PANE SIMBOLO DEL CITTADINO ROMANO

I romani del III sec. a.C. erano visti come mangiatori di puls (sorta di polentina di frumento mescolata e cotta con acqua e latte). All’interno delle case modeste era diffusa la tradizione dei cereali consumati sotto forma di pappa o gallette senza lievito. 
Successivamente nella Roma del II sec. a.C. il pane lievitato assunse un ruolo importantissimo. Se in tempo di pace per un contadino i legumi dell'orto erano sufficienti a rappresentare un'alimentazione civilizzata, questo non valeva in tempo di guerra. Il soldato titeneva essenziale mangiare il pane al quale affiancava carne, olive, cipolle, fichi e vino. 
Mentre il prandium del contadino si basava sui legumi quello del soldato ruotava attorno al grano. Di facile conservazione e trasporto, il pane rappresentava il cibo simbolico del cittadino soldato, quell’alimento che in tutto il bacino del Mediterraneo, insieme alla frutta secca, identificava colui che viaggiava. 
Il grano, una volta trasformato nel compatto e resistente pane, forgiava il corpo del soldato in solido e corazzato. Il pane era il cibo simbolico della cittadinanza, e il contadino diventava cittadino soltanto nel giorno in cui riceveva del frumento perché iscritto fra gli uomini che potevano essere mobilitati. La cultura del grano era il segno dell’agiatezza corrispondente ad una classe di censo superiore. Con il grano si possedeva quel superfluo indispensabile alla condizione di cittadino, status che metteva al riparo dalla penuria e dall'insufficienza degli orti. 
A Roma erano due i gruppi ai quali lo stato assegnava una condizione privilegiata rispetto alla massa della popolazione dell'impero: i componenti dell'esercito e la plebe cittadina della capitale, che poteva rivendicare la distribuzioni del grano come diritto dell'uomo libero (plebe frumentaria). 
La lex “Sempronia frumentaria”, voluta nel 123 a.C. da Caio Gracco, fu il primo provvedimento che garantì la distribuzione di grano ai cittadini a prezzo calmierato. Sessantacinque anni dopo, con la “lex Clodia” si affermò il principio della distribuzione gratuita del grano. Da quel momento, l'enorme esborso che le “frumentationes” comportano per l'erario pubblico diventò un tributo fisso che lo stato romano pagava al mantenimento della pace sociale. Si calcola che la quantità di grano distribuito annualmente a Roma in epoca augustea fosse non inferiore a duecentomila tonnellate. 
Ma in una città che si rispetti, una qualsivoglia attività umana - ancorché necessaria alla sopravvivenza - diventa prima o poi un mestiere, un esercizio commerciale, un'impresa. Ecco allora che la grande Roma vide l'avvento dei pistores e delle “pistrinae”: fornai e panetterie che tolsero ai singoli il disturbo di prepararsi il pane da sé, vendendolo sempre fresco e nelle diverse varietà. Plinio così descrive i fornai: 
“Fino alla guerra contro Perseo, più di 580 anni dalla fondazione della città, a Roma non esistevano fornai. I romani facevano il pane con le loro mani: si trattava di una peculiare occupazione femminile, così come ancora avviene presso la maggior parte dei popoli”. 
Ma vediamo com'era il pane dei romani. Una prima distinzione va fatta tra il “panis cibarius”, detto anche “plebeius” e il “panis siliginaeus”: il primo era ricco di crusca ed quindi scuro e di basso costo; il secondo veniva fatto con la sola “siligo”, cioè il for di farina, e se lo potevano permettere solo i benestanti. La varietà di pani e affini che i “pistores” erano in grado di mettere a disposizione dei consumatori erano numerosissime. 
