nel viaggio dell’anima verso la sua rigenerazione. La triade, in cui il fluire continuo dell’opera realizza l’Armonia necessaria all’adepto, rappresenta anche il perfetto equilibrio tra il prendere, il trattenere e il restituire.

Senza le Grazie nulla è possibile. Nessuna operazione umana e tantomeno sovrumana. Esse sono l’opposizione a quel Caos che sbarra qualsiasi pratica, sia in “via secca” come in “via umida”.
Vicino alle Grazie si trovano delle nicchie che dovrebbero accogliere le personificazioni dei cinque sensi, purificati, riordinati e raffinati dalle Grazie e dalla pratica dell’adepto. Tali “sensi” sono accompagnati dai versi:
“L’antro la fonte e il lieto cielo
Libero l’animo d’ogni oscuro pensiero”.


Con un evidente triplice partizione del cammino interiore, l’antro (cioè la parte interna e sommersa), la fonte (cioè il passaggio dalla dimensione ctonia alla superficie) e il cielo (cioè la dimensione spirituale) sono percorribili con l’animo libero da ogni pensiero oscuro.

Non per nulla, vicino a tale gruppo si trova l’enigmatica Venere (o ninfa) che guida un drago alato (fig.9).


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Tale Venere ha sicuramente in mano delle briglie, con le quali governa il percorso del drago. Un drago d’acqua, un drago utile dunque, che ci fa comprendere a quale tipo di operazione si alluda. Oltretutto la Venere ha numerosi “fori”, dai quali, una volta, zampillava una particolare acqua. E’ dunque contemporaneamente una fonte di vita e una guardiana di virtù. La parte inferiore del corpo è castamente coperta e l’espressione del volto è assai severa. Più marziale che venerea, dunque, da trattare con garbo, appunto con grazia e circospezione.

Subito dopo incontriamo una specie di anfiteatro. (fig.10) (forse teatro della Vita, dove autore e attore vivono la stessa esperienza, lo stesso spettacolo).


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I sette incassi che si trovano sul fondale hanno fatto pensare che potessero esservi allocati gli emblemi dei sette pianeti, sette metalli, ecc., in corso di “raffinazione”. Non è affatto detto che gli obelischi con le scritte dedicatorie, una delle quali riporta “sol per sfogare il cuore”, facessero parte della scena, ma è evidente che tale teatro sia collegato a quelle “moli sette” di cui si parla in prossimità dei due giganti.
La scoperta e il lavoro su tali metalli (che si ottengono forse attraverso il viaggio sul dorso della Tartaruga e con l’aiuto di Pegaso) comportano che la recita umana abbia compimento in un teatro nel quale le Virtù e le Grazie abbiano “preparato gli attori”: cioè gli stessi metalli. Teniamo presente che nel secolo XVI si usava spesso, sulla scorta delle musiche di corte (v. Zarlino e Vincenzo Galilei), far danzare i pianeti e interpretare le circonvoluzioni tolemaiche in chiave iniziatica e misterica.


Straordinaria è la famosa Casa Pendente, che s’incontra a breve distanza dal “teatro”, (fig.11)


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per la quale viene oggi contestato che sia nata in questo modo, cioè pendente, in virtù di una dichiarazione dello stesso Vicino che chiede aiuto a seguito di uno smottamento del terreno.
L’ipotesi, esaminando l’enorme piedistallo di roccia su cui la casa stessa si erge, è che sia stata volutamente costruita con una certa inclinazione (forse prossima a quella dell’asse terrestre) e che l’eventuale smottamento possa aver creato solo qualche problema di stabilità ma non un cambio drastico nell’inclinazione.



L’esperienza ottica e gravitazionale all’interno della casa è assai particolare per chiunque ci entri. I riferimenti consueti vengono messi in discussione dalle inclinazioni delle pareti e sembra congruo pensare che, più che come una stazione di riposo, essa equivalga a una stazione di squilibrio e riorientamento.
Nella casa è riportato il detto: “Quiescendo animus fit prudentior ergo”. Un invito alla prudenza che può derivare solo dalla calma e dalla riflessione. Attività che nella casa pendente risultano messe a dura prova.
Vale la pena soffermarsi anche sulla particolare “fontana” con un’Arpia, un’anfisbena (serpente mitologico dotato di due teste, una per ciascuna estremità) e due leoni (maschio e femmina), forse in relazione ai due mercuri e ai due zolfi (fig.12,a b.), due fasi della germinazione e della mutazione del seme sapienziale.


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Osserviamo anche che Anfisbena e Arpia riguardano rispettivamente l’Acqua (che nella prima si insinua tra le due code) e la Terra, artigliata dalla seconda e dalla sua coda serpentiforme. Ma tale Arpia ha anche ali da Pipistrello, ali notturne, occulte. L’anfisbena ricorre spesso negli stemmi gentilizi. E’ un simbolo assai arcaico che si trova, sotto forme analoghe, perfino nei graffiti preistorici. Alcuni vogliono vedere in tale mostro il principio duale, a volte mascherato sotto la forma della lussuria, a volte dell’origine stessa della manifestazione.

Tale fontana chiude l’orizzonte a una lunga teoria di pigne e ghiande che facilmente ricordano il rapporto fra il molteplice nascosto dalla pigna serrata (diremmo…ermetica) e l’Uno, realizzato dal frutto della Quercia.
Sopra tale spiazzo ce ne è un altro, coperto di vasi, che incornicia la statua del cosiddetto “Nettuno”.

