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“Ego te amata capio” cioè: Io prendo te mia amata, con queste parole il Pontefice Massimo consacrava le Vestali, sacerdotesse della dea Vesta. Da questo momento esse servivano nel tempio la dea per almeno trent’anni impegnandosi a non venir meno al voto di castità fatto, pena essere murate vive in una stanza sotterranea al Campus Sceleratus. Ma dove si trova il Campus Sceleratus?
All’interno del Foro Romano si conservano i resti di un tempio circolare, tra i più antichi e importanti di Roma, dove le sacerdotesse di Vesta erano chiamate a custodire il sacro fuoco d ella città. Scelte ancora bambine (dai sei ai dieci anni) tra le famiglie più facoltose della città, avevano solo due obblighi, tenere il fuoco sacro acceso giorno e notte e mantenere la verginità per oltre trenta anni.
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All’interno del Foro Romano si conservano i resti di un tempio circolare, tra i più antichi e importanti di Roma, dove le sacerdotesse di Vesta erano chiamate a custodire il sacro fuoco d ella città. Scelte ancora bambine (dai sei ai dieci anni) tra le famiglie più facoltose della città, avevano solo due obblighi, tenere il fuoco sacro acceso giorno e notte e mantenere la verginità per oltre trenta anni.
Un destino crudele e al contempo esaltante, seppur mortificate nella loro femminilità, godevano di una posizione privilegiata nella società, che le rendeva le donne più potenti ed influenti dell'Impero. Non erano sottoposte alla potestà paterna, potevano amministrare le loro ricchezze e lasciare testamento, avevano il permesso di circolare sui carri anche durante il giorno, godevano l’onore di immolare gli animali condotti al sacrificio, beneficiavano del potere di cancellare la pena di morte a un condannato qualora lo avessero incontrato lungo il loro cammino, sedevano accanto ai senatori durante processi, sedute politiche e agli spettacoli pubblici (mentre le altre donne erano relegate ai posti situati più in alto).
Accanto a tutti questi privilegi però avevano anche tanti oneri, responsabili del fuoco sacro non potevano permettere che questo si spegnesse, punite severamente dovevano sottoporsi a un lungo cerimoniale di purificazione prima di poterlo riaccendere. Condannate a morte se sorprese a violare il loro voto di castità , nessuno però poteva toccarle, né tanto meno ucciderle, per ovviare a questo venne escogitata una soluzione assolutamente crudele, la sepoltura da vive. Venivano sepolte in una buca con solo un pezzo di pane e una candela a cui il loro destino era inesorabilmente legato.
Parlare di Roma ignorando le sue donne e gli storici personaggi che hanno contribuito a renderla grande ed eterna, è una grossa lacuna che l’associazione culturale Roma e Lazio x te ha deciso di colmare realizzando un ciclo di visite guidate intitolato “Le donne di Roma”, donne che hanno contribuito, ognuna a suo modo, a rendere grande questa città nel corso dei secoli. Il programma di queste e altre visite da noi programmate è consultabile sul sito di Rome4u § Roma e Lazio x te
Parlare di Roma ignorando le sue donne e gli storici personaggi che hanno contribuito a renderla grande ed eterna, è una grossa lacuna che l’associazione culturale Roma e Lazio x te ha deciso di colmare realizzando un ciclo di visite guidate intitolato “Le donne di Roma”, donne che hanno contribuito, ognuna a suo modo, a rendere grande questa città nel corso dei secoli. Il programma di queste e altre visite da noi programmate è consultabile sul sito di Rome4u § Roma e Lazio x te
Articolo curato da Daniela Rossi e Valeria Scuderi dell'associazione culturale Rome4u § Roma e Lazio x te
e pubblicato da RomeToday il 25 maggio 2015
e pubblicato da RomeToday il 25 maggio 2015
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LE VESTALI
Le vestali erano le sacerdotesse di Vesta. A Romolo, primo re di Roma, o al suo successore, Numa Pompilio, è attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia.
In realtà nella leggenda della fondazione di Roma, la madre di Romolo e Remo, Rea Silvia, era già una vestale di Albalonga, quindi il culto era preesistente, come narra Tito Livio. Le Vestali furono dunque trasposte a Roma da Numa Pompilio, che era infatti sabino, subito dopo i Flamini, e prima dei Salii e dei Pontefici.
Il loro compito era di mantenere sempre acceso il fuoco sacro alla Dea, e di preparare gli ingredienti per qualsiasi sacrificio pubblico o privato, come la mola salsa, farina tostata mista a sale, con cui si cospargeva la vittima, da cui il termine immolare. Insomma ogni culto veniva da lì.
In principio le vestali erano tre fanciulle vergini, con turni di guardia al fuoco piuttosto pesanti dunque. Infatti in seguito divennero sei e sorteggiate tra 20 bambine tra i 6 e i 10 anni appartenenti a famiglie patrizie.
LA ESTIA GRECA
Dea greca del focolare domestico, la primogenita di Crono e di Rea, sorella maggiore di Zeus. Il suo culto è antichissimo e il mito è praticamente dimenticato.
Si sa che, corteggiata da Poseidone e da Apollo, la Dea ottenne da Zeus di poter mantenere per sempre la sua verginità, in cambio ottenne grandi onori e il culto in tutte le case degli uomini e nei templi.
Suo attributo è il focolare e il fuoco sacro. Narra ancora il mito che quando Hermes, cioè Mercurio, assurse all'Olimpo, la Dea gli cedette il posto alla mensa degli Dei perchè schiva anche dei banchetti, il che fa pensare a un'antica Dea declassata, una Grande Madre.
Le vestali erano le sacerdotesse di Vesta. A Romolo, primo re di Roma, o al suo successore, Numa Pompilio, è attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia.
In realtà nella leggenda della fondazione di Roma, la madre di Romolo e Remo, Rea Silvia, era già una vestale di Albalonga, quindi il culto era preesistente, come narra Tito Livio. Le Vestali furono dunque trasposte a Roma da Numa Pompilio, che era infatti sabino, subito dopo i Flamini, e prima dei Salii e dei Pontefici.
Il loro compito era di mantenere sempre acceso il fuoco sacro alla Dea, e di preparare gli ingredienti per qualsiasi sacrificio pubblico o privato, come la mola salsa, farina tostata mista a sale, con cui si cospargeva la vittima, da cui il termine immolare. Insomma ogni culto veniva da lì.
In principio le vestali erano tre fanciulle vergini, con turni di guardia al fuoco piuttosto pesanti dunque. Infatti in seguito divennero sei e sorteggiate tra 20 bambine tra i 6 e i 10 anni appartenenti a famiglie patrizie.
LA ESTIA GRECA
Dea greca del focolare domestico, la primogenita di Crono e di Rea, sorella maggiore di Zeus. Il suo culto è antichissimo e il mito è praticamente dimenticato.
Si sa che, corteggiata da Poseidone e da Apollo, la Dea ottenne da Zeus di poter mantenere per sempre la sua verginità, in cambio ottenne grandi onori e il culto in tutte le case degli uomini e nei templi.
Suo attributo è il focolare e il fuoco sacro. Narra ancora il mito che quando Hermes, cioè Mercurio, assurse all'Olimpo, la Dea gli cedette il posto alla mensa degli Dei perchè schiva anche dei banchetti, il che fa pensare a un'antica Dea declassata, una Grande Madre.
VESTA ROMANA
"Per lungo tempo credetti stoltamente che ci fossero statue di Vesta,
ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono affatto statue.
Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio
e Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure il fuoco."
Ovidio - Fasti:
"Io sono Colei che è, e nessun uomo ha mai sollevato il mio velo." cantavano le sacerdotesse della Grande Madre, colei che non poteva essere raffigurata, Per questo Vesta non ebbe mai immagini, era la Dea Primigenia, tanto è vero che i Romani, nell'onorare gli Dei, riservavano al sacrificio a Vesta il primo posto, doveva sempre essere onorata per prima.
"Per lungo tempo credetti stoltamente che ci fossero statue di Vesta,
ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono affatto statue.
Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio
e Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure il fuoco."
Ovidio - Fasti:
"Io sono Colei che è, e nessun uomo ha mai sollevato il mio velo." cantavano le sacerdotesse della Grande Madre, colei che non poteva essere raffigurata, Per questo Vesta non ebbe mai immagini, era la Dea Primigenia, tanto è vero che i Romani, nell'onorare gli Dei, riservavano al sacrificio a Vesta il primo posto, doveva sempre essere onorata per prima.