Plinio ne fa un lungo elenco, avvertendo che non è da considerarsi esauriente: 
“Sembra superfluo ricordare i vari tipi di pane: a volte è denominato in base ai cibi che accompagna, come i pani hostreari; altre volte è distinto in base alla prelibatezza, come gli artologani; altre ancora, per la velocità di preparazione, come nel caso degli streptici; poi per le modalità di cottura, come i pani da forno o quelli cotti nei forni da campo, o nei clibani; 
non molto tempo fa ne è stato importato dalla Partia un tipo chiamato acquatico alcuni lo chiamano partico perché viene tirato a lungo con l'acqua, fino a fargli acquisire una fine e soffice leggerezza. II pregio maggiore del pane è nella qualità della farina e nella sottigliezza dello staccio. C'è chi lo lavora anche con uova o latte; addirittura con il burro i popoli di recente pacificati, da quando il loro interesse è stato attratto dall'arte dei fornai. Resta intatta la grande considerazione per il Piceno, che ha inventato il pane di alica. Dopo nove giorni di macerazione, il decimo, nel dargli forma, lo impastano con il succo di uve appassite e spremute, dopodiché lo cuociono messo dentro vasi che si rompono nei forni”. 

IL MIO PANIS FARREUS



pubblicato da www.degustibusitinera.it il 21-4-17

Oggi si celebrano i natali di Roma, per il CALENDARIO DEL CIBO ITALIANO abbiamo pensato di celebrare la Giornata Nazionale del cibo nell’antica Roma.
Naturalmente mi sono subito fatta avanti per una pubblicazione sul pane dei romani, ed ho prodotto il pane di farro che vedete in foto.
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IL FARRO
Il farro era il cereale più utilizzato nell’antica Roma, fino alla comparsa dei frumenti, grano tenero e duro, più produttivi e facilmente coltivabili. Inoltre i chicchi del grano erano liberabili dalla pula con semplice battitura, a differenza del farro, che necessitava di essere abbrustolito prima della macinazione.
Esistono tre tipi di farro: monococco, dicocco e spelta. Il monococco, o farro piccolo, ancora coltivato in nord Europa ed ora anche in Italia, e noto col nome di einkorn, è il più antico antenato del grano, ed era proprio il farro più utilizzato nell’era repubblicana.
Il più antico antenato del grano è quello che chiamiamo farro monococco, a sua volta domesticato e coltivato da una specie selvatica, il triticum boeoticum. Ma molto tempo prima si era verificato un evento singolare: l'intero genoma di un'altra specie selvatica, il triticum urartu, si era fuso con quello di una graminacea, Aegilops speltoides, dando vita al triticum dicoccoides, o farro selvatico, con il doppio dei cromosomi dei "genitori". Dal farro selvatico nel corso del tempo si è naturalmente selezionata un'altra specie, il triticum dicoccum, o farro coltivato, base delle coltivazioni nel periodo neolitico e, successivamente, il grano dei faraoni e degli antichi romani con cui si faceva il pane e la birra.
In seguito a successive trasformazioni, il triticum dicoccum ha generato il triticum durum, il nostro grano duro.
Ancora una trasformazione, avvenuta all'incirca 8000-9000 anni fa, ha permesso la fusione del triticum dicoccum con Aegilops Tauschii, dando vita al triticum spelta o farro spelta, che a sua volta genererà il triticum aestivum o grano tenero. Dunque il grano tenero non ha un antenato selvatico diretto, ma porta con sé il genoma di tre specie diverse che lo hanno generato.
Grazie a questa trasformazione la nuova specie si è adattata ai climi più freddi ed ha migliorato le caratteristiche che poi lo hanno reso il cereale da panificazione per eccellenza.
Per ulteriori approfondimenti, consultate anche questo articolo.
Ma torniamo ai prodotti della lavorazione del farro: la farrina, poi farina, e il pane.
Il pane costituì la base della dieta dell’antica Roma dal II secolo a.C., cioè da quando si diffuse l’uso del lievito, che permise la lavorazione del farro macinato non più solo per cucinare la puls, cioè la zuppa di farro, ma anche per impastare pagnotte e focacce di vario tipo, e cuocerle in forno. Il che innescò un netto cambiamento delle abitudini alimentari.
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TIPI DI PANE IN USO NELL’ANTICA ROMA
Esistevano vari tipi di pane, che derivavano da diversi tipi di impasti e metodi di cottura.