Ai lati del piazzale si nasconde il “sapiente” elefante che solleva il guerriero ferito o morto, quindi comunque rinato (fig. 13) facilmente relazionabile alla filosofia o forse anche alla Sapienza Santa di memoria dantesca.


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C’è una strana sproporzione fra il guidatore dell’elefante e il guerriero ai suoi piedi. Quest’ultimo ricorda vagamente uno dei due giganti, che abbiamo trovato a inizio percorso.
Da notare che i due combattenti “titanici” cioè ancora ammalati di superbia, erano entrambi nudi e le armi erano poggiate ai piedi del primo (non visibili nella foto 7).


Il fatto che ora il guerriero sia nuovamente coperto dalla sua armatura potrebbe indicare sia un recupero della vecchia “forma” e una resurrezione “della carne” verso una nuova Sapienza (rappresentata dall’elefante stesso), come un aspetto caritatevole della sapienza stessa, che guidata oculatamente dal piccolo e “mercuriale fantino”, risolleva dalle sue ceneri l’ego del guerriero, ormai vinto e quindi non più in grado di inquinare il percorso.

L’ipotesi della “sapienza” sarebbe inoltre avallata dall’enorme “vaso” (fig. 14) che campeggia alle spalle dell’elefante stesso e che ci fa venire in mente l’apparizione graalica dei cicli arturiani.


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Ma, all’ingresso di questo piazzale che ospita una vera folla di statue (tra le quali l’inquietante e simpatico 

draghetto),




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campeggia una grande Cerere (che sembra presiedere alla nascita di un bimbo tenuto a testa in giù da due tritoni) (fig 15).

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Tale piccolo gruppo non si vede nella foto, perché è alle spalle della statua principale, ma quasi tutti concordano nell’attribuire all’immagine il compito di presiedere al rinnovamento continuo del mondo.
La donna rappresentata nel complesso statuario è bellissima, serena. E’ la vera regina del luogo. E’ tramite lei che è possibile tutto il processo descritto nel Sacro Bosco, è in lei e per lei che avvengono tutte le trasformazioni vitali. La stessa semiologia del suo nome sembra indicare la “forza che spinge”. Non per nulla (nella versione greca), essa è figlia di Crono e Rea, quindi nasce dal Tempo prima del tempo e dalla Terra “cosmica”, quella che è ancora parte dell’universo celeste, della protomanifestazione. Essa, invece, è terra generante, è la terra degli animali e degli uomini distinta da Gaia che è, appunto, terra “celeste”.



In fondo al piazzale appare, addossato a un complesso roccioso, il colossale Nettuno o sorgente delle Acque (fig. 16).


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La statua ricorda il Tevere, nelle varie raffigurazioni classiche, e tiene un delfino al disotto di una mano, mentre alla sua sinistra un grosso pesce minaccioso spalanca invano la bocca (teniamo presente che anche nel gruppo della “Tartaruga”, la balena minacciosa era pronta ad accogliere il pellegrino nelle sue fauci). Anche tale duplice valenza delle acque ricorda il tema delle tensioni e dei rischi connessi al loro uso e attraversamento improprio. Da notare che il Delfino è un animale apollineo per eccellenza (Apollo arrivò ai lidi di Crisa sotto forma di Delfino e si “installò” a Delfi); e quindi la grande fontana potrebbe anche rappresentare una felice pacificazione fra i due dei, che consentono il compimento dell’opera. Il delfino è anche simbolo di rigenerazione, di divinazione e saggezza.

Infine, tralasciando moltissime importanti statue (quali la ninfa dormiente, o Arianna, il drago alato con le falci lunari sulle ali, e la cosiddetta “Proserpina”) vorrei chiudere questa velocissima carrellata con il tempietto (fig.17)


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dedicato da Vicino alla moglie Giulia Farnese contraddistinto da un equilibrio, una ritmica, e una serie di proporzioni “auree”… da manuale. Il tempietto ha una cupola che poggia su una struttura ottagonale, secondo il principio architettonico, ampiamente riutilizzato dal ‘500 in poi, di mediare tra la forma quadrata e il cerchio attraverso l’ottagono.

La cupola è coperta di stelle, anch’esse secondo una ritmica sapiente e, ovviamente, rappresenta la volta celeste. Calvesi introduce un rapporto, tra il sogno di Polifilo e il tempio, dove il medesimo riceve il “primo bacio” da Polia.


Ma a noi interessa soprattutto l’emblematica fenice che campeggia sul soffitto del peristilio (fig 18). E’ una fenice incoronata, risorta dalle ceneri e che ha compiuto il suo volo. 


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Con tale immagine si dovrebbe chiudere il percorso nel Bosco Sacro ma in realtà dovremmo costantemente ritornare sul “mostro” che ha reso famosa Bomarzo, o la demogorgone (fig 4) o l’antro “oracolare. Sulla sua funzione o su certi magismi rischiosi praticati dai discendenti di Vicino in quel posto particolare è stato scritto molto. Ma sarebbe meglio vederlo nella sua funzione sacra e oracolare, nel suo aspetto tremendo e magnifico, e cercare di farlo parlare ancora, ammesso che ne abbia ancora voglia…