I Sabini, che seguivano il calendario lunare delle società matriarcali, e sapevano di divinazione e magia, portarono a Roma il culto di Vesta, già onorata ad Albalonga, la corrispondente romana di Estia, e di Quirino che fu associato a Romolo divenendo Romolo Quirito. Alcuni autori hanno supposto che la trasformazione del nome Estia in Vesta derivasse dall'associazione Venus-Estia, legati poi in Vestia (V-Estia) e poi ancora in Vesta, non improbabile perchè anche Venus-Afrodite fu in tempi molto remoti una Dea Madre, esattamente come Estia.
Nel primo giorno dell'anno, una fiaccola portata dal tempio di Vesta portava il fuoco di ogni casa. L'accesso al tempio era vietato agli uomini, con l'eccezione dei Pontifex Maximus, a cui però era interdetto l'accesso al sancta santorum, dove si conservava il "Palladio troiano", la statua di Pallade caduta dal cielo a Troia e condotta a Roma da Enea.
Nel 394 d.c., in seguito alla proibizione della religione romana, il Palladio venne distrutto dall'ultima delle vestali, la gran sacerdotessa di Vesta. Con la sua distruzione, per non farla profanare dai maschi, cade il vero sacerdozio femminile, portatore degli antichi misteri.
"Io sono Colei che è, e nessun uomo ha mai sollevato il mio velo." cantavano le sacerdotesse della Grande Madre, colei che non poteva essere raffigurata, Per questo Vesta non ebbe mai immagini, era la Dea Primigenia, tanto è vero che i Romani, nell'onorare gli Dei, riservavano al sacrificio a Vesta il primo posto, doveva sempre essere onorata per prima.
I Sabini, che seguivano il calendario lunare delle società matriarcali, e sapevano di divinazione e magia, portarono a Roma il culto di Vesta, già onorata ad Albalonga, la corrispondente romana di Estia, e di Quirino che fu associato a Romolo divenendo Romolo Quirito. Alcuni autori hanno supposto che la trasformazione del nome Estia in Vesta derivasse dall'associazione Venus-Estia, legati poi in Vestia (V-Estia) e poi ancora in Vesta, non improbabile perchè anche Venus-Afrodite fu in tempi molto remoti una Dea Madre, esattamente come Estia.
Nel primo giorno dell'anno, una fiaccola portata dal tempio di Vesta portava il fuoco di ogni casa. L'accesso al tempio era vietato agli uomini, con l'eccezione dei Pontifex Maximus, a cui però era interdetto l'accesso al sancta santorum, dove si conservava il "Palladio troiano", la statua di Pallade caduta dal cielo a Troia e condotta a Roma da Enea.
Nel 394 d.c., in seguito alla proibizione della religione romana, il Palladio venne distrutto dall'ultima delle vestali, la gran sacerdotessa di Vesta. Con la sua distruzione, per non farla profanare dai maschi, cade il vero sacerdozio femminile, portatore degli antichi misteri.
"Io sono Colei che è, e nessun uomo ha mai sollevato il mio velo." cantavano le sacerdotesse della Grande Madre, colei che non poteva essere raffigurata, Per questo Vesta non ebbe mai immagini, era la Dea Primigenia, tanto è vero che i Romani, nell'onorare gli Dei, riservavano al sacrificio a Vesta il primo posto, doveva sempre essere onorata per prima.
I Sabini, che seguivano il calendario lunare delle società matriarcali, e sapevano di divinazione e magia, portarono a Roma il culto di Vesta, già onorata ad Albalonga, la corrispondente romana di Estia, e di Quirino che fu associato a Romolo divenendo Romolo Quirito. Alcuni autori hanno supposto che la trasformazione del nome Estia in Vesta derivasse dall'associazione Venus-Estia, legati poi in Vestia (V-Estia) e poi ancora in Vesta, non improbabile perchè anche Venus-Afrodite fu in tempi molto remoti una Dea Madre, esattamente come Estia.
Nel primo giorno dell'anno, una fiaccola portata dal tempio di Vesta portava il fuoco di ogni casa. L'accesso al tempio era vietato agli uomini, con l'eccezione dei Pontifex Maximus, a cui però era interdetto l'accesso al sancta santorum, dove si conservava il "Palladio troiano", la statua di Pallade caduta dal cielo a Troia e condotta a Roma da Enea.
Nel 394 d.c., in seguito alla proibizione della religione romana, il Palladio venne distrutto dall'ultima delle vestali, la gran sacerdotessa di Vesta. Con la sua distruzione, per non farla profanare dai maschi, cade il vero sacerdozio femminile, portatore degli antichi misteri.
Nel 394 d.c., in seguito alla proibizione della religione romana, il Palladio venne distrutto dall'ultima delle vestali, la gran sacerdotessa di Vesta. Con la sua distruzione, per non farla profanare dai maschi, cade il vero sacerdozio femminile, portatore degli antichi misteri.
Templum Vestae
Quell' avanzo rotondo di opera a sacco, circondato alla base da alcuni filari di blocchi di tufo, è la sostruzione del celeberrimo tempio di Vesta.
Vesta, la dea del focolare domestico, fra le divinità della Roma arcaica è una delle più caratteristiche. Ma mentre il culto domestico dell' età posteriore, specialmente dell' impero, sparì al confronto di quello dei penati, il culto invece del focolare pubblico, sacro alla Vesta pubblica populi Romani Quiritium, si mantenne sino agli ulti tempi dell' impero occidentale e sopravvisse finanche alle prime vittorie del cristianesimo. Nell' interno del tempio, che non conteneva alcun simulacro, le vestali custodivano il fuoco sacro, il quale ogni primo di marzo, primo giorno dell' anno romano antichissimo (detto anno di Numa) veniva riacceso con particolari cerimonie. Oltre all' altare, si trovava nel tempio il penus Vestae, luogo chiuso con tappeti (forse una nicchia nella parete), ove erano conservati alcuni simboli misteriosi che stimava pegni della potenza romana: fra essi viene specialmente menzionato il Palladio che Enea, come si credeva, aveva salvato dalle fiamme di Troia.
Quell' avanzo rotondo di opera a sacco, circondato alla base da alcuni filari di blocchi di tufo, è la sostruzione del celeberrimo tempio di Vesta.
Vesta, la dea del focolare domestico, fra le divinità della Roma arcaica è una delle più caratteristiche. Ma mentre il culto domestico dell' età posteriore, specialmente dell' impero, sparì al confronto di quello dei penati, il culto invece del focolare pubblico, sacro alla Vesta pubblica populi Romani Quiritium, si mantenne sino agli ulti tempi dell' impero occidentale e sopravvisse finanche alle prime vittorie del cristianesimo. Nell' interno del tempio, che non conteneva alcun simulacro, le vestali custodivano il fuoco sacro, il quale ogni primo di marzo, primo giorno dell' anno romano antichissimo (detto anno di Numa) veniva riacceso con particolari cerimonie. Oltre all' altare, si trovava nel tempio il penus Vestae, luogo chiuso con tappeti (forse una nicchia nella parete), ove erano conservati alcuni simboli misteriosi che stimava pegni della potenza romana: fra essi viene specialmente menzionato il Palladio che Enea, come si credeva, aveva salvato dalle fiamme di Troia.
L' ingresso al tempio era severamente proibito a tutti gli uomini, ad eccezione del Pontefice Massimo: anche le donne non potevano entrarvi che durante la festa delle Vestalia (7‑15 giugno). Il tempio fu distrutto parecchie volte da incendi, p. es. nel 241 e 210 av. Cr.; poichè allora la costruzione dell' edifizio, che imitava l' antica casa rustica italiana con pareti di vimini e tetto di paglia, forniva abbondante materiale alle fiamme. Ma anche nell' età imperiale, il tempio, costruito tutto di pietra e di metallo, più volte rimase gradementeº danneggiato, p. es. nel terribile incendio sotto Commodo (191 d. Cr.). Settimio Severo e Giulia Domna lo restaurarono e i pezzi di architettura venuti alla luce negli ultimi scavi per la maggior parte appartengono appunto a quel restauro. Nel 394 l' imperatore Teodosio fece chiudere il tempio; nell' ottavo e nono secolo l' edifizio deve esser caduto in rovina, perchè molti de' suoi pezzi furono trovati in un muro medioevale tra il lacus Juturnae e il tempio dei Castori. Al tempo del rinascimento nulla più si sapeva sul vero sito del tempio; quindi il nome "tempio di Vesta" fu attribuito o alla chiesa di S. Teodoro sotto il Palatino, oppure, con assai minore esattezza, al piccolo tempio rotondo presso il Ponte Rotto. Soltanto agli scavi recenti del 1872, 1882 e 1901 si deve la notizia precisa del luogo e della costruzione del santuario.
