Articolo curato da Valeria Scuderi
dell'associazione Rome4u § Roma e Lazio x te, che cura la visita guidata:
Rione Borgo: la Città Leonina e il fantasma di Mastro Titta "Er Boja der Papa Re"
Mastro
Titta nasce a Senigalia nel 1779 Bugatti
Giovan Battista (detto Titta)
dell'associazione Rome4u § Roma e Lazio x te, che cura la visita guidata:
Rione Borgo: la Città Leonina e il fantasma di Mastro Titta "Er Boja der Papa Re"
e muore a
Roma 90 anni dopo, esattamente nel 1869 all’indomani della Breccia di Porta
Pia.
Inizia la
sua carriera di boia giovanissimo, aveva appena 17 anni, e proseguì il suo
mestiere fino alla veneranda età di 85 anni (5 prima di morire), 70 anni di onorato
servizio che s’interruppe solo durante i 6 mesi della Repubblica romana (febbraio-luglio 1849), quando la pena
di morte fu abolita. Durante questi anni portò a termine oltre 500 condanne a
morte, e insegnò il suo mestiere a giovani aspiranti boia con grande passione.
Mastro Titta visse e lavorò a Borgo, a lui era addirittura
vietato di passare ponte tranne che nei giorni in cui avrebbe dovuto portare a
termine una esecuzione. Tanto che a Roma era consuetudine stare in allarme ogni
qual volta “Mastro Titta passava
ponte”, la frase era usata come passaparola per rendere noto che in
giornata sarebbe avvenuta l’esecuzione di un condannato a morte, tanto che i "regazzini", quando lo
intravedevano in strada, gli canticchiavano la filastrocca:
«Sega, sega, Mastro Titta,
'na pagnotta e 'na sarciccia;
un´a me, un´a te,
un´a mammeta che so´ tre».
Mastro Titta fu il più celebre e «ammirato» boia di tutti i tempi, tanto da essere passato alla storia come un personaggio Bonario e Amabile, interpretato magistralmente da Aldo Fabrizi nel Rugantino di GARINEI e GIOVANNINI nelle numerose repliche teatrali dal 1962 al 1978, l’ultima con Enrico Montesano, per vedere il video CLICCA QUI
Nel Rugantino, Mastro Titta è anche proprietario di una locanda che gestisce insieme al figlio soprannominato Bojetto, dopo l'abbandono da parte della moglie che non approvava il suo mestiere. Egli si prende cura di Rugantino e di sua sorella Eusebia (Bice Valori) ma finisce per innamorarsi di questa, un amore che è presto ricambiato.
Nella realtà l’altro mestiere di Mastro Titta era l’ombrellaio, e la sua bottega era proprio qui a Borgo Pio in via degli ombrellai. La strada prese il nome dai fabbricanti di ombrelli, che furono costretti a radunarsi tutti nello stesso luogo dopo le lamentele della popolazione che abitava nei pressi delle varie botteghe, dislocate nella città, costretta a respirare gli odori nauseabondi che emanavano i prodotti usati per incerare e verniciare la tela.
Ma chi erano questi uomini che sceglievano di fare la carriera del Boja?
Erano forse uomini violenti
assetati di sangue, e che giustificavano le loro imprese in nome della
giustizia?
Mastro
Titta scrisse in un taccuino, dove annottava scrupolosamente tutte le
esecuzioni che aveva portato a termine:
“Ho sempre creduto che chi
pecca deve espiare, e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della
ragione e ai criteri della giustizia, che chi
uccide debba essere ucciso”.
Tuttavia, sembra che scelse questo mestiere come alternativa alla galera, era infatti uso comune offrire a giovani
detenuti, arrestati per offese minori, come alternativa alla galera il mestiere
di Boia, questo offriva loro una possibilità di redimersi dal loro crimine,
perché idealmente passavano dalla parte di coloro che esercitavano la
giustizia.
Mastro Titta Non amava uccidere le donne, ma non xchè fossero esseri
gentili e soavi, ma piuttosto da lui descritte come ESSERI INFERIORI con cui
preferiva non avere a che fare.
Aveva l’abitudine di annotare in un diario le Generalità,
CRIMINE COMMESSO e tipo d’esecuzione x ogni persona che GIUSTIZIAVA.
Grazie a questo diario fu possibile, anni dopo, produrre
un romanzo, che appare come una autobiografia, ma che è opera di ERNESTO
MEZZABOTTA, intitolato:
“mastro
Titta il boia del papa Re , memorie di un Carnefice”.
