Sulle tracce di Nerone. Evidenze archeologiche sul Palatino



Museo Palatino, Ritratto dell’imperatore Nero


Il Parco archeologico del Colosseo conserva tracce ancora tangibili della visione architettonica e della politica urbanistica di Nerone. In una inedita intervista doppia, Alessandro D’Alessio e Federica Rinaldi, funzionari archeologi del PArCo, ripercorrono le fasi della costruzione della “nuova Roma” che Nerone avrebbe voluto rifondare durante il suo principato. Il percorso si snoda in sei tappe dal Palatino (Criptoportico neroniano, Domus Transitoria/‘Bagni di Livia’, cenatio rotunda), alla valle del Colosseo fino al Colle Oppio, dentro la Domus Aurea.


  1. IL CRIPTOPORTICO NERONIANO

AD’A: Quando gli imperatori trasferiscono la loro dimora sul Palatino e il Palatino diventa esso stesso il Palatium, spazi e ambienti riccamente decorati vengono tra loro collegati da corridoi e passaggi, spesso ipogei. Tra questi è ancora percorribile il lungo Criptoportico comunemente attribuito proprio a Nerone. Ma è corretta questa attribuzione cronologica?

FR: In realtà no. Il criptoportico, infatti, faceva già parte del complesso palaziale della Domus Tiberiana, il primo dei palazzi imperiali concepito in maniera organica e monumentale e ubicato nella porzione nord-occidentale del colle Palatino. Se non già Tiberio e Caligola, Claudio e specialmente Nerone trasformarono infatti i diversi nuclei delle domus tardo-repubblicane e primo-imperiali qui esistenti in un palazzo architettonicamente unitario, inglobando all’interno i diversi settori. Il Criptoportico era quindi un passaggio sotterraneo, illuminato da finestre a bocca di lupo, che collegava questi diversi settori dal clivo Palatino alle Case di Livia e di Augusto: Nerone non fece altro che ampliarlo (è stata calcolata una lunghezza di ben 130 m!) e decorarlo con pavimenti a mosaico bianco e nero e meravigliosi stucchi. Una parte di questi stucchi, con cassettoni, elementi vegetali ed eroti, non appena riapriremo al pubblico, sarà musealizzato all’interno del Museo Palatino e potrà tornare così ad essere ammirato da tutti.

Criptoportico, videomapping

 Il cd. Criptoportico neroniano (Archivio Parco archeologico del Colosseo)


2. I CD. BAGNI DI LIVIA

FR: Ad ogni modo però l’intervento sul Criptoportico non fu certo l’unica attività di Nerone sul Palatino!. Le fonti dicono che, prima di costruire la Domus Aurea, abbia realizzato una dimora che dal Palatino si estendeva fino all’Esquilino e che l’abbia chiamata “transitoria”. Poi però nel ‘700 tutta la zona venne identificata con i cd. Bagni di Livia, anche se, in questo caso, non si tratta né di “bagni” né tantomeno appartenenti alla moglie di Augusto …

AD’A: Si è così. Svetonio (Nerone, 31, 1) afferma proprio che l’imperatore «in nessun’altra cosa fu altrettanto dannoso quanto nel costruire: fece una casa che andava dal Palatino fino all’Esquilino, che chiamò in un primo tempo ‘transitoria’ e, dopo che fu distrutta da un incendio [evidentemente quello del 64 d.C.] e ricostruita, ‘aurea’». Si tratta dunque della prima reggia edificata da Nerone tra Palatino ed Esquilino, ma della quale ben poco conosciamo, a parte le strutture sottostanti la coenatio Iovis della successiva domus Flavia: in realtà un monumentale ninfeo e tricilinio semi-ipogeo che fu riportato alla luce nel 1721 e identificato erroneamente con bagni per l’originaria presenza degli zampilli d’acqua posti alla base del ninfeo, interpretati allora come bidet e attribuititi altrettanto erroneamente a Livia in base al rinvenimento di una fistula (conduttura) in piombo con il nome Augustus e la figura di un’aquila.


Ricostruzione della sala colonnata della Domus Transitoria, la prima reggia di Nerone sul Palatino (Katatexilux)

3. L’AULA PORTICATA E I PAVIMENTI MARMOREI SOTTO LA CASINA FARNESE

AD’A: Nerone tra l’altro è passato alla storia per la sperimentazione nelle pavimentazioni di marmo, uniche nei disegni ma anche nella scelta dei colori, che oggi etichettiamo proprio con il nome di “quadricromia neroniana”. Oltre ai pavimenti della Domus Transitoria, già ad un altissimo livello di innovazione, “al di sotto” della Casina Farnese è conservato un esemplare che può essere proprio considerato un “tipico” esempio di pavimentazione in marmo dell’epoca di Nerone. Ma quindi ci troviamo già in presenza della Domus Aurea, quella stessa che visiteremo poi sul colle Oppio?

