“Memorie di Adriano”, Marguerite Yourcenar (1951)
Publio Elio Traiano Adriano visse tra il 76 e il 138 d.C. Fu imperatore dal 117, quando Traiano, suo predecessore nonché cugino, morì dopo aver designato la sua adozione e pertanto la sua successione. Gli storici gli riservano un giudizio sostanzialmente positivo. Lo ritengono un imperatore che ha saputo mantenersi lontano dagli eccessi, ha cercato di essere saggio e di impiegare nel suo governo quella cultura di cui era grande amante. Lo ritengono un bravo amministratore di un regno vasto ed eterogeneo, attraverso cui viaggiò infaticabilmente per meglio conoscerlo e gestirlo. Il periodo del suo impero è comunemente considerato di relativa pace, contrassegnato da una politica difensiva più che aggressiva, fatta salva la violenta repressione della rivolta ebraica nel 135 che portò all’assassinio di mezzo milione di persone e l’obbligo, per i sopravvissuti, di abbandonare la loro terra.
Viene in mente quel famoso passo dell’“Agricola” di Publio Cornelio Tacito, storico coevo a Traiano ed Adriano: “Rubare, massacrare, rapire definiscono con falso nome impero, e quando fanno il deserto la chiamano pace.” [ “Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.” Agricola, 30.3] Ma qui aprirei una digressione con ampi squarci relativi anche al presente che si discosterebbe molto dal libro di cui si parla. Mi limito a commentare che a mio avviso il giudizio su Adriano è molto influenzato dal confronto con altri principi ricordati nella Storia per dissolutezza, incapacità di amministrare, dubbio spessore culturale.
Marguerite Yourcenar inizia a progettare un romanzo sulla storia di Adriano quando è solo ventunenne, nel 1924. Ma l’opera non funziona, non la convince, e con la radicalità che è necessaria nell’arte, e forse anche nella vita, dopo averci lavorato per cinque anni, distrugge tutto e ricomincia dall’inizio la scrittura del progetto nel 1934. Più matura come scrittrice e come persona, con alle spalle due conflitti bellici mondiali e il senso della fine della Storia, la Yourcenar pubblica infine l’opera “Memorie di Adriano” nel 1951. Nei “Taccuini di appunti”pubblicati assieme al romanzo, l’autrice rievoca la splendida frase di Flaubert che segna la linea ispiratrice del suo lavoro: “Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo.”
E l’uomo solo scelto dalla Yourcenar è Publio Elio Traiano Adriano, autore di una vera autobiografia, per noi perduta, che la scrittrice ricrea affascinata dalla storia di questo personaggio vissuto nella grandezza di una Roma imperiale già minata da ingombranti ombre. Più filosofo che imperatore, più ellenistico che romano. Romano forse nemmeno era, Adriano. Le sue origini pare siano da ricercare nella provincia d’Hispania, e l’Adriano della Yourcenar sicuramente non era romano nemmeno d’elezione, in quanto innamorato della Grecia, di Atene, e dell’Oriente.
È Adriano stesso, ormai sessantenne, a rievocare la vita che sente sfuggirgli dal corpo sempre più affaticato e stanco. Le sue parole sono rivolte al diciassettenne Marco Aurelio, adottato per riservargli la successione al futuro imperatore Antonino Pio. E sono le parole di un uomo sfiancato dalle crisi di respiro. Adriano sa che morirà perché un giorno gli mancherà definitivamente il respiro. Ed è amaramente ironico che questa sia la morte di un uomo che ha tanto viaggiato per respirare un’aria sempre nuova, per soddisfare l’irrequieto bisogno di sapere. C’era anche un impero da gestire nel migliore dei modi, è indubbio. Ma l’Adriano della Yourcenar è spirito inquieto, prima ancora che imperatore. In ogni suo gesto di governo vi è l’impronta di un pensiero profondo che quel gesto ha generato. Un pensiero intriso sempre di più dalla presenza della morte, sempre più palpabile, sempre più manifesta.
Quante volte, levandomi alle prime ore del mattino per studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri incontri con il “nulla”, prove che ogni notte non siamo già più….
Una lettera scritta per informare il giovane Marco Aurelio del proprio stato di salute diventa così la rievocazione della propria vita, il tentativo di trovarvi un senso, un fluire che abbia uno schema e un motivo. Ma questo fluire si dipana in mille ruscelli che si intersecano e si allontanano, e muoiono senza sbocchi. E allora si può solamente tentare di comprendere il proprio operato e quello degli altri, e rileggere la vita in base a ciò che si sa di sé e degli altri, a partire dall’infanzia, dall’avo Marullino che vive la propria natura di essere vivente con fisicità e porta Adriano, da bambino, ad osservare il moto degli astri nelle notti d’estate. La famiglia, gli studi, l’inizio della propria carriera militare e politica, la vita dissoluta di Roma, che languisce e corrode. Il fascino dell’esotico, la curiosità di conoscere e frequentare altri popoli. L’ascesa al soglio imperiale, probabile successore, guardato con ammirazione, sospetto e imperscrutabile diffidenza anche da Traiano, mentre la fama crescente lo espone a maldicenze e congiure, e lo stesso rapporto con il cugino imperatore è ambiguo e complesso. Adriano ne osserva il comportamento e ne rileva strategie ed errori, e nel contempo se ne tiene sempre ad una distanza tale da non poter mai essere tranquillo di diventarne davvero il successore. Eppure una delle più belle immagini del libro è dedicata proprio a lui; l’immagine di un uomo che per la prima volta prende coscienza dei propri limiti e della finitezza umana.