Lo scrittore Charles Dickens, durante il
viaggio che compì a Roma nel 1845, rimase molto colpito da un’esecuzione a cui
assistette in via dei Cerchi e che riportò nel suo libro “Lettere dall’Italia”:
"Un sabato mattina, qui un uomo venne decapitato. Nove o dieci mesi
prima, aveva rapinato per strada una contessa bavarese diretta in
pellegrinaggio a Roma, la assalì nella campagna, a brevissima distanza da Roma,
presso ciò che viene denominata (senza esserlo) la Tomba di Nerone; la derubò;
e la percosse a morte con lo stesso suo bastone da pellegrino.
L’'uomo fu catturato, entro quattro giorni dopo aver commesso il
crimine.
Non vi è un tempo
prefissato per amministrare la giustizia, o per eseguirla, in questo
incomprensibile paese; È infatti
alquanto inusuale che si tengano esecuzioni in tempo di Quaresima; ma essendo questo un crimine
molto brutto, si ritenne opportuno, in quel periodo, farne un esempio, mentre
un gran numero di pellegrini stavano giungendo a Roma, da ogni parte, per la
Settimana Santa. Vidi i manifesti nelle chiese, che invitavano la gente a
pregare per l'anima del criminale. Così mi decisi ad andare, ed assistere alla
sua esecuzione.
La decapitazione era prevista per le ore nove e mezza. Due amici
erano con me; e poiché non sapevamo se la folla sarebbe stata molta, ci
trovammo sul posto alle sette e mezza.
Il luogo dell'esecuzione era presso la chiesa di San Giovanni
decollato (un dubbio complimento a San Giovanni Battista) in una delle strade impraticabili senza alcun
marciapiede, delle quali Roma è in gran parte formata - una strada di case marcescenti, che non sembrano
appartenere a nessuno, e che furono certamente costruite senza alcun progetto.
Dirimpetto ad una di queste case, si ergeva il patibolo
disordinato, non verniciato, sgraziato, di aspetto bizzarro: alto all'incirca
sette piedi (circa 2.10 metri ): con un'alta intelaiatura a forma di forca che si
ergeva al di sopra, nella quale era la lama, appesantita da una massiccia
zavorra di ferro, pronta a scendere, e scintillante al sole mattutino.
In fondo alla strada c'era uno spazio aperto, dove si sarebbe
trovato un mondezzaio, con mucchi di cocci e
scarti di verdure, ciò che a Roma
si getta un po' ovunque, senza particolare predilezione di luogo.
Un piccolo drappello di cani si era radunato nello spazio aperto, e
si rincorrevano l'un l'altro in mezzo ai soldati. Romani dall'aspetto truce
vestiti di stracci andavano e venivano, e parlavano fra di loro. Donne e
bambini si agitavano, ai margini della rada folla.
Batterono le nove, batterono le dieci, e non accadde nulla.
Tutte le campane di tutte le chiese suonavano come al solito.
Un venditore di sigari, andava su e giù, offrendo la sua merce. Un
venditore di paste divideva la sua attenzione fra il patibolo e i suoi
avventori. Ragazzi tentavano di scalare i muri, cadendo nuovamente a terra.
Preti e monaci si facevano largo fra la gente a gomitate, e si ergevano in
punta di piedi per arrivare a vedere la lama.
Batterono le undici e ancora non avvenne nulla.
Si sparse la voce, fra la folla, che il criminale non voleva
confessarsi; in tal caso, i preti lo avrebbero trattenuto fino all'Ave Maria
(cioè al tramonto); poiché è loro pietosa usanza di non abbandonare un
peccatore innanzi al Salvatore, fino a tale ora.
All'improvviso vi fu un
rumore di trombe. I fanti scattarono immediatamente sull'attenti. Vennero
fatti marciare fin sotto il patibolo, e disposti tutt'attorno ad esso. Anche i
dragoni galopparono alle postazioni più vicine. La ghigliottina divenne il
centro di una selva irta di baionette e
risplendenti sciabole. La gente si strinse tutt’attorno. Un lungo fiume di
uomini e ragazzi, che avevano accompagnato la processione fin dal carcere, si
riversarono nella piazza.
Dopo un breve lasso di tempo, alcuni monaci avanzarono lentamente
verso il patibolo trasportando l'effige di Cristo in croce, bardato di nero.
Questa fu girata verso il criminale affinché potesse vederla fino all'ultimo.
L’effige era a malapena giunta a destinazione, quando il condannato apparve
sulla sommità del patibolo, scalzo; le mani legate; e col collo della camicia
tagliati fin quasi alle spalle. Un giovane uomo - circa ventisei anni - di
robusta costituzione, e ben proporzionato.
Apparentemente, aveva rifiutato di confessarsi senza prima fargli
incontrare la moglie; così era stata inviata una scorta a prenderla, ciò che
aveva cagionato il ritardo.