Fig. 85. Rilievo rappresentante il tempio di Vesta.
(Galleria degli Uffizi, Firenze).
(Galleria degli Uffizi, Firenze).
L' ingresso al tempio era severamente proibito a tutti gli uomini, ad eccezione del Pontefice Massimo: anche le donne non potevano entrarvi che durante la festa delle Vestalia (7‑15 giugno). Il tempio fu distrutto parecchie volte da incendi, p. es. nel 241 e 210 av. Cr.; poichè allora la costruzione dell' edifizio, che imitava l' antica casa rustica italiana con pareti di vimini e tetto di paglia, forniva abbondante materiale alle fiamme. Ma anche nell' età imperiale, il p164tempio, costruito tutto di pietra e di metallo, più volte rimase gradementeº danneggiato, p. es. nel terribile incendio sotto Commodo (191 d. Cr.). Settimio Severo e Giulia Domna lo restaurarono e i pezzi di architettura venuti alla luce negli ultimi scavi per la maggior parte appartengono appunto a quel restauro. Nel 394 l' imperatore Teodosio fece chiudere il tempio; nell' ottavo e nono secolo l' edifizio deve esser caduto in rovina, perchè molti de' suoi pezzi furono trovati in un muro medioevale tra il lacus Juturnae e il tempio dei Castori. Al tempo del rinascimento nulla più si sapeva sul vero sito del tempio; quindi il nome "tempio di Vesta" fu attribuito o alla chiesa di S. Teodoro sotto il Palatino, oppure, con assai minore esattezza, al piccolo tempio rotondo presso il Ponte Rotto. Soltanto agli scavi recenti del 1872, 1882 e 1901 si deve la notizia precisa del luogo e della costruzione del santuario.
Fig. 86. Monete di Augusto e di Giulia Domna.
Il tempio si ergeva sopra una sostruzione rotonda ornata di pilastri; il diametro era di m. 4. La porta d' ingresso guardava verso oriente; alcuni gradini, le cui fondamenta veggonsi tuttora sul posta, conducevano al portico circondante la cella. Questo portico era assai angusto e serviva soltanto di ornamento; gl' intercolumni erano chiusi da cancelli di bronzo, come si vede dalle monete e dai rilievi antichi. In molti pezzi dei fusti delle colonne si scorgono ancora i buchi che sostenevano le aste dei cancelli. Gl' intercolumni dinnanzi la porta della cella erano chiusi mediante porte di legno, le cui impostep165stavano fisse sopra sporgenze di marmo tuttora visibili in alcuni dei fusti.
Il cornicione del tempio era decorato con rilievi rappresentanti istrumenti di sacrifizio ed insegne sacerdotali; il cornicione, i lacunari del portico e il fregio interno della cella, erano di un sol pezzo di marmo lungo quasi tre metri. In tal maniera le colonne del portico e il muro della cella uniti insieme, formavano un appoggio sufficiente per la cupola abbastanza larga (v. fig. 88). Generalmente si p166vuole che la cupola nel mezzo avesse un occhio rotondo: ma le rappresentanze che ci danno le monete, fanno più presto credere che quest' occhio fosse sormontato da una specie di camino di bronzo, forse in forma di un gran fiore, il quale proteggeva l' interno dalle intemperie.
Dal lato posteriore (b, fig. 93: vicino a b presso w sta l' ingresso alla cucina della casa delle Vestali) si può penetrare nell' interno delle fondamenta. Quivi gli scavi p167recenti hanno portato in luce nel centro un pozzo trapezoidale, al quale si è voluto dare il nome di favissa (ripostiglio per arredi sacri e votivi fuori d' uso): la situazione di questo pozzo dimostra che il sacro focolare p168non stava esattamente nel centro della cella. Il pozzo serviva forse per riporvi provvisoriamente le ceneri del fuoco sacro che poi, insieme con l' altra spazzatura del santuario, una volta all' anno (il 15 giugno, ultimo giorno delle Vestalia), venivano portate in un apposito luogo presso il Clivo Capitolino, e quindi gettate nel Tevere.
Fig. 87. Pianta del tempio di Vesta.
E poichè nel tempio non esisteva un simulacro della dea, così durante l' impero fu edificata lì accanto un' edicola per una statua, sorretta da due colonne (il fusto di travertino a sinistra è moderno, come anche il pilastro laterizio a destra). Secondo l' iscrizione dell' architrave, l' edifizio fu restaurato nel principio del secondo secolo d. Cr. dal Senato e dal popolo, col pubblico denaro. Accanto ad esso, pochi gradini di travertino danno accesso alla casa delle Vestali.
Vedi: Varro pr. Gellio XIV, 7, 7; Livius epit. 19; Horatius sat. I, 9, 8; Dionys. II, 66; Ovid. fast. VI, 265; 437‑454; trist. III.I.27; Tacitus ann. XV, 41; Plinius n. h. VII, 141; Plutarch. Numa 11; Herodian. I.14.1; Cassius Dio LXXII, 24; Orosius IV, 11; Notitia reg. VIII.
Jordan I, 2, 293; 421‑423; Auer, Denkschriften der Wiener Akademie 1888, II, 209‑228; Lanciani 225‑228; Boni Noti d. scavi 1900, 159‑191, Atti del Congresso storico 525‑530; Huelsen, R. M. 1902, 86‑90; Vaglieri 55‑69. Le monete: Dressel Zeitschrift für Numismatik 1899, 20‑31.
Fig. 88. Costruzione del tempio di Vesta. |
Atrium Vestae (la casa delle Vestali)
La casa delle Vestali, spaziosa e magnifica, ma chiusa a guisa di un chiostro, trae il nome di Atrium Vestae dalla sua parte più importante; vogliam dire, il gran cortile cinto di colonne. La casa venne quasi per intero scoperta nel 1883‑1884, mentre l' ala occidentale tornò alla luce nel 1901, dopo la demolizione della chiesa di S. Maria Liberatrice.
Fig. 90. Veduta dell' Atrium Vestae. |
Il collegio delle Vestali dapprima si compose di sei e più tardi di sette sacerdotesse, fra le quali dovevano esservi sempre alcune bambine, atteso che l' età per l' ammissione era circoscritta tra il sesto e decimo anno. Venivano scelte dal Pontefice Massimo, col consenso dei parenti, ed avevano l' obbligo, almeno per trent' anni, di rimanere severamente rinchiuse nell' Atrio di Vesta. Fra i vari doveri che a loro spettavano, eravi pur quello di attingere l' acqua santa dalla fonte delle Camene fuori la porta Capena (sulla via Appia, presso S. Sisto Vecchio), nonchè di assistere a molti sacrifici, talvolta congiunti con cerimonie assai complicate. La Vestale che veniva meno a' suoi doveri era severamente punita; così, per esempio, ove avesse lasciato spegnere il fuoco sacro, il Pontefice Massimo la castigava battendola a colpi di verga; se poi avesse mancato al voto di castità, la si seppelliva viva nel Campo Scellerato, che trovavasi nelle vicinanze della porta Collina (luogo corrispondente all' angolo settentrionale del Ministero delle Finanze, in via Venti Settembre). Coteste dure condizioni del sacerdozio, fecero sì che coll' andar del tempo divenisse sempre più difficile il trovare fanciulle che si adattassero ad entrare nell' Ordine, ed anche genitori che vi acconsentissero. L' ammissione tuttavia nell' Ordine, era facilitata dal fatto che mentre nei tempi antichissimi solo le fanciulle patrizie avevano il diritto di servire a Vesta, più tardi tale diritto venne accordato anche a quelle di famiglie plebee, e dopo i tempi di Augusto, persino alle figlie dei libertini. Quando entravano nell' Ordine, spesso ricevevano una dote cospicua; lo stesso Tiberio, noto per la sua parsimonia, donò alla vestale Cornelia due milioni di sesterzi (5,000,000 di lire). Le Vestali non stavano, come tutte le altre donne, sotto la tutela del pater familias, ma potevano disporre de' propri beni e far testimonianza in giudizio, senza prestare il giuramento, che era per chiunque altro obbligatorio.