L’opus sectile a motivi complessi sotto la Casina Farnese (Archivio Parco archeologico del Colosseo)

FR: Il pavimento cui ti riferisci in origine decorava un’aula porticata di notevoli dimensioni. I preziosi marmi e l’impianto architettonico dell’ambiente, che studi recenti hanno cercato di ricollocare nel sistema palaziale del Palatino, si posizionano tra la fontana ovale pertinente il grande triclinio del palazzo di Domiziano – da cui sono peraltro tagliati -, e gli spazi della Domus Transitoria che hai appena descritto: l’attribuzione ad età neroniana – e ormai con giudizio unanime di tutti – alla fase della Domus Aurea, successiva all’incendio del 64 d.C., fa di questo pavimento in opus sectile l’esemplare più complesso e nello stesso tempo il più perfetto della tipologia restituitoci dall’antichità romana. Si riconosce all’interno di un modulo quadrato-reticolare un disegno con motivi geometrici ed elementi vegetali, resi con quattro specie marmoree, il porfido rosso egiziano, il porfido verde greco, il giallo antico e il pavonazzetto: grazie anche al restauro realizzato più di un secolo fa da Giacomo Boni, è ancora percepibile la disinvoltura nell’uso dei disegni curvilinei dei motivi delineati con tagli accuratissimi ed accostamenti millimetrici.

Particolare dell’opus sectile sotto la Casina Farnese


4. LA CENATIO ROTUNDA

FR: Continuando a parlare di Nerone, sono ancora le fonti a dirci che l’imperatore aveva un’idea piuttosto megalomane dell’urbanistica e dell’architettura tanto da aver voluto inserire nella sua visione di “palazzo” ispirato ai modelli orientali la realizzazione di una sala da pranzo rotonda e rotante. Leggenda o realtà?

AD’A: Dunque, fermo restando il richiamo ai complessi palaziali dei sovrani ellenistici (di Alessandria d’Egitto in primis), ma anche alle ville marittime della costa campana, è ancora Svetonio a riferire della presenza, all’interno della Domus Aurea, di cenationes (sale da pranzo) dotate di «soffitti coperti da lastre di avorio, mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e profumi», e più in particolare di una, la cenatio rotunda appunto, «che perpetuamente di giorno e di notte veniva girata secondo il movimento del mondo [alias cosmo]». A lungo identificata con la sala Ottagona del padiglione di Colle Oppio, essa è stata più di recente riconosciuta in un’alta e possente struttura in opera laterizia scoperta dagli archeologici dell’École Française de Rome presso il margine settentrionale dell’area di Vigna Barberini sul Palatino. Questa struttura, davvero impressionante, è costituita da un cilindro contenente una scala a chiocciola, collegato a un cerchio più grande ed esterno tramite serie di archi disposti su più ordini (8 per ciascuno), a sua volta circondato da un terzo cerchio ancora più ampio. Il rinvenimento, inoltre, dei resti di un probabile meccanismo idraulico, ha fatto ipotizzare agli scopritori che sia appunto questa la ‘sala rotante’ descritta da Svetonio, ma dove a muoversi sarebbe stata non la volta, bensì un pavimento in legno. Una sorta di Fungo dell’EUR insomma! Personalmente ritengo tuttavia improbabile questa identificazione della costruzione di Vigna Barberini, per la quale si possono avanzare anche altre e forse più plausibili interpretazioni. Al momento dove si trovasse la celebre cenatio resta dunque ancora ignoto.

Vigna Barberini, la Cenatio rotunda (Archivio Parco archeologico del Colosseo)

5. LO STAGNUM NERONIS E IL COLOSSO

AD’A: Come sai, dalle propaggini settentrionali di Vigna Barberini, e precisamente da questo punto si percepisce una vista impareggiabile sulla Valle del Colosseo: ma se da questa cartolina cancellassimo l’Anfiteatro troveremo al suo posto il Colosso e lo stagnum Neronis. Cosa si può dire riguardo alle loro funzioni e significati nell’ambito dell’organizzazione della Domus Aurea? e perché i Flavi eliminarono il lago per sostituirlo proprio con un anfiteatro, il Colosseo appunto?

La Piazza del Colosseo, un tempo occupata dallo stagnum Neronis e dal Colosso (Foto Simona Murrone)

Moneta di Gordiano III con l’Anfiteatro Flavio e il Colosso

FR: Questi due elementi si inseriscono nella ricerca di Nerone di emulare i modelli dei palazzi dei sovrani ellenistici: due passi per la divinizzazione del sovrano in vita e per la creazione di un microcosmo che doveva travalicare i confini del Palatino, facendo di Roma la sua casa. Al centro lo stagno, il lago artificiale su cui Nerone progetta di far convergere i padiglioni del “palazzo”, fulcro della nuova Roma di cui doveva essere ripensato tutto l’impianto urbanistico e architettonico. Ma questo modello di potere centrato su un solo uomo viene stravolto, di lì a pochissimo, dalla morte dello stesso Nerone e dall’avvento al potere della nuova dinastia dei Flavi: ciò che era di uno solo, viene restituito a tutti. Il Palazzo si ritira di nuovo sul Palatino; al posto dello stagno viene costruito, a beneficio di tutta la città e poi di tutto l’impero, il più grande luogo per spettacoli che Roma avesse mai avuto: l’Anfiteatro Flavio.