Con la siliga, che era in pratica la nostra farina 0, si confezionava il panis siliginaeus, il più pregiato, destinato alle mense dei ricchi.
Vi erano poi panis cibarius, secundarius, plebeius, fatti con farine di diverse gradazioni di setacciatura, fino all’ultimo, il panis rusticus, completamente integrale.
Il panis hostearus serviva ad accompagnare le ostriche; il panis picenus veniva impastato con succo d’uva passita, dopo nove giorni di macerazione del farro, e cotto in una pentola di coccio che veniva rotta davanti ai commensali; il panis nauticus era una galletta destinata ai marinai, che si conservava a lungo e li accompagnava durante l’intero periodo di navigazione; il panis adipatus era una focaccia arricchita da pezzi di lardo o pancetta; il panis militaris era un pane duro e pesante destinato alle truppe, e si conservava per lunghi periodi.
Il panis parthicus, o acquaticus, era un pane morbido e spugnoso, da un impasto in grado di assorbire più liquidi.
Il panis artolaganus era ricco, ottenuto da un impasto con latte, vino, miele, olio, pepe e canditi.
Nelle campagne era diffuso l’uso di impastare il pane con ingredienti poveri, ma ricchi di nutrienti, come ghiande, castagne, legumi. Inoltre proprio tra i contadini nacque la pinsa, una focaccia sottile e allungata, impastata con cereali poveri, come orzo, avena e miglio, erbe aromatiche e sale. Veniva cotta su una pietra arroventata.
Una curiosità: esisteva un pane destinato ai cani, fatto con la crusca, il panis furfureus.
I vari metodi di cottura davano origine al panis furnaceus (cotto al forno), panis artopticus, (cotto sotto una campana di terracotta), subcinerinus o fucacius(cotto sotto la cenere), clibanicus (cotto su un vaso arroventato).
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LA MOLA SALSA
La mola salsa era una focaccia sacra, fatta di farro e acqua di fonte perenne, e coperta di sale. Veniva preparata dalle Vestali e utilizzata nei riti religiosi di ringraziamento alla dea Cerere per la maturazione delle messi. Veniva distribuita ai fedeli, come atto di purificazione, oppure serviva a cospargere gli animali destinati al sacrificio. Infatti “immolare” vuol dire coprire con mola salsa.
PISTORES E PISTRINAE
Con l’evoluzione delle tecniche di setacciatura, macinazione e cottura, si diffusero i pistores e le pistrinae, i fornai e le panetterie. All’inizio artigiani di modesta provenienza sociale, i pistores ottennero in seguito privilegi e immunità dall’amministrazione statale, e persino contributi per avviare l’attività. Crearono una propria corporazione, il Collegium Pistorum, e ottennero proficui contratti di forniture dallo Stato, per la distribuzione gratuita al popolo.
I romani erano specialisti nella produzione di macine per la molitura del grano e delle olive. I molini erano situati molto vicini, o addirittura dietro i forni delle panetterie. Serviva ogni giorno farina macinata fresca, i romani non la conservavano, convinti che si imputridisse.
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FRUMENTATIONES
La “Lex Sempronia frumentaria” voluta da Caio Gracco nel 123 a.C., garantiva la distribuzione di grano ai cittadini a prezzo calmierato. Successivamente la “Lex Clodia” stabilì con le “frumentationes” la distribuzione gratuita del grano.
IL RITO DELLA CONFARREATIO
La Confarreatio era un rito religioso con il quale si celebrava il matrimonio romano soprattutto tra i patrizi. Esso consentiva al marito di acquisire la manus sulla propria moglie.
Durante questa cerimonia si sacrificava una pecora a Iuppiter Farreus, con diverse formalità rituali, tra le quali la divisione e distribuzione di una focaccia di farro, simbolo della futura vita comune.
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IL MIO PANIS FARREUS MODERNIZZATO
Come abbiamo visto, i nostri antenati attribuivano al pane una funzione nutritiva, sacra, sociale. L’importanza di questo alimento è rimasta inalterata nella storia, giungendo fino a noi uomini moderni, che non abbiamo perso, per fortuna, la gioia di godere del profumo caratteristico del pane appena uscito dal forno e il gusto di addentare una fumante pagnotta.