Una loro raccomandazione era tenuto in grandissimo conto per le promozioni, sì civili come militari; se un reo, condotto al supplizio, s' imbatteva in una Vestale, gli si accordava subito la grazia; al circo, al teatro, all' anfiteatro, esse occupavano posti d' onore. Allorquando andavano attorno per la città, erano precedute da un littore, e gli stessi consoli cedevano loro il passo. Avevano inoltre il diritto, riserbato alle sole imperatrici, di girare in carrozza per le vie di Roma; ed un' offesa fatta alla loro persona, era punita con la morte. Ma non ostante tutti cotesti privilegi, nei secoli posteriori, come rilevano con vera soddisfazione i Padri della Chiesa, difficilmente si trovavano fanciulle che volessero dedicarsi al culto di Vesta, laddove i monasteri cristiani rigurgitavano di vergini a Dio consacrate. Nel 382, Graziano confiscò i beni delle Vestali; la casa poi servì di alloggio agli ufficiali della corte imperiale, e in appresso a quelli della corte pontificia. Dopo l' undecimo secolo l' edifizio fu abbandonato e cadde in rovina.
Quello che tuttora rimane dell' Atrio sopra terra, appartiene all' edifizio imperiale, le cui parti più antiche non sono anteriori al primo secolo dopo Cristo. Delle costruzioni preaugustee, solo pochi avanzi furono rinvenuti circa un metro sotto il livello del gran cortile: sono quasi esclusivamente resti di pavimenti composti di piccoli pezzi di marmo bianco e colorato, il cui orientamento corrisponde alla "Regia vecchia". Certamente l' antica casa delle Vestali aveva dimensioni più modeste di quella del tempo imperiale; accanto ad essa, sotto la pendice del Palatino, si trovava un bosco sacro (Lucus Vestae), il quale poi sparì per i vari ingrandimenti fatti alla casa.
p172Si distinguono nella casa delle Vestali tre gruppi di sale e stanze, appartenenti a diversi periodi; la parte più antica (segnata in nero sulla figura 93) ad oriente del cortile, contiene camere di uffizio o di ricevimento, e sembra costruita nella seconda metà del primo secolo d. Cr.; le due ale a mezzogiorno e a ponente del cortile (segnato a tratteggio scuro, fig. 93) contengono stanze d' alloggio che dovranno attribuirsi alla metà del secondo secolo; finalmente il lato settentrionale, più danneggiato degli altri e con appartamenti meno notevoli, appartiene per avventura ai restauri di Settimio Severo.
Fig. 91. Tempio di Vesta e casa delle Vestali.
Il gran cortile, che può dirsi Atrio ovvero Peristilio, ha ricevuto la forma che oggi vediamo anche in parte dai restauri Severiani. I diversi edifizi anteriori che lo circondavano, avevano piani di altezze differenti; per nascondere queste diversità, il cortile fu circondato da un portico a due file di colonne sovrapposte, ma senza soffitto intermedio. I fusti inferiori delle colonne sono di cipollino, quelli superiori di breccia corallina. Nell' asse longitudinale del cortile si trovano parecchi bacini per l' acqua (i muri sporgenti sopra terra sono modernamente suppliti), anch' essi forse spettanti all' edifizio Severiano. Il più grande di essi (d) venne colmato già quando nel centro del cortile fu eretta una fabbrica di pianta ottagonale, le cui fondamenta, composte di grandi tegoloni quadrati, rimangono tuttora. Probabilmente vi si deve riconoscere una specie di giardino, ultimo ricordo del Lucus Vestae da lungo tempo scomparso. Questo ottagono, come dimostrano i bolli dei mattoni, è dell' età dioclezianea. Il nome di Penus Vestae che gli si è voluto dare, è affatto erroneo.
Ornamento speciale del cortile erano le statue delle Vestali situate nel portico inferiore con apposite iscrizioni alle basi, commemoranti le loro virtù e i loro meriti. Di una sola base, fu trovata la parte inferiore al posto antico (presso la lettera e nell' angolo sud-ovest); quasi tutte le altre furono rinvenute negli ultimi giorni del 1883, nell' estremità occidentale dell' atrio formanti un cumulo, la cui costruzione fece chiaramente riconoscere, che tutte erano destinate a sparire in una calcara medievale. In terra giacevano le basi scritte, messe orizzontalmente; sopra di esse stavano i torsi delle statue, con le braccia, le mani, i piedi e tutte le parti sporgenti mozzate; i frantumi poi erano adoperati per riempire gli interstizi fra i torsi. Di nessuna statua perciò si può indicare la base con l' epigrafe relativa. Le epigrafi, ad eccezione di una sola (Praetextata Crassi filia; in una piccola base che ora sta nel lato settentrionale del cortile) sono posteriori a Severo. Le sacerdotesse, i cui nomi ci vengono rivelati da questi monumenti, e da altri trovati nell' atrio in tempi anteriori (le lapidi segnate con * non si trovano più nell' atrio), sono:
Numisia Maximilla | 201 d. Cr. |
| |||
Terentia Flavola | 209, 213, 215 d. Cr. | ||||
* | Campia Severina | 240. | |||
* | Flavia Mamilia | 242. | |||
Flavia Publicia | 247, 257. | ||||
Coelia Claudiana | 286. | ||||
* | Terentia Rufilla | 300, 301. | |||
C . . . . . | 364. | ||||
* | Coelia Concordia | 384. |
Tutte le statue sono erette a Vestali Massime, chè a queste solamente, e non già alle semplici sacerdotesse, si apparteneva il diritto di avere statue onorarie. L' abbigliamento sacerdotale che indossavano, si componeva di una sottoveste (stola) e di una sorta di mantello (pallium), ambedue di lana bianca. Uno scialle (suffibulum) tenuto da una spilla (fibula) ricopriva loro il capo quasi interamente, lasciando soltanto scoperta la fronte e l' attaccatura dei capelli. Di sotto, all' orlo anteriore dello scialle, appariva la cappigliatura, divisa, secondo la rituale prescrizione, in sei treccie (seni crines), non di capelli propri, sì bene posticci, cui si attorcigliavano nastri di lana nera e rossa. Cotesta arcaica e poco comoda acconciatura portavano le Vestali durante tutta la vita; laddove le donne romane erano obbligate ad adottarla soltanto nel dì delle nozze, quale buon augurio, perocchè la sposa doveva mantenere la fedeltà al marito, nella stessa guisa che le sacerdotesse alla dea. La meglio conservata fra le statue dell' atrio mostra sul petto i resto di un monile in bronzo (catenella e medaglione), il quale non sembra facesse parte dell' abbigliamento ufficiale, ma sì bene fosse una speciale distinzione. Merita pure di esser notata tra le statue del cortile, quella di un uomo (imperatore?), la cui barba di marmo era mobile. Le altre imagini delle Vestali, e specialmente le migliori rispetto all' arte, vennero trasferite al Museo delle Terme Diocleziane.
L' ala settentrionale della casa, per essere assai danneggiata, non permette di decidere a quale scopo servissero le singole camere. Nella stanza posta nell' estremità est (f), sono stati trovati sotto il livello dell' età imperiale, avanzi di un' ara quadrata, composta di ceneri e di resti di sacrifizi, l' orientamento della quale corrisponde alle menzionate costruzioni antiche sotto il cortile. Il vano che le sta daccanto con nicchie nelle pareti, sembra essere stato un cortile o un triclinio estivo. Dinanzi all' ingresso, verso il cortile, si vede una base di marmo con l' iscrizione: Flaviae L(uci) f(iliae) Publiciae, religiosae sanctitatis v(irgini) V(estali) max(imae), cuius egregiam morum disciplinam et in sacris peritissimam operationem merito in dies respublica feliciter sentit, Ulpius Verus et Aur(elius) Titus (centuriones) deputati ob eximiam eius erga se benivolentiam g(rati)p(osuerunt). La statua quindi era dedicata alla Vestale Massima, Flavia Publicia "la cui immacolata castità e profonda conoscenza di tutte le cerimonie, vengono giornalmente riconosciute dallo Stato pei loro felici successi" (un' altra iscrizione celebra la medesima Vestale per la ragione che essa "in tutti i gradi del sacerdozio, inserviente agli altari di tutti i numi e custodendo il sacro fuoco con pio animo giorno e notte, era meritamente pervenuta al suo alto posto"). I dedicanti erano duecenturiones deputati (ufficiali che, come i corrieri delle ambasciate moderne, facevano il servizio fra il governo centrale di Roma e le amministrazioni delle singole provincie), i quali avevano ottenuto per l' intercessione della sacerdotessa, una promozione o una onorificenza (petito eius ornatus, dice in un' altra epigrafe posta alla Vestale Campia Severina un tribuno della prima coorte aquitanica).