6. LA DOMUS AUREA

FR: Ma non corriamo troppo veloci. E tornando a Nerone, volendo concludere la nostra passeggiata dal Palatino al colle Oppio, non possiamo non ricordare la celebre frase pronunciata dall’Imperatore all’indomani del completamento del cantiere della Domus Aurea, “finalmente comincio ad abitare in un casa degna di un uomo”! Volendo dare un po’ di numeri, di quanti metri quadrati stiamo parlando? E di quanti padiglioni sparsi tra i colli di Roma?

La Domus Aurea e lo stagnum Neronis (Katatexilux)

AD’A: E’ la domanda giusta per ribadire quanto hai appena detto: quanto compiuto da Nerone con l’edificazione della Domus Aurea costituisce di fatto, dopo quello di Caligola, il primo e unico tentativo, da parte di un sovrano romano, di travalicare i limiti del Palatino per portare la residenza imperiale e le sue architetture al di fuori di esso, dilagando in tutta l’area centrale della città e dando forma e consistenza a un microcosmo urbano pervasivo e inedito, pretesa Neropolis che fa sì che Roma domus fiet. Qualche numero allora: la Domus si estendeva complessivamente su una superficie di circa 80 ettari, non del tutto edificata ovviamente, ma che inglobava per intero il Palatino e la Velia, il Celio, la valle del (successivo) Colosseo e il Colle Oppio. Proprio qui sono i maggiori e più spettacolari resti della reggia neroniana, il gigantesco padiglione estivo che tutti oggi identifichiamo con la Domus Aurea. Sepolto dalle gallerie di sostruzione delle Terme di Traiano, esso si sviluppa su una superficie di circa 16.000 m2 (più o meno 3 campi di calcio) e comprende oltre 150 sale alte più di 10 metri e ancora diffusamente rivestite da meravigliosi affreschi in c.d. tardo III e IV Stile pompeiano, per un totale della decorazione pittorica e in stucco pari a circa 30.000 m2. Per dare un’idea generale dell’impatto della Domus Aurea nello scenario urbano di Roma, si immagini di trasferire idealmente Villa Adriana al centro della città!

L’Archeologia di Giacomo Boni. Una grande mostra “diffusa” tra il Foro Romano e il Palatino.

 
Pallone frenato davanti alla Basilica di Massenzio

Articolo di Nica FIORI, pubblicato il 19 dicembre 2021

Nel Parco Archeologico del Colosseo già da qualche giorno un pallone aerostatico posizionato davanti alla Basilica di Massenzio vuole ricordare il grande archeologo Giacomo Boni (1859-1925), veneziano di nascita e romano d’adozione, protagonista della mostra “Giacomo Boni. L’alba della modernità” (fino al 30 aprile 2022).

La mostra, a cura di Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Andrea Paribeni con Patrizia Fortini, Alessio De Cristofaro Anna De Santis, racconta attraverso quattro sezioni il suo operato tra tradizione e innovazione e ricostruisce il contesto storico in cui operò.

Boni è noto soprattutto per le sue straordinarie scoperte archeologiche a Roma, dove non ancora trentenne si trasferì per entrare nei quadri del Ministero della Pubblica Istruzione e dove nel 1898 gli fu affidata dal ministro Guido Baccelli la direzione degli scavi nel Foro Romano. In precedenza era stato ispettore per i monumenti (in particolare per l’Italia meridionale) per conto del Ministero, e ancora prima, a Venezia, assistente disegnatore nel cantiere di Palazzo Ducale. Si era formato come autodidatta nei cantieri edili e poi come architetto presso l’Accademia di Belle Arti della sua città, dove rientrò solo brevemente in seguito al crollo del campanile di San Marco nel 1902.

Fu a Roma che, per quanto neofita dell’archeologia, mise in pratica metodi innovativi di scavo (basandosi sulle prime esperienze stratigrafiche maturate nel nord Italia), di restauro, di documentazione e di valorizzazione delle scoperte che hanno ridisegnato l’aspetto del Foro Romano prima e in seguito del Palatino. Il tutto condividendo con il grande pubblico il valore di quei risultati sulla stampa, ricorrendo a un linguaggio semplice e alla fotografia, compresa quella aerea ottenuta grazie alle sue ascensioni in mongolfiera.

La sua immersione nel mondo che stava riportando alla luce deve essere stata molto coinvolgente, a giudicare da queste sue parole:

Vivendo nel Foro, sentii nascere in me l’intimità colle pietre che a prima vista paiono mute e indifferenti”.