[…] l’imperatore stremato era andato a sedersi sulla ghiaia, a contemplare le torbide acque del Golfo Persico. Si era ancora all’epoca in cui non dubitava della vittoria; eppure, per la prima volta, fu sopraffatto dall’immensità del mondo, dal terrore della vecchiaia, da quello dei limiti che ci rinserrano tutti. Grosse lacrime rigarono il volto di quell’uomo che si credeva incapace di piangere. L’imperatore, che aveva portato le aquile romane su lidi inesplorati fino a quel giorno, comprese che non si sarebbe imbarcato mai su quel mare tanto vagheggiato: l’India, la Battriana, tutto l’Oriente oscuro di cui s’era inebriato a distanza sarebbe restato per lui un nome, una visione.
C’è già, nella voce dell’Adriano della Yourcenar, un individualismo molto forte; egli vive per governare, ma sembra quasi attraversare il libro da solo. Rade figure compaiono portando con sé uno spessore: Plotina e Antinoo.
Moglie di Traiano, l’imperatrice Plotina è l’amica di Adriano. Una di quelle amicizie che richiedono impegno intellettuale per la sottigliezza e raffinatezza del legame. Parte della tradizione storica narra che Traiano sia morto senza stabilire un successore, e Plotina abbia inscenato un testamento in punto di morte che designasse Adriano. La Yourcenar riprende questa tradizione, che attualmente pare essere stata smentita ma che permette all’autrice di creare la suggestione del personaggio di Plotina, donna silenziosa e saggia, colta e determinata, di ingegno lucido e netto. Il legame con Adriano, lungi dall’avere una qualsiasi tinta amorosa, si configura come l’affinità tra due intelligenze e sensibilità affini, che si comprendono anche senza parlare.
E poi c’è Antinoo. Bellissimo giovinetto diciassettenne di cui Adriano si infatua rendendolo il proprio amante prediletto. Solo troppo tardi capirà che quel fanciullo gli ha dato talmente tanto di sé da donargli anche la propria vita. È innegabile che le pagine più dense e struggenti del romanzo siano proprio quelle dedicate ad Antinoo, che nella sua ingenuità cela l’abisso di morte che porta con sé. Struggente è la totale devozione portata ad Adriano, struggente il dolore che l’imperatore porterà con sé fino alla fine dei suoi giorni per non aver intuito lo squilibrio di tale rapporto; ciò che per lui era una passione, per il giovane era l’intera vita. Accecato dalla sofferenza per aver perso chi lo amava senza riserve, Adriano erige statue e fonda città che rendano immortale il nome del suo fanciullo. Una notte una nuova stella gli appare all’orizzonte, e l’imperatore decide di nominare una costellazione con il nome del giovane scomparso. Oggi quella costellazione non è più riconosciuta, e molte delle sue stelle sono confluite nella costellazione dell’Aquila.
Il vero filo conduttore nell’opera è la presenza di Antinoo, l’affondo eterno nel cuore dell’imperatore, il rimpianto per non aver compreso quanto fragile, delicato e tremendo fosse il potere nelle proprie mani. Il tema esistenziale tocca toni più sommessi e profondi, e vita e morte diventano compagnie misteriose e sempre presenti.
[…] Una volta, nella mia vita, ho fatto di più: ho offerto il sacrificio d’una intera notte alle costellazioni. Ciò avvenne dopo la mia visita a Osroe, durante la traversata del deserto siriaco. Disteso supino, gli occhi bene aperti, tralasciando per qualche ora ogni pensiero umano mi sono abbandonato dal tramonto all’aurora a quel mondo di cristallo e di fiamma. È stato il più bello dei miei viaggi. […] Qualche anno dopo, la morte doveva diventare l’oggetto delle mie meditazioni costanti, il pensiero al quale ho dedicato tutte quelle forze del mio spirito che lo Stato non assorbiva. E chi dice morte esprime anche quel mondo misterioso al quale forse per suo mezzo si accede. Dopo tante riflessioni ed esperienze, talvolta condannabili, ignoro ancora quello che accade dietro quella buia cortina. Ma la notte siriaca rappresenta la mia parte consapevole d’immortalità.
Marguerite Yourcenar redige il testo documentandosi con studi e ricerche. Allega al romanzo la bibliografia a cui ha attinto per costruire il suo libro, creazione narrativa in cui riprende e rielabora ciò che è rimasto della Storia.
La voce di Adriano è una prosa razionale e filosofica. Riecheggia la prosa antica, la prosa degli storici e dei filosofi classici. È una voce pacata, equilibrata, ferma. La voce di un uomo anziano che sta morendo sapendo d’essere entrato nella Storia. Adriano è un uomo senza rimpianti, sicuro di sé e del suo agire, e dell’ineluttabilità con cui quel potere che ha cercato ed esercitato per l’intera sua vita gli spettasse di diritto. Fin quando il dolore e la morte infrangono ogni sua certezza.
Non avevo desiderato accecare quel disgraziato. Ma non avevo desiderato neppure che un fanciullo che m’amava morisse a vent’anni.
I brani sono tratti da Marguerite Yourcenar, “Memorie di Adriano : seguite dai Taccuini di appunti”; a cura di Lidia Storoni Mazzolani. Torino. Einaudi, 2002.