Si inginocchiò sotto la lama, Il collo fu posizionato in un foro.
Subito sotto di lui era una borsa di cuoio. E in questa la sua testa rotolò all'istante.
Il boia la teneva per i capelli, camminando tutt'intorno al
patibolo, mostrandola alla gente. Quando ebbe fatto il giro dei quattro lati
del patibolo, la testa fu fissata in cima a un palo così che la folla la
potesse scrutare e che le mosche potessero posarsi sopra.
C'era una gran quantità di sangue. Due uomini vi gettarono
dell’acqua sopra, poi facendo attenzione a dove mettevano i piedi, spostarono
il corpo in una bara.
Uno strano effetto lo faceva l'apparente scomparsa del collo. Il
capo era stato reciso così vicino al tronco, quasi che il corpo sembrava non
avere più nulla dalle spalle in su.
Nessuno appariva interessato, o comunque toccato. Non vi era alcuna
manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione.
Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante; il cui unico significato
non era altro che un'opera di macelleria, al di là del momentaneo interesse, ai
danni dell'unico sventurato protagonista.
Sì! Una tale vista ha un solo significato e un solo ammonimento. Che io non possa mai dimenticarlo!
I giocatori che speculano sul lotto, si posizionano in punti
favorevoli per contare i fiotti di sangue che sgorgano, qui e là; e giocano
quei numeri.
Il boia: un fuorilegge
EX OFFICIO (quale ironia sulla Giustizia!) che per la vita non osa
traversare il Ponte di S. Angelo se non per svolgere il proprio lavoro: si
ritirò nella sua tana, e lo spettacolo poté dirsi concluso… And the show was
over”.
Come Dickens altri celebri viaggiatori
stranieri rimasero colpiti dalla crudezza delle scene di esecuzione capitale
cui assistettero; tra questi Lord
Byron sintetizzò la barbarie della giustizia praticata nella
Roma di quegli anni descrivendo:
«La cerimonia, - compresi i preti
con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e
il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido
rumore secco, e il pesante cadere dell'ascia, lo schizzo del sangue e l'apparenza spettrale delle teste esposte -
è nel suo insieme più impressionante del
volgare rozzo e sudicio new drop e dell'agonia
da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi».
Una curiosa abitudine che gli autori inglesi sembrano aver trascurato, forse perché troppo presi da ciò che accadeva sul palco,
è che in mezzo alla grande folla molti uomini erano soliti portare con sé i
propri figli maschi per mostrare loro ogni dettaglio della cerimonia:
proprio nel momento in cui veniva giù la
lama (...e la testa) o quando, in caso di impiccagione, o il condannato rimaneva appeso, era
consuetudine dare loro uno sganassone (cioè una sberla),
come tangibile ricordo di ciò che sarebbe
potuto loro capitare il giorno che si fossero messi nei guai con la
giustizia. E fra i bassi ceti sociali, a quei tempi, ciò accadeva molto
spesso.
Di questo
costume fa menzione Belli in uno dei suoi sonetti più conosciuti:
ER RICORDO – Gioacchino Belli 1830
Er giorno che impiccòrno Gammàrdella
io m’ero propio allora accresimato.
Me pare mó,
Er giorno che impiccòrno Gammàrdella
io m’ero propio allora accresimato.
Me pare mó,
ch’er szàntolo a mmercato
me pagò un szartapicchio
me pagò un szartapicchio
e ’na sciammella.
Mi’ padre pijjò ppoi la CARRE-ttella,
ma pprima vorze gode l’impiccato:
E mme tieneva in arto inalberato,
Discenno: «Vè la forca cuant’è bbella!».
Tutt’a un tempo, ar paziente, Mastro Titta j’appoggiò un carcio in culo,
Mi’ padre pijjò ppoi la CARRE-ttella,
ma pprima vorze gode l’impiccato:
E mme tieneva in arto inalberato,
Discenno: «Vè la forca cuant’è bbella!».
Tutt’a un tempo, ar paziente, Mastro Titta j’appoggiò un carcio in culo,
e Ttà tà a mene, un schiaffone
alla guancia de man dritta.
«Pijja», me disse mi padre,
«Pijja», me disse mi padre,
«e aricordete bbene
che sta fine medesima
che sta fine medesima
sce sta scritta pe mmill’antri che Ssò mmejjo de tene». »
Nel bene e nel male Mastro Titta rimane un personaggio che ha lasciato il segno nella storia di Roma.
Articolo curato da Valeria Scuderi dell'associazione Rome4u § Roma e Lazio x te, che cura la visita guidata:
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