Proprio partendo da quelle pietre, “cataste di marmi come reliquie marine dopo la risacca”, e procedendo negli scavi, riuscì a riportare alla luce il Tempio di Vesta, la Fonte di Giuturna, la chiesa medievale di Santa Maria Antiqua, come pure il sepolcreto arcaico lungo la via Sacra, il Lacus Curtius e il sito detto Lapis niger (pietra nera), attribuito alla saga di Romolo, che egli trovò dopo un sogno rivelatore, suscitando qualche perplessità tra gli accademici, che non lo amavano, tanto che Boni scrisse:

Per giungere alla ‘Tomba di Romolo’ parmi di aver navigato cinque mesi in alto mare, senz’altra bussola che quella della fede. (…) Qualificavano la mia fede come un’allucinazione, mi dileggiavano come il medium archeologico del Foro romano, hanno tentato di farmi allontanare dai monumenti, che amo più di me stesso”.

Per il Palatino, la cui direzione venne accorpata a quella del Foro nel 1907, si ricordano le sue nuove acquisizioni sulla Casa dei Grifi, già individuata in precedenti scavi settecenteschi, il ritrovamento di una cisterna a tholos, in cui credette di riconoscere il Mundus, centro augurale dell’Urbe, e soprattutto i suoi studi sulla flora del colle, interesse che lo accompagnò tutta la vita e di cui resta traccia nell’ordinamento del giardino degli Horti Farnesiani, e in quel roseto dove è sepolto.

Giacomo Boni nel suo studio presso le Uccelliere Farnesiane @Archivio storico fotografico PArCo
Giacomo Boni, laurea conferita a Oxford @Archivio storico fotografico PArCo

Nonostante le importanti acquisizioni scientifiche del suo operato, la fortuna critica di Boni ha avuto alterne vicende e solo dagli anni Settanta del Novecento la sua figura è stata riscoperta e liberata da alcuni stereotipi: pensiamo in particolare al rapporto con Mussolini, per il quale aveva disegnato i fasci e al quale aveva offerto una ritualità che si ricollegava alla sacralità della fondazione di Roma. A poco meno di 100 anni dalla sua morte questa mostra gli rende omaggio collocandolo nello spaccato culturale e politico più ampio dell’Italia unita, dove si discuteva con vis polemica sulle caratteristiche e sulle modalità della conservazione di antichità e monumenti, che oggi chiamiamo “beni culturali”.

Sulle orme del suo mentore John Ruskin, è stato il primo archeologo in Italia a proporre non solo un programma di attività di ricerca e tutela del patrimonio storico-culturale, ma anche una vera e propria “religione dell’antico”, nella quale il passato, depositario di una sapienza eterna e incorrotta, tornava a ricongiungersi idealmente al presente.

Come dichiara la Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo Alfonsina Russo nella presentazione della mostra (catalogo Electa):

L’idea è stata quella di utilizzare l’intera area del Foro Romano e del Palatino come una sorta di palcoscenico integrato, in cui i contesti monumentali costituiscono una specie di teatro interattivo in cui il visitatore può sentirsi protagonista. La personalità di Boni si manifesta pertanto in questa mostra in tutta la sua straordinaria complessità: una personalità eclettica, contraddittoria, visionaria, profondamente spirituale, che della scienza archeologica seppe fare una missione di vita e un viatico, ma anche una bussola, per la comprensione del mondo contemporaneo”.
Panorama dalla Terrazza delle Uccelliere Farnesiane

La prima sezione espositiva, ospitata nel Tempio di Romoloripercorre la vita di Giacomo Boni, dagli anni della formazione a Venezia (1879–1888) dove inizia a rapportarsi con la cultura anglosassone, al periodo fortunato degli scavi, alla sua vita da “eremita del Palatino”, alla nomina a senatore nel 1923 fino alla sua morte nel 1925.

Tempio di Romolo, al centro la cesta del pallone frenato di Boni

Oltre ad alcune fotografie (tra cui quella che lo ritrae nell’assegnazione della laurea ad honorem a Oxford) e ad opere novecentesche di Giovanni Prini, Duilio Cambellotti Adolfo De Carolis (con il quale aveva collaborato a Villa Blanc, la bellissima villa liberty progettata da Boni sulla via Nomentana), è esposto il pallone frenato utilizzato con straordinaria intuizione da Boni per effettuare le vedute fotografiche degli scavi dall’alto.

Nel Complesso di Santa Maria Nova, dove ha sede il museo forense (o Antiquarium), che riapre al pubblico dopo più di dieci anni, si sviluppa la seconda sezione della mostra, dedicata all’attività archeologica di Boni al Foro Romano.

Museo forense, plastico del sepolcreto arcaico

Ricordiamo che lo stesso museo fu da lui voluto e inaugurato nel 1908 all’interno del chiostro quattrocentesco del complesso monastico. I restauri di allora, avviati proprio per consentire l’esposizione dei reperti ritrovati negli scavi, portarono alla luce non solo le trasformazioni dal Trecento al Settecento del chiostro stesso, ma anche parte della pavimentazione del pronao della cella dedicata alla dea Roma nel Tempio di Venere e Roma.

Tutti elementi che il percorso di mostra oggi ripropone, grazie anche a un recente intervento di manutenzione del complesso e di ristrutturazione delle sale espositive, dove vengono messi in luce i suoi criteri espositivi e riproposti i contesti di scavo.