Il lato orientale è forse anteriore all' incendio Neroniano: nelle sue mura non sono stati trovati mattoni con bolli. Quattro gradini conducono in una sala (appellata comunemente tablinum) già coperta con una vôlta a botte: il pavimento di marmi colorati è stato restaurato rozzamente in un tempo tardo. Da ambedue i lati della sala si aprono tre celle (i, fig. 93; ora in parte servono da magazzino per sculture), credute a torto stanze di alloggio per le sacerdotesse. Ma poichè il numero senario difficilmente sarà casuale, così alcuni credono che queste celle abbiano formato una specie di sagrestia, e che ognuna delle Vergini abbia avuto la sua cella per conservarvi i vestiti ed arredi sacri. Accanto alle stanze a destra si trova un cortile scoperto (k, ora chiuso al pubblico) con una fontana ornata di nicchie per statue. In quel vano sotterraneo a vôlta, che si appoggia alla parete di fondo delle celle, furono rinvenuti parecchi vasi di terracotta, in parte di forma arcaica.
Nel lato meridionale, dinanzi le camere passa un corridoio. Le prime stanze sono fortemente alterate da muri di un' età tarda innestativi. La prima camera (l) si tiene per un forno, nella seconda (m) sta un mulino di lava ben conservato. Ambedue le camere hanno il pavimento rialzato circa 70 cm. sopra quello del corridoio: un simile rialzamento si osserva nella quarta stanza (n), ove sopra il pavimento primitivo fu messo un altro, sorretto da un 'vespaio' di mattoni, per ripararlo dall' umidità. Un pavimento di mattoni, nello stesso livello più alto del corridoio, si trovava anche, fino al 1899, nella stanza quinta (o): quando esso fu tolto, si scoprì un bellissimo pavimento di opus sectile marmoreo, forse appartenente al secondo secolo d. Cr.
Presso a questa camera, una scala conduce ai piani superiori (chiusi da un cancello), ove si trovano gli appartamenti delle sacerdotesse. Si entra in un corridoio fiancheggiato a destra da parecchie stanze da bagno, con gli apparecchi pel riscaldamento (le bocche delle stufe si vedono in un andito angusto dietro alle vasche). Quindi voltando a sinistra si passa accanto ad una fontana con bacino di marmo ed arrivasi ad alcune camere situate sopra e dietro il tablinum, dalle quali si gode una bella veduta non solo su tutta la casa, ma sulla Sacra Via fino alla basilica di Costantino. Ivi rimane pure il principio di una scala conducente ad un piano più alto ancora, e poichè già ci troviamo al terzo piano (compreso il mezzanino sopra il pianterreno), così è da tenere che la casa avesse per lo meno quattro piani, e verso il Palatino probabilmente cinque; donde inoltre s' inferisce che era assai spaziosa per le sei sacerdotesse e la loro numerosa servitù. — Ed ora ritorniamo alla scala (a sinistra, presso p, una porticina mena alla Nova Via), e per essa al pianterreno.
Nell' ala meridionale, passata la porta q, rientriamo nel corridoio, ove si vedono avanzi di un bel pavimento di marmo;a sinistra si trova una stanza (r), col pavimento rialzato e con un muro parallelo alla parete di fondo, inserito in appresso per riparare il vano dall' umidità; dirimpetto all' ingresso sta una base esagona di marmo, con iscrizione onoraria a Flavia Publicia. Dall' altra parte, attigua al corridoio è una camera, nella quale recentemente fu scoperto un bellissimo pavimento di vari marmi: giallo, portasanta, pavonazzetto ecc. Nell' angolo in fondo a destra, una porta (presso s) dà accesso ad un andito stretto, sotto il cui pavimento nel 1899 furono trovate 397 monete d' oro dell' ultimo periodo dell' Impero occidentale. La maggior parte di esse appartiene al regno dell' imperatore Antemio (467‑472); vi sono 345 pezzi col ritratto suo e dieci con quello di sua moglie Eufemia; e perciò è da credere che il ripostiglio, forse nel 472, allorquando le orde di Ricimero presero e saccheggiarono Roma, fosse nascosto da un impiegato della corte imperiale, il quale aveva la sua dimora nella casa delle Vestali. Le monete ora si conservano al Museo delle Terme Diocleziane.
All' estremità dell' ala meridionale, due scale mettono al piano superiore; nella parete del piccolo vestibolo a piè della scala si trova una nicchia per un' immagine sacra cui è attigua una sala con abside (u), il pavimento della quale è stato rappezzato rozzamente nel principio del medio evo.
Nell' angolo nord-ovest del cortile (presso v) sono tre grandi basi di marmo, scavate precisamente in quel luogo nel 1883. Esse avevano servito per materiale da costruzione in una casupola medioevale. Sotto il pavimento di mattoni di una delle camere, fu rinvenuto un vaso di terracotta con 835 monete, delle quali 830 erano di conio anglo-sassone e portavano i nomi dei re Alfredo il Grande (876‑904), Edoardo I (900‑924), Athelstan (924‑940; questi sono i più numerosi), Edmondo I (940‑946), e i nomi altresì di alcuni arcivescovi di Canterbury. Questo ripostiglio rappresenta un obolo di S. Pietro, spedito, come sovente accadeva, dal secolo ottavo in poi a Roma, dai Britanni cristiani. Insieme con le monete stava nel vaso una fibula d' argento con l' iscrizione: Domno Marino papa. Tali fibule servivano come insegne di ufficiali superiori della corte pontificia nel medio evo; e quindi è da credere che un impiegato del papa Marino II (942‑946) avesse quivi nascosto il tesoro a lui affidato, forse per ripararlo in occasione di una delle scorrerie dei Saraceni allora frequenti. Anche queste monete ora sono conservate nel Museo delle Terme.
La base di marmo che sta più vicino all' ingresso, secondo attesta l' apposita iscrizione, sosteneva una statua dedicata dal collegio dei pontefici sotto la presidenza del Pontefice massimo Macrinio Sossiano, ad una Vestale Massima "erettale per la sua castità e moralità, non meno che per l' ammirevole sua pratica nei sacrifizi e nelle cerimonie". Il nome della sacerdotessa è abraso con molta cura, di modo che non ne resta leggibile se non la sola lettera prima C. Quale sarà stata la cagione di questa condanna della memoria di lei? La data incisa sul alto destro della lapide (9 giugno 364 d. Cr. "sotto il consolato del Divo Ioviano — successore di Giuliano l' Apostata, che regnò soli otto mesi — e Varroniano") ci addita un tempo in cui i seguaci del paganesimo cercavano, con grande energia, a ravvivare di nuovo il culto dei numi antici e durante il quale tra cristiani e pagani erano contese molto vivaci. Se in un tempo come quello, una Vestale fosse stata condannata per una grave colpe commessa contro la castità, un tal fatto eccezionale nelle nostre fonti contemporanee — che sono assai numerose — certamente non sarebbe passato sotto silenzio. È molto più probabile che questa Vestale sia uscita dall' Ordine per volontà propria. Ora il poeta cristiano Prudenzio, che scrisse sotto Teodosio, celebrando i trionfi del cristianesimo, dice: "il Pontefice depone la benda sacerdotale e riceve la croce, e la Vestale Claudia entra nel tuo santuario, o Lorenzo" (vittatus olim pontifex adscitur in signum crucis aedemque Laurenti tuam Vestalis intrat Claudia). Onde è molto verisimile che la Vestale, il cui nome appunto comincia con una C, sia proprio quella che, deposto il sacerdozio di Vesta, si era fatta monaca in uno dei conventi presso S. Lorenzo fuori le mura. Naturalmente allora i pontefici vollero cancellare il suo nome dalla base onoraria.
Ritorniamo per la porta c (a destra accanto la scala si vedono i resti di una camera con suspensurae per il riscaldamento sotto il pavimento), e passiamo dietro al tempio, ove, presso w, è l' ingresso alla cucina e alla dispensa della casa delle Vestali (la comunicazione esistita in tempi antichi fra essa e il cortile, ora è interrotta). Passata un' anticamera, si entra nella cucina ove a destra sta il grande focolare: dietro alla cucina è la dispensa (y) ora chiusa con un cancello, nella quale furono trovate molte anfore, piatti, catinelle ed altri vasi da cucina. Vi fu anche rinvenuto un gran serbatoio di piombo per l' acqua. In uno dei vasi si trovò un pezzo di focaccia carbonizzata, ma ben conservato.