Oltre a questo, il mio personale piacere consiste anche nel prepararlo, il pane.
Quello che propongo oggi non pretende essere una fedele riproduzione del panis farreus, è preparato con le tecniche moderne che solitamente utilizzo. Lo ricorda però nell’uso di solo farro, e anche nella forma.
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Vediamo ora la ricetta.
Il povero fornaio Modestus non sapeva che, con l’eruzione del 79 il Vesuvio non solo avrebbe coperto la sua casa e la sua bottega, ma avrebbe anche preservato per secoli anche le sue pagnotte. Ora non sono certo buone da mangiare, ma senza dubbio sono ottime da studiare e, come ha fatto il British Museum nel 2013, anche da replicare.
Per farlo era stato chiesto l’intervento del cuoco italiano Giorgio Locatelli, bravo, bello quanto basta e molto famoso nel mondo anglosassone. La ricetta, ricavata da vari scritti dell’epoca, sembra portare più a un impasto da lievito naturale
Per farlo, bisogna sciogliere il lievto in acqua e aggiungerlo alla biga. Poi mescolare e setacciare le farine, insieme al gutine aggiungerle poi alla mistura con acqua. Dopo due minuti, aggiungere il sale. Continuare a mescolare per altri tre minuti.
Qui viene il bello. Creare una forma circolare, e lasciare il tutto a riposo per un’ora almeno. Avvolgere la pagnotta con una cordicella e creare dei tagli sulla superficie (aiuta il pane a crescere in forno durante la cottura). Poi cuocere 30/45 minuti, a 200 gradi.
​C​osa interessante che fa notare anche Locatelli è la cordicella che veniva posizionata intorno alla pagnotta. Serviva per trasportarla, con comodità, a casa. Nell’antica Roma, chi non acquistava il pane dai fornai andava nei forni pubblici, dove faceva cuocere il proprio impasto.  
Ho preparato anzitutto un preimpasto, per simulare la pasta di riporto, cioè il pezzo di impasto lasciato da parte, che servirà per la preparazione dell'impasto successivo. Ho mescolato velocemente gli ingredienti e l'ho fatto maturare in frigo per un giorno
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PREIMPASTO
50 g di pasta madre
200 g di farina di farro spelta semintegrale macinata a pietra
150 g di acqua
1 g di sale
Anche per l'impasto principale ho proceduto senza impastatrice, impastando a mano e aggiungendo gli altri ingredienti. Non è necessario impastare per lungo tempo, si tratta di farine delicate, consiglio la tecnica di impasto spiegata in questo articolo.
IMPASTO
preimpasto
500 g di farina di farro dicocco integrale macinata a pietra
500 g di farina farro spelta semintegrale macinata a pietra
650 g di acqua
10 g di sale
Ho fatto puntare l'impasto per un'ora, ho fatto le pieghe e ho messo in frigo per 15 ore.
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Il giorno successivo ho riportato l'impasto a temperatura ambiente e ho proceduto con la formatura delle pagnotte, utilizzando anche la tecnica del pain fendu. Le ho messe a lievitare capovolte (tranne una, quella su cui ho praticato i tagli e le lettere SPQR), ancora per un paio d'ore.
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Cottura come al solito su pietra refrattaria arroventata, per 45 minuti, con temperatura a 250° per i primi 15 minuti, poi abbassata a 220 e 200.