Museo forense, Statue dei Dioscuri
Museo forense, statua di Ercole, Ii secolo d.C

Ammiriamo in particolare l’insieme delle sculture che decoravano la Fonte di Giuturna, tra cui i Dioscuri affiancati dai loro cavalli, Apollo, Ercole ed Esculapio, il fregio della Basilica Emilia con scene relative alle origini di Roma, i materiali del Lapis niger e della Regia, il sepolcreto arcaico (rinvenuto nei pressi del Tempio di Antonino e Faustina), del quale aveva fatto realizzare un plastico ed esposto ogni singola tomba.

È evidente il principio fondamentale di rispettare l’integrità di ciò che veniva riportato alla luce, come risulta da questa sua frase:

 

Il tutto organico, che ha nome sepolcro, comprende la struttura dello scheletro, il suo collocamento, i residui del pasto funebre, dei parentalia e d’altri riti…”.

L’itinerario espositivo prosegue nella chiesa di Santa Maria Antiqua, alle pendici del Palatino, e nell’attigua Rampa Imperiale di età domizianea.

Rampa Imperiale

La chiesa venne scoperta da Boni nel 1900 dopo che il terremoto dell’847 ne aveva cancellato per più di 1000 anni le tracce, ma non la memoria. Egli, convinto di trovare qualcosa d’importante, decise di demolire la chiesa secentesca di Santa Maria Liberatrice, che sorgeva lì, per mettere in luce le strutture sottostanti, non senza le polemiche che accompagnarono questa decisione.

Santa Maria Antiqua, con riproduzione dell’antica icona

L’esito degli scavi superò in realtà tutte le aspettative. Sotto la chiesa demolita venne alla luce l’Oratorio dei Quaranta Martiri di Sebaste, che anticamente costituiva l’Aula di accesso dal Foro alla Rampa Imperiale e, proseguendo con gli scavi, furono scoperte le pareti affrescate della chiesa che nella cosiddetta Cappella di Teodato conservava l’iscrizione “Sanctae Dei Genitricis senperque Birgo Maria qui appellatur Antiqua”.

Santa Maria Antiqua, affreschi della navata sinistra

La chiesa aveva dunque un nome, quello della Vergine Maria che è detta Antica. La riproduzione dell’icona della Vergine (ora nella sacrestia della basilica di Santa Francesca Romana (già Santa Maria Nova) ricorda l’immagine del VI secolo che era ritenuta miracolosa e che era qui venerata.

Santa Maria Antiqua, Sarcofago con Storie di Giona

Alcuni sarcofagi rinvenuti sotto il pavimento della chiesa raffigurano scene cristiane, come per esempio quello con le storie di Giona, ma la cosa più spettacolare è la decorazione ad affresco delle pareti: un palinsesto che va dal VI all’VIII secolo. È evidente il legame con Bisanzio, dovuto soprattutto a Giovanni VII (705-707), un papa greco, che spostò la sede dell’Episcopio dal Laterano al Palatino (collegato a S. Maria Antiqua dalla Rampa Imperiale) e morì in questa sede. Una scoperta questa da cui prende avvio un filone neo-bizantino che investe le arti e l’architettura dell’epoca di Boni.

Museo forense, fregio della Basilica Emilia, Punizione di Tarpea

L’ultima sezione è collocata sul Palatino, nelle Uccelliere Farnesiane, dove Giacomo Boni si ritirò a vivere dal 1910: in una di esse è stato ricostruito il suo studio con un allestimento che ripropone gli arredi originali.

Ricostruzione dello studio di Boni in una delle Uccelliere Farnesiane

È in questa sezione che emerge il ruolo avuto negli ambienti culturali italiani e cosmopoliti degli inizi del Novecento.

Tempio di Venere e Roma, interno

Ben introdotto nei circoli mondani e culturali della capitale – si ricordano i rapporti con il socialismo umanitario romano, costanti dopo il primo incontro nella redazione della “Nuova Antologia” con Giovanni Cena, Sibilla Aleramo, Duilio Cambellotti – e con Eleonora Duse, Ugo Ojetti Benedetto Croce che lo definirono poeta, e profeta, per la capacità di ricostruire il mito delle origini dell’antica Roma, egli aveva trasformato il suo studio in una sorta di accademia-salotto, dove era circondato da carte, libri, piante, strumenti tecnici di restauro, copie in gesso di sculture antiche.

L’approccio al mondo classico fatto di simboli, rievocazioni, allusioni ai miti è evidente nelle creazioni di alcuni artisti dell’epoca, tra cui Umberto Bottazzi, Cambellotti, De Carolis, Edoardo Dalbono, Antonio Discovolo, Federico Maldarelli, Francesco Netti, Giulio Aristide Sartorio. Spicca in particolare tra le opere esposte la tela di Giorgio de Chirico “Gli archeologi” (1927, Museo Carlo Bilotti), raffigurante manichini senza tempo che riportano alla luce i sogni di de Chirico e i ricordi della sua gioventù in Grecia, mitizzata come un’età dell’oro.