Le camere nel lato esteriore dell' ala settentrionale (zzz), secondo la loro pianta e costruzione, fanno parte della casa delle Vestali, con la quale tuttavia non stanno in nessuna comunicazione. Ivi forse, almeno nel pianterreno, si trovavano botteghe d' affittare (tabernae), le quali, lungo la continuazione della Sacra Via, erano assai numerose. Sotto i muri laterizi dell' età imperiale sono tornati alla luce molti avanzi di costruzioni più antiche di tufo e travertino (pareti con resti di affreschi, pavimenti composti di piccoli pezzetti di marmo, mezze colonne con basi e un gran canale di tufo per lo scolo delle acque). L' orientamento di questi avanzi corrisponde a quello della Regia e delle costruzioni antiche sotto il cortile della casa delle Vestali.
LE VESTALI
La nascita dell’ordine sacerdotale delle Vestali
È opportuno sottolineare che a Roma il vestalato era l’unico collegio sacerdotale rigorosamente femminile; gli altri, tre in tutto (quello dei Pontefici, degli Auguri e dei Decemviri), erano maschili e ad essi erano deputati compiti inconciliabili, secondo i Romani, con la figura femminile: la lettura dei testi sacri, l’interpretazione corretta della voluntas deorum, la macellazione rituale e, più in generale, le pratiche sacerdotali. Vero è che la donna è sempre stata il ricettacolo privilegiato dei signa divini, ma, secondo il mondo romano, non aveva accesso ai codici interpretativi degli stessi segnali che gli dèi le inviavano.
All’inizio le Vestali erano tre o quattro fanciulle vergini, che diventeranno in seguito sei, sorteggiate all’interno di un gruppo di 20 bambine di età compresa fra i 6 e i 10 anni, tutte appartenenti esclusivamente a famiglie patrizie e tutte scelte in un’epoca della vita, l’infanzia, contraddistinta dalla purezza.
L’ingresso al sacerdozio: la captio
Non tutte le fanciulle potevano accedere al nostro sacerdozio istituito, secondo Plutarco, da Numa(Plut., Num. 9.10, Gell., noct. Att. 1.12.10, e Ov., fast. 6.257-261).
Il re avrebbe creato dapprima due Vestali, alle quali in seguito ne avrebbe aggiunte altre due(Plut., Num. 10.1).
La scelta della giovane novizia, di competenza del rex e poi dal pontefice massimo, veniva effettuata quando la fanciulla era ancora lontana dalla pubertà, tra i sei e i dieci anni(ciò aveva lo scopo di assicurare che la fanciulla, al momento del suo ingresso nel sacerdozio, fosse pura e illibata e conseguentemente di evitare che ella potesse essere causa di inquinamento dell’ordine).
Aulo Gellio elenca minuziosamente altri requisiti, fisici e giuridici (Gell., noct. Att. 1.12.1-4), imprescindibili affinché le Vestali esercitassero le loro funzioni: non dovevano appartenere a famiglie che svolgessero mansioni ignobili, né essere orfane di padre o di madre, né essere figlie di liberti. Si richiedeva, invece, che facessero parte di una famiglia libera, onorata e non oggetto di emancipazioni. Dovevano essere prive, inoltre, di qualunque difetto fisico, come quello relativo alla parola o all’udito, dal momento che «ascoltare» o «comunicare» erano prerogative fondamentali per poter espletare i loro compiti quotidiani, quali le preghiere.
Ma come avveniva materialmente la captio: la fanciulla, seduta in braccio al padre, aspettava l’avvicinarsi del pontefice che l’afferrava per mano e, strappandola al padre (Gell., noct. Att. 1.12.13) la conduceva nell’Atrium Vestae dopo aver pronunciato le seguenti parole:
“Per celebrare i riti sacri che la regola prescrive di celebrare a una Vestale per il popolo romano e i Quiriti, in quanto scelta secondo la più pura delle leggi, per questa purezza io prendo te, Amata, come sacerdotessa Vestale”.
Era la captio a conferire alla vergine autorità, a interrompere la patria potestas, a qualificarla tecnicamente come sacerdotessa.
Privilegi delle sacerdotesse
Ella poteva così disporre liberamente dei suoi beni, sia inter vivos che mortis causa : lei e la sua famiglia costituivano ormai due entità separate, tali da non poter vantare – l’una nei confronti dell’altra – diritti patrimoniali. Ogni ingerenza privatistica sulla vergine era esclusa. Pertanto, la Vestale non poteva ereditare da un consanguineo morto intestato e nessuno poteva ereditare da lei se fosse morta senza aver predisposto un testamento. Rientrava infatti nel suo diritto decidere dei propri beni ma, qualora non lo facesse, il patrimonio veniva devoluto al populus Romanus e non più alla sua gens, come sarebbe avvenuto in un caso di ordinaria emancipazione.
Il ruolo di donna indipendente consentiva alla virgo Vestalis inoltre di acquistare, affittare, alienare terre e manomettere i propri schiavi; in particolare, il potere di amministrare e di disporre liberamente delle sue proprietà.
Accanto ai privilegi giuridici e finanziari,
La Vestale più anziana aveva il titolo di Virgo Vestalis Maxima.
Atteneva piuttosto al loro ruolo sacerdotale il diritto di chiedere la grazia per il condannato a morte che avessero incontrato per caso e quello di essere seppellite entro il pomerium, lo spazio sacro e inviolabile della città di Roma, poiché le Vestali erano espressione di una sacralità che si estendeva anche alle loro ceneri.
I doveri delle virgines
Le Vestali, alternandosi, dovevano sorvegliare che il fuoco sacro, simbolo della continuità della vita, ardesse costantemente nell’Atrium Vestae.
L’aedes vestae veniva solennemente scopata una volta all ‘anno, il 15 giugno. Quel giorno, dice Varrone (L. L. 6, 32), è chiamalo Quando) Stercus) D(elatum) F(as) ; Io stercus scopato viene trasportato, passando per il clivus Capitolinus, in un luogo determinato; Festo precisa: lo stercus di cui si è ripulito il santuario viene portato nel vicolo cieco che si trova pressappoco a metà del clivus Capitolinus (in angiportum medium fere clivi C.), chiuso dalla Porta Stercoraria. Infine, stando alle parole di Ovidio, quei purgamina Vestae finivano nelle acque del Tevere (F. 6, 7 1 3-7 14).
Durante i giorni di ripulitura solenne, dal 7 al 15 giugno, l’accesso all’edificio era consentito alle donne, che vi entravano scalze. Al di fuori di questo periodo, solo le Vestali e il pontefice massimo vi erano ammessi, e inoltre il luogo più sacro, il penus, era vietato al pontefice.
Ecco come Verrio Fiacco, seguendo Veranio definisce quella muries: è una salamoia preparata con sale non raffinato, sminuzzato nel mortaio, versato in un vaso di terra, poi coperto di gesso e cotto nel forno; in seguito le vergini Vestali lo tagliano con una sega di ferro, e lo gettano nella parte esterna del penus dell’aedes Vestae; esse vi aggiungono poi acqua sorgiva, o comunque acqua non proveniente dall’acquedotto, e infine utilizzano il composto nei sacrifici.
Le Vestali dovevano tenere sempre acceso il fuoco sacro e continuamente alimentarlo, perché nella continuità del fuoco acceso si manifestava la vita della città. Loro compito era anche preparare una focaccia di farro, chiamata “mola salsa”, successivamente offerta agli dèi nelle cerimonie solenni e con cui si cospargeva il corpo della vittima da sacrificare (da cui il verbo “immolare”). Inoltre, in occasione della festa dei Fordicidia (15 aprile), preparavano il suffimen, miscuglio di ceneri di feti di mucche gravide, sangue di cavallo e paglia di fava, dotate di potenti effetti generativi, per distribuirle successivamente durante i Parilia, feste di purificazione primaverile e di fertilità, che si celebravano il 21 aprile.
Il primo giorno dell’anno (1 marzo)
In questi casi la Vestale non poteva essere perdonata, ma neppure uccisa da mani umane, in quanto sacra alla dea.
Se perdeva la verginità la Vestale veniva dunque frustata e poi vestita di abiti funebri e velata. “Veniva portata sui feretri destinati al trasporto dei defunti in lugubre pompa” (Dionigi di Alicarnasso, “Antichità romane”, II, 67) o su una lettiga chiusa e protetta da sguardi indiscreti (Plutarco). Secondo il racconto di Dionigi, dunque, la Vestale veniva seguita da un corteo (pompa funebre): è quello dei parenti in lacrime, che, benché lei sia ancora viva, già la piangono come morta.