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PANE E PANETTIERI NELL’ANTICA ROMA
pubblicato da Cerealia

Tra i vari alimenti dell’antica Roma, il pane è uno dei più documentati dalle fonti letterarie, da affreschi e bassorilievi che ne rappresentano le fasi di preparazione e la vendita, e perfino dalle pagnotte carbonizzate, trovate fra le rovine di Pompei, che, analizzate, hanno rivelato i loro segreti. Da Plinio il Vecchio sappiamo che il pane fu conosciuto relativamente tardi dai Romani, abituati a consumare focacce non lievitate e polta, una densa zuppa a base di cereali selvatici, leguminose e, quando era disponibile, carne. Il cereale più apprezzato era il farro, mentre segala e avena non erano molto stimate e l’orzo, addirittura, era ritenuto degno solo di schiavi e soldati. Il primo tipo di frumento usato per la produzione del pane fu, dunque, il farro, dai cui chicchi, leggermente abbrustoliti per liberarli dalla pula e macinati, si otteneva la farrina (da cui il termine “farina”, poi passato a indicare il prodotto della macinazione di qualunque cereale). Attorno alla fine del V secolo a.C. comparvero nuovi grani duri e teneri, probabilmente originari della Sicilia e dell’Africa, di qualità superiore e più facilmente liberabili dalla pula, che consentirono un rapido miglioramento della panificazione rendendo focacce e pane meno duri e acidi. L’uso dei mulini agevolò la macinazione e i progressi nelle tecniche di setacciatura consentirono di differenziare le qualità di farina e di semola. Il pane romano, generalmente, era noto per la sua durezza, dovuta tanto alle farine di qualità scadente (che assorbono meno acqua rispetto a quelle migliori) quanto alla scarsa quantità e qualità del lievito impiegato (preparato una volta l’anno al tempo della vendemmia, con mosto d’uva e pasta di pane). Esistevano, tuttavia, numerosi tipi e formati di pane, a seconda dei differenti usi, impasti, metodi di cottura. Con farina di qualità superiore (siliga) si produceva il panis siligineus. A partire dal modo in cui veniva setacciata la farina, si avevano panis cibarius, secundarius, plebeius, rusticus. Sorta di gallette che si conservavano a lungo erano il panis militaris castrensis (riservato ai soldati) e il panis nauticus (per i marinai); piuttosto duro era anche il panis autopyrus (integrale), per non parlare del panis furfureus, destinato … ai cani! Un tipo più morbido, ma poco diffuso, era il panis parthicus, detto anche aquaticus in quanto spugnoso e in grado di assorbire una maggiore quantità d’acqua. Tra i diversi tipi d’impasto, quelli in uso nelle zone rurali includevano leguminose, ghiande, castagne e altri elementi “poveri”, mentre ne esistevano di più costosi e raffinati a base di spezie, latte, uova, miele, olio: un pane di lusso era l’artolaganus, con miele, vino, latte, olio, pepe e canditi. I vari metodi di cottura davano origine al panis furnaceus (cotto al forno), all’artopticus(cotto in casa sotto una campana), al subcinerinus o fucacius (cotto sotto la cenere) e al clibanicus, una focaccia cotta sulla parete esterna di un vaso arroventato. Esistevano pani di forma allungata e pagnotte rotonde, con incisioni a croce per favorirne la divisione in quattro parti (quadrae, da cui panis quadratus). Man mano che le tecniche di macinatura e setacciatura della farina e di preparazione e cottura del pane si andavano complicando, la produzione si trasferì dall’ambito familiare a quello “industriale”, ad opera di artigiani specializzati (secondo Plinio, a partire dal 171 a.C.). Il nome pistores, in origine riservato ai servi adibiti alla triturazione in mortaio dei grani di farro, passò a designare i veri e propri fornai, che all’inizio erano principalmente liberti o cittadini di bassa condizione sociale. I panettieri ottennero in seguito privilegi e immunità da parte dell’amministrazione pubblica e perfino un contributo dallo Stato per avviare la loro attività. Crearono una propria corporazione, il collegium pistorum, e giunsero a stipulare proficui contratti di fornitura del pane alle autorità, per le distribuzioni gratuite al popolo. Un fornaio, quindi, poteva anche fare fortuna, come accadde, per esempio, al liberto Marco Virgilio Eurisace, il cui sepolcro, a Porta Maggiore, “racconta”, nei rilievi del fregio, le fasi della panificazione: dalla macinatura e setacciatura della farina, all’impasto, alla fabbricazione e cottura al forno dei pani. Un monumento particolare per celebrare una delle professioni più antiche e popolari. (Letizia Staccioli, Archeoclub d’Italia, sede di Roma – Direttore artistico Festival Cerealia)