A completamento della mostra, sono posizionati nel parco archeologico dei totem nei luoghi di maggior intervento da parte di Boni, che hanno consentito una nuova lettura dell’area e della storia dell’antica Roma.

Museo forense, materiale di una tomba del sepolcreto

L’impressione è che la sua lezione a tutto campo resta oggi più che mai valida, essendosi affermata l’importanza di un approccio multidisciplinare ai contesti storico-archeologici, che Boni, nella sua dimensione di “architetto prestato all’archeologia, lettore dei testi classici aperto alle scienze naturali, tecnico d’avanguardia attratto dal fascino della valorizzazione dei ruderi”, come lo ha definito Daniele Manacorda, coltivò con risultati che indubbiamente invitano alla riflessione e all’ammirazione.


Santa Maria Antiqua - articolo con foto




Riapre Santa Maria Antiqua
Chiusa dal 1980, è il monumento cristiano più antico e importante del Foro Romano

​Articolo di Federico Castelli Gattinara​ - 17 marzo 2016​ pubblicato su IL GIORNALE DELL'ARTE
Foto di​ Gaetano Alfano / SS-Col / Electa
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Foto tratte da Bisanzio del 29/4/2012



Riapre il 17 marzo del 2016, dopo 36 anni, uno dei monumenti più importanti al mondo per la storia dell’arte altomedievale e bizantina, Santa Maria Antiqua al Foro Romano, chiusa al pubblico nel 1980 (a parte qualche sporadica visita straordinaria).

La chiesa ha una vicenda complessa e particolarissima: costruita alla metà del VI secolo venne abbandonata tre secoli dopo a causa del terremoto dell’847, quindi dimenticata, sepolta e riscoperta circa mille anni dopo da Giacomo Boni tra il 1899 e il 1900, a parte l’accidentale ritrovamento dell’abside documentato da un famoso acquarello di Francesco Valesio del 1702.

Boni demolì la soprastante chiesa barocca di Santa Maria Liberatrice, tirò fuori l’antica chiesa, la protesse con un tetto a capriate e restaurò gli affreschi, una raccolta di 250 mq di affreschi decorati sovrapposti, relativi principalmente ai papi Martino I, Giovanni VII, Zaccaria e Paolo I, con tracce di pitture romane, impiantandosi la chiesa nella zona della Rampa Imperiale, costruita da Domiziano, per collegare il foro al colle del Palatino e al palazzo Imperiale. 

I restauri recenti partono nel 1984 (fino al 1989) durante la Soprintendenza di Adriano La Regina e a occuparsene sono gli architetti Giuseppe Morganti, grazie al quale oggi si riapre, insieme a Francesco Scoppola, attualmente a capo della direzione generale Belle arti e Paesaggio. Allora si rivedono le coperture per eliminare le tante infiltrazioni, si rinforza e impermeabilizza il tetto degli anni Dieci, la terrazza intorno, gran parte degli infissi, le gronde, le tettoie per proteggere gli affreschi restaurati dall’Iccrom ma rimasti all’aperto nell’atrio antistante alla chiesa.

Il discorso si riapre nel 2001, con finanziamenti statali e del World Monuments Fund. Da allora e fino al 2013 si risanano tutti gli affreschi. Dai brani staccati e restaurati da Boni vengono rimosse le stuccature in cemento e rifatti i supporti in fibra di carbonio, quindi rimontati in situ in maniera del tutto mimetica.

Nella cappella a sinistra del presbiterio, dedicata a Teodoto, tutta la parte bassa della parete meridionale staccata nel 1947 e nel 1954 per via dell’umidità e conservata nell’Antiquarium forense di Santa Maria Nova (Santa Francesca Romana) è ritornata al suo posto.

A livello strutturale, si è affrontato il problema dell’umidità di risalita, specie nella zona presbiteriale che sorge a ridosso degli Horrea Agrippiana (i magazzini di Agrippa), risolto definitivamente solo di recente con l’aiuto di Ippolito Massari, grande esperto del campo: vexata quaestio (il colle è composto da uno strato di argilla sormontato dal tufo), come dimostra il «taglio» alla base delle murature domizianee coperte da lastre di travertino, ben visibile nell’atrio. 

Rifatti anche infissi e coperture della zona di fondo (l’abside e le cappelle), sistemata la grande aula occidentale tradizionalmente identificata come il templum Divi Augusti, su cui però ci si potrà solo affacciare, riaperto il collegamento tra la chiesa, che Giovanni VII probabilmente usò come cappella palatina, e la rampa di Domiziano, che ospiterà dei reperti.

Sì, perché l’apertura sarà affiancata da una mostra («Santa Maria Antiqua tra Roma e Bisanzio», fino all’11 settembre 2016, catalogo Electa) ideata da Maria Andaloro e curata da lei insieme a Giulia Bordi e Giuseppe Morganti. Per la prima volta torneranno l’icona della chiesa oggi a Santa Maria Nova (per tre mesi) e il frammento d’intonaco con sant’Agata attualmente in collezione privata, pubblicato da Toesca e vicino alle pitture dell’attiguo Oratorio dei Quaranta Martiri. 