Nella descrizione di Plutarco (Vite parallele, Numa, X, 10-11), “la portano attraverso il Foro; tutti si ritraggono in silenzio e l’accompagnano muti con una terribile costernazione; e non c’è spettacolo più agghiacciante, né giorno più lugubre per la Città”.
La sua meta era il Campus sceleratus,
e il conseguente culto affondano le loro radici nella leggenda della fondazione di Roma, nel 753 a.C. Ricordiamo tutti che la madre dei gemelli Romolo e Remo, Rea Silvia, era una vestale di Albalonga che li partorì dopo un amplesso con Marte, dio della guerra. Le fonti concordano sul fatto che Rea Silvia era figlia di Numitore, re di Alba Longa, il cui trono fu usurpato dal fratello Amulio che, non pago dell’usurpazione, uccise i figli maschi del fratello e costrinse la figlia, Rea, appunto, a consacrarsi a Vesta, la dea del focolare domestico, affinché non potesse generare dei figli che minacciassero il suo trono.
Il voto di castità
Le Vestali, infatti, erano legate per trent’anni al voto di castità. Ma sul responsabile della gravidanza le opinioni divergono in maniera sensibile: secondo Floro e Plutarco, Rea Silvia era ambita dal dio Marte che la sedusse, ingravidandola; secondo Livio, la giovane donna fu violentata da uno sconosciuto e per la vergogna raccontò di essere stata sedotta dal dio Marte; secondo Dionigi di Alicarnasso, invece, Rea Silvia venne ingravidata da suo zio Amulio. Quale che fosse stato il responsabile, comunque, resta la generica condanna ad essere uccisa, o la prigionia fino alla morte per stenti, entrambe inflitte per ordine dello zio.Numa Pompilio
Fu il secondo re di Roma, Numa Pompilio, che istituì i fondamenti della religio romana e pose le basi del culto romano della dea Vesta- l’antica Estia greca- con i riti che vi si accompagnavano.È opportuno sottolineare che a Roma il vestalato era l’unico collegio sacerdotale rigorosamente femminile; gli altri, tre in tutto (quello dei Pontefici, degli Auguri e dei Decemviri), erano maschili e ad essi erano deputati compiti inconciliabili, secondo i Romani, con la figura femminile: la lettura dei testi sacri, l’interpretazione corretta della voluntas deorum, la macellazione rituale e, più in generale, le pratiche sacerdotali. Vero è che la donna è sempre stata il ricettacolo privilegiato dei signa divini, ma, secondo il mondo romano, non aveva accesso ai codici interpretativi degli stessi segnali che gli dèi le inviavano.
All’inizio le Vestali erano tre o quattro fanciulle vergini, che diventeranno in seguito sei, sorteggiate all’interno di un gruppo di 20 bambine di età compresa fra i 6 e i 10 anni, tutte appartenenti esclusivamente a famiglie patrizie e tutte scelte in un’epoca della vita, l’infanzia, contraddistinta dalla purezza.
La consacrazione al culto, officiata dal Pontefice Massimo, avveniva tramite la captio o “cattura”, un rito che, seppur in maniera simbolica, traslava il rapimento della sposa alla madre perché fosse affidata al marito. Dopo che il Pontefice aveva pronunciato la frase di rito “Ego te, Amata, capio” (“Io ti prendo, Amata”) le fanciulle erano consacrate a Vesta. Abbiamo specificato che il “passaggio di consegne” terminava con l’affido al Pontefice Massimo (il marito, nella cerimonia nuziale) e non casualmente, poiché le Vestali erano sottoposte all’autorità del Pontefice Massimo come la sposa al marito e a lui dovevano rispondere se avessero mancato ai loro doveri.
L’ingresso al sacerdozio: la captio
Non tutte le fanciulle potevano accedere al nostro sacerdozio istituito, secondo Plutarco, da Numa(Plut., Num. 9.10, Gell., noct. Att. 1.12.10, e Ov., fast. 6.257-261).
Il re avrebbe creato dapprima due Vestali, alle quali in seguito ne avrebbe aggiunte altre due(Plut., Num. 10.1).
La scelta della giovane novizia, di competenza del rex e poi dal pontefice massimo, veniva effettuata quando la fanciulla era ancora lontana dalla pubertà, tra i sei e i dieci anni(ciò aveva lo scopo di assicurare che la fanciulla, al momento del suo ingresso nel sacerdozio, fosse pura e illibata e conseguentemente di evitare che ella potesse essere causa di inquinamento dell’ordine).
Aulo Gellio elenca minuziosamente altri requisiti, fisici e giuridici (Gell., noct. Att. 1.12.1-4), imprescindibili affinché le Vestali esercitassero le loro funzioni: non dovevano appartenere a famiglie che svolgessero mansioni ignobili, né essere orfane di padre o di madre, né essere figlie di liberti. Si richiedeva, invece, che facessero parte di una famiglia libera, onorata e non oggetto di emancipazioni. Dovevano essere prive, inoltre, di qualunque difetto fisico, come quello relativo alla parola o all’udito, dal momento che «ascoltare» o «comunicare» erano prerogative fondamentali per poter espletare i loro compiti quotidiani, quali le preghiere.
Ma come avveniva materialmente la captio: la fanciulla, seduta in braccio al padre, aspettava l’avvicinarsi del pontefice che l’afferrava per mano e, strappandola al padre (Gell., noct. Att. 1.12.13) la conduceva nell’Atrium Vestae dopo aver pronunciato le seguenti parole:
“Per celebrare i riti sacri che la regola prescrive di celebrare a una Vestale per il popolo romano e i Quiriti, in quanto scelta secondo la più pura delle leggi, per questa purezza io prendo te, Amata, come sacerdotessa Vestale”.
Era la captio a conferire alla vergine autorità, a interrompere la patria potestas, a qualificarla tecnicamente come sacerdotessa.
Quest’ultima cessava di appartenere al padre e, almeno per trent’anni, durata del suo sacerdozio, non sarebbe potuta essere di nessun altro uomo.
Abbigliamento delle Vestali
All’inizio del sacerdozio, alla vestale erano tagliati i capelli, che venivano offerti ad un arbor elix, cioè un albero che portava frutti commestibili; questa offerta era poi rinnovata. Ci si è posti il problema se le vestali dovessero portare sempre i capelli corti, ma le opinioni sono divergenti. L’abito era costituito da una tunica bianca detta stola carbasina, appartenente alla specie della tunica recta, portata dalle spose e dai tirones. Sulla stola si metteva un mantello che, col tempo, sostituì il suffibulum, indumento bianco, bordato, quadrato, che si poneva sul capo durante i sacrifici, ed era fissato da una fibula, donde il nome. Quando le vestali espletavano i loro uffici religiosi, il mantello veniva rimboccato sul capo. La veste era stretta in vita da un cordoncino di lana annodato con il nodo di Ercole.
Tra gli abiti delle vestali compariva, nei tempi più antichi ed in particolari circostanze, la toga, che poteva essere usata anche dalla novella sposa insieme alla tunica. Al collo la vestale portava una striscia di stoffa cui era appesa una ricca bulla tempestata di gemme. I capelli erano spartiti, come avveniva anche per le spose, in sei trecce e coperti con l’infula, che fasciava la fronte e da cui pendevano le vittae, sorta di nastri che potevano scendere fino al seno.
Le Vestali erano riconoscibili, oltre che per le vesti, anche per un’elaborata acconciatura a trecce, i “seni crines”
All’inizio del sacerdozio, alla vestale erano tagliati i capelli, che venivano offerti ad un arbor elix, cioè un albero che portava frutti commestibili; questa offerta era poi rinnovata. Ci si è posti il problema se le vestali dovessero portare sempre i capelli corti, ma le opinioni sono divergenti. L’abito era costituito da una tunica bianca detta stola carbasina, appartenente alla specie della tunica recta, portata dalle spose e dai tirones. Sulla stola si metteva un mantello che, col tempo, sostituì il suffibulum, indumento bianco, bordato, quadrato, che si poneva sul capo durante i sacrifici, ed era fissato da una fibula, donde il nome. Quando le vestali espletavano i loro uffici religiosi, il mantello veniva rimboccato sul capo. La veste era stretta in vita da un cordoncino di lana annodato con il nodo di Ercole.