E ancora busti dei personaggi dell’epoca, quattro dei dieci mosaici dell’ex oratorio di Giovanni VII di San Pietro ora divisi tra Vaticano e Santa Maria in Cosmedin, video ricostruttivi delle decorazioni parietali e altro.

Alla collaborazione con l’Università della Tuscia di Viterbo si deve il restauro recentissimo dei cinque sarcofagi romani interni alla chiesa, di riutilizzo medievale. Nel corso degli interventi dal 2001 a oggi non ci sono state novità eclatanti, ma importanti acquisizioni sia sulla successione delle fasi e l’attribuzione ai vari pontefici dei singoli strati, sia sul piano delle tecniche esecutive, come nel caso delle tracce d’oro zecchino sulle figure della celebre parete palinsesto.

Conclusa la chiesa, i lavori futuri riguarderanno l’atrio, di cui a oggi sono stati revisionati gli affreschi e verificate le murature. Prossimi passi, le pitture mai restaurate di quando l’aula fu convertita in oratorio dedicato a sant’Antonio (XI secolo), la mostra dei frammenti architettonici di Santa Maria Antiqua ancora nei magazzini, una copertura leggera per eliminare le tettoie, forse un velario come nel cortile di Palazzo Altemps.



(I) Quadriportico esterno, ex cappella di S Antonio.

(​M) Vestibolo - Negli edifici pubblici o privati, ambiente di ingresso, intermediario fra l'esterno e l'interno, di varia forma e imponenza secondo le funzioni di disimpegno​.

(L)​ Rampa che sale al Palatino

(A)​ Atrio

​Segue il ​N​ARTECE, 

​(G-F-H) quindi l'aula a tre navate, divise da due eleganti colonne di granito bigio per parte​.

(B) Presbiterio

(D) Cappella di Teodoto

(E) Cappella dei Santi Medici Cosma e Damiano

(B) Il bema ha il pavimento in opus alexandrinum, a rosoni e disegni geometrici che posa su un pavimento più antico in opus spicatum di età imperiale.


la chiesa è preceduta da un quadriportico in cui si osservano degli affreschi appartenuti alla cappella di Sant’Antonio, costruita tra il X e l’ XI secolo (era più alta rispetto al piano del calpestio della chiesa, perché costruita dopo il terremoto sulle rovine della chiesa stessa.

Distrutta o piuttosto salvata dal terremoto? 

sigillata sotto le macerie per più di 1000 anni,

Inoltre, gli strati del crollo, hanno protetto le pitture dall’esposizione a sole pioggia e vento.


Attraverso il breve nartece, si passa nell'aula a 3 navate, ricavate da un quadriportico che cingeva un cortile, nel pavimento si vede dove era la vasca dell'impluvium. Una curiosità: superato l’impluvium, sulla destra, in prossimità del presbiterio, ci sono due impronte di piedi, su una mattonella pavimentale, con alcune lettere incise accanto.

Attraverso il breve nartece, si passa nell'aula a 3 navate, ricavate da un quadriportico che cingeva un cortile.


Recinto della Schola Cantorum, con balaustra affrescata nel VII sec.

La pavimentazione è anch’essa a strati; ci fu probabilmente la sopraelevazione del presbiterio e il pavimento attuale dovrebbe risalire al VI o VII sec.


Navata sinistra

Navata sinistra, sarcofagi e pitture del VII sec. Alcuni sarcofagi sono stati scolpiti ex novo con tematiche cristologiche, altri presentano tematiche classiche.

Tra quelli a tema cristiano si riconosce uno del III sec dC con i fianchi arrotondati con la figura di Un buon pastore, donna orante, il battesimo del Cristo e con storie di Giona.

Cristo tra i santi e i padri della Chiesa occidentale e orientale.

Nella fascia superiore vi sono dei riquadri con scene dell'Antico Testamento: 

Giuseppe estratto dalla cisterna e venduto dai fratelli a un mercante amalecita; Giuseppe e la moglie di Putifarre; Giuseppe condotto in prigione.

Il sogno di Giacobbe; la lotta di Giacobbe con l'angelo.

Il ciclo pittorico è riferibile a papa Paolo I (757-767)


Annunciazione (epoca di Giovanni VII - 705-707) sul pilastro a sinistra del presbiterio

Navata destra

Le Tre Madri - Metà VIII secolo
La rara iconografia raffigura le "tre madri": Anna, con la piccola Maria genitrice di Dio; Maria con il piccolo Gesù; Sant'Elisabetta con Giovanni battista bambino.
Le tre donne e i bambini rappresentano il Verbo fatto carne.

Déesis: Cristo benedicente tra la Madonna e san Giovanni Battista

Sul pilastro di destra del presbiterio si vede la scena con la madre dei Maccabei

Salomone ed Eleazaro attorniati dai fratelli Maccabei e la loro madre, pilastro sud-ovest, fronte settentrionale, registro inferiore.
(papa Martino I, 649-653)

la madre dei fratelli Maccabei (particlare)
(papa Martino I, 649-653)

zona presbiteriale, preceduta da muretto divisorio e transenne tra presbiterio e schoola cantorum.

Rimangono in parte due scene bibliche dipinte: il re Ezechia disteso sul letto di morte , il profeta, Isaia in atto di annunziare; David e Golia già caduto. 



pavimento e ricostruzione di un affresco parietale andato perduto.

Abside, sulla destra parete Palinsesto. 

MURI DEL PRESBITERIO A DESTRA E SINISTRA DEL CATINO ABSIDALE

-quattro papi:  a sinistra Giovanni VII e Leone I,  a destra Martino I e un papa del quale non si conosce il nome (Agatone?).

 –quattro Padri della Chiesa - a sinistra Sant’ Agostino e una figura distrutta, a destra San Gregorio Nazianzeno e San Basilio - che tengono un rotolo contenente una parte delle loro opere citata negli atti del concilio del Laterano (649) nel quale si condannò il monotelismo.

-Dedica in greco a papà Giovanni VII con nimbo quadrato. 

-A destra busti di santi entro clipei.

 disegno che ricostruisce affreschi absidali, di W. De Gruneisen​ 1904

ricostruzione moderna degli affreschi dell'abside, basati sul disegno 
di W. De Gruneisen​ 1904

lacerti dell'affresco absidale
Esaltazione della croce (Giovanni VII)
Nell'abside, si riconosce Cristo in croce, col nimbo crucigero; ai lati,  le teste alate dei quattro simboli degli Evangelisti, al disotto, in lettere bianche su fondo rosso, passi biblici relativi alla Passione. Ancora più sotto, gruppi di uomini e di donne adorano la croce.

lacerti dell'affresco absidale
Angeli curvi ad adorare Gesù
Iscrizioni scritte in Latino e in Greco.

Parete Palinsesto

Il palinsesto era infatti il nome dato agli antichi codici di pergamena che venivano continuamente cancellati e riscritti dai frati amanuensi.

Dall’osservazione ravvicinata di questa parete, è stato possibile distinguere quattro fasi decorative.


Madonna Regina con il bambino e un angelo: 
1° STRATO prima metà del VI sec d.C
(Belisario /Giustiniano), fra il 530 e il 540 d.C.

Madonna Regina con il bambino e un angelo: 
1° STRATO prima metà del VI sec d.C
(Belisario /Giustiniano), fra il 530 e il 540 d.C.

l'angelo bello

2° STRATO

30 anni più tardi, fra il 570 e il 580 d.C.

In contrasto con pittura ieratica precedente, probabilmente dipinto durante la breve rinascita dell'arte classica.

alle spalle della Madonna regina s'intravedono dei santi orientali

3° STRATO

 Papa Martino I (649-655), 

 due Santi identificati come Basilio e Giovanni Crisostomo.

Fanno parte di un ciclo di santi orientali che
reggono in mano dei cartigli con testi tratti dal Concilio Lateranense del 649, e che prosegue sul lato opposto dell’arco.
Dal punto di vista pittorico, notiamo un ritorno di rigidezza e astrattismo.

Cappella SS Medici Cosma e Damiano

Cappella di Teodato (741-782 d.C ) 

dedicata al martirio di S.Giulitta e di S.Quirico 

nota con il nome del suo committente Teodoto alto dignitario di papa Zacaria (741-782 d.C ).



A sinistra papa Zaccaria, ancora vivente, come dimostra il nimbo quadrato,
A destra Teodato con il nimbo quadrato offre la chiesa ai 2 santi martiri, posti a sinistra e destra del trono di Gesù al centro.

-Quirico fu ucciso a soli 3 anni, perchè piangeva durante il martirio di sua madre.

-Fustigato da un carnefice

-Gli tagliano la lingua “MOZZATA” per impedirgli di piangere e frignare.

-ma il bambino rifiuta di sottostare ai romani e parla con la lingua mozzata.

-viene poi disteso su di un braciere “SARTAGINE” 

-viene trafitto da chiodi come Gesù

-viene scaraventato su una pietra


Cristo con i piedi non sovrapposti, veste il colobium, la tunica smanicata usata dai primi monaci. La crocefissione con Maria ​e S Giovanni Evangelista, si afferma con il Concilio Quinisesto, tenutosi a Costantinopoli nel 692.


quattro dei dieci mosaici dell’ex oratorio di Giovanni VII in San Pietro ora divisi tra Vaticano e Santa Maria in Cosmedin, esposti in mostra nel 2016

mosaico dell’ex oratorio di Giovanni VII in San Pietro ora divisi tra Vaticano e Santa Maria in Cosmedin

il martirio dei Quaranta Martiri di Sebaste, abside dell’Oratorio dei XL Martiri nel Foro romano.