Tra gli abiti delle vestali compariva, nei tempi più antichi ed in particolari circostanze, la toga, che poteva essere usata anche dalla novella sposa insieme alla tunica. Al collo la vestale portava una striscia di stoffa cui era appesa una ricca bulla tempestata di gemme. I capelli erano spartiti, come avveniva anche per le spose, in sei trecce e coperti con l’infula, che fasciava la fronte e da cui pendevano le vittae, sorta di nastri che potevano scendere fino al seno.
Le Vestali erano riconoscibili, oltre che per le vesti, anche per un’elaborata acconciatura a trecce, i “seni crines”
(letteralmente ciocche o riccioli divisi per 6), ricadenti in tre grossi boccoli ai due lati del capo, portati attorcigliati sulla testa e sormontati da un’infula (benda sacra) che girava in più spire e terminava in due bende finali, che ricadevano sulle spalle. Il tutto era coperto da un velo quadrangolare (suffibulum), fissato da un spilla (fibula). Il suo corrispettivo nel privato era il flammeum, ovvero il velo rosso fiamma indossato dalle spose. Inutile ricordare che il verbo “nubere” significava “velare le spose” con il flammeum.
Eppure, pur senza essere nuptae (sposate) o nubendae (da sposare), le Vestali indossavano il velo, solo che non era rosso fiamma, ma bianco. La veste indossata dalle sacerdotesse (carbasus) era bianca e altrettanto bianca era la tunica recta, lunga e senza maniche, che indossavano le spose romane (stola carbasina). Ad essa si aggiungeva una cintura (cingulum), che teneva annodata la veste delle Vestali, e che nelle spose, invece, veniva sciolta dal marito durante la prima notte di nozze.
All’ atto della consacrazione le Vestali venivano rasate
Eppure, pur senza essere nuptae (sposate) o nubendae (da sposare), le Vestali indossavano il velo, solo che non era rosso fiamma, ma bianco. La veste indossata dalle sacerdotesse (carbasus) era bianca e altrettanto bianca era la tunica recta, lunga e senza maniche, che indossavano le spose romane (stola carbasina). Ad essa si aggiungeva una cintura (cingulum), che teneva annodata la veste delle Vestali, e che nelle spose, invece, veniva sciolta dal marito durante la prima notte di nozze.
All’ atto della consacrazione le Vestali venivano rasate
e i loro capelli venivano appesi all’ arbor capillata. Si trattava di un albero antichissimo sulla cui esistenza abbiamo una testimonianza importante, quella di Plinio il Vecchio, che, nella sua “Naturalis Historia” (XVI, 235) ci informa che si trattava di “un albero di loto assai antico, detto capillato, perché ad esso vengono portate le chiome delle vergini Vestali”. Il taglio dei capelli è, di tutta evidenza, un rito iniziatico e rimanda alla memoria il taglio dei capelli delle fanciulle romane che escono dall’infanzia e si preparano al matrimonio. E anche questo è manifestamente un segno di corrispondenza tra la figura della vestale e quella della sposa. Perché la Vestale è vergine (virgo), ma contiene in sé elementi, di cui col tempo si è perso il significato, proprio come accade col matrimonio romano- che permettono l’instaurazione di evidenti analogie con riti di fertilità che appartengono al matrimonio e non allo stato di illibatezza cui esse erano costrette.
Le Vestali non vivevano in una situazione di clausura, come siamo forse indotti ad immaginare ma erano invece libere, anche nei rapporti sociali.
Privilegi delle sacerdotesse
Ella poteva così disporre liberamente dei suoi beni, sia inter vivos che mortis causa : lei e la sua famiglia costituivano ormai due entità separate, tali da non poter vantare – l’una nei confronti dell’altra – diritti patrimoniali. Ogni ingerenza privatistica sulla vergine era esclusa. Pertanto, la Vestale non poteva ereditare da un consanguineo morto intestato e nessuno poteva ereditare da lei se fosse morta senza aver predisposto un testamento. Rientrava infatti nel suo diritto decidere dei propri beni ma, qualora non lo facesse, il patrimonio veniva devoluto al populus Romanus e non più alla sua gens, come sarebbe avvenuto in un caso di ordinaria emancipazione.
Il ruolo di donna indipendente consentiva alla virgo Vestalis inoltre di acquistare, affittare, alienare terre e manomettere i propri schiavi; in particolare, il potere di amministrare e di disporre liberamente delle sue proprietà.
Accanto ai privilegi giuridici e finanziari,
la Vestale godeva di numerosi privilegi sociali: soleva attraversare la città in un carpentum, una carrozza a due ruote che le conferiva grande prestigio(Tac., ann. 12.42.2, e Prud., contr. Symmach. 2.1086), e, come i magistrati e le persone particolarmente influenti, era preceduta da un littore che liberava la via prima del suo passaggio; i magistrati, qualora l’avessero incontrata, avrebbero dovuto cederle il passo e prendere un’altra direzione; se non potevano evitare l’incontro, erano tenuti ad abbassare i fasci (Sen., contr. 6.8). Le Vestali, ancora, assistevano alle rappresentazioni sedute nelle prime file, di fronte ai pretori e agli spettacoli gladiatori.
A differenza delle altre donne,
relegate entro le mura domestiche, dedite alle cure parentali e tradizionalmente alla filatura della lana, le Vestali avevano la possibilità di uscire in lettiga e godevano di privilegi superiori a quelli delle donne romane.
Tra questi la possibilità di ereditare e di firmare contratti senza l’ausilio di un tutor, come accadeva per le altre donne, e di essere affrancate dalla patria potestà (erano sui iuris), quando fossero entrate nel Collegio sacerdotale.
In epoca repubblicana, erano le uniche donne romane che potevano fare testamento.
Potevano testimoniare senza giuramento e i magistrati cedevano loro il passo e facevano abbassare i fasci consolari al loro passaggio.
Custodi a loro volta, grazie all'inviolabilità del tempio e della loro persona, di testamenti e trattati.
Potevano testimoniare senza giuramento e i magistrati cedevano loro il passo e facevano abbassare i fasci consolari al loro passaggio.
Potevano rendere testimonianza senza giuramento e venivano rispettate anche dai magistrati, che facevano abbassare i fasci consolari in segno di omaggio al loro passaggio. Presenziavano anche agli eventi pubblici e godevano dei posti d’onore.
Potevano anche chiedere la grazia per il condannato a morte che avessero incontrato casualmente e venivano sepolte entro il pomerio, perchè anche le loro ceneri erano sacre.
Potevano anche chiedere la grazia per il condannato a morte che avessero incontrato casualmente e venivano sepolte entro il pomerio, perchè anche le loro ceneri erano sacre.
La Vestale più anziana aveva il titolo di Virgo Vestalis Maxima.
Atteneva piuttosto al loro ruolo sacerdotale il diritto di chiedere la grazia per il condannato a morte che avessero incontrato per caso e quello di essere seppellite entro il pomerium, lo spazio sacro e inviolabile della città di Roma, poiché le Vestali erano espressione di una sacralità che si estendeva anche alle loro ceneri.
Il servizio aveva una durata di 30 anni: nei primi dieci erano considerate novizie, nel secondo decennio erano addette al culto, mentre gli ultimi dieci anni erano dedicati all’istruzione delle novizie. In seguito erano libere di abbandonare il servizio e sposarsi. L’esperienza matrimoniale non era, per quanto singolare appaia, l’inevitabile sbocco di una vita da Vestale. Considerata l’infelicità della scelta per alcune di loro, sempre più, col passare del tempo, le vergini vestali continuarono ad abitare nella loro abitazione e a praticare la castità.
Le uniche colpe che potevano sovvertire questo statuto di assoluta inviolabilità erano lo spegnimento del fuoco sacro e le relazioni sessuali, che venivano considerate sacrilegio imperdonabile (incestus), in quanto la loro verginità doveva durare per tutto il tempo del servizio nell’ordine.
Atrium Vestae, il centro dell’attività religiosa delle Vestali era l’Atrium Vestae, un corpo unico costituito dal tempio circolare e dalla casa delle Vestali, con le abitazioni delle sacerdotesse e il penus, la dispensa, protetta dagli dèi Penati, gli dèi del penus, appunto.
Il penus era presente anche nel tempio: era diviso in penus exterior e intimus, quest’ ultimo circondato da stuoie, dove erano raccolti i talismani di Roma, come i Penati, il fuoco sacro e il Palladio messi in salvo da Enea. Il penus era verosimilmente posto dietro al focolare, e quest’ultimo collocato davanti all’entrata dell’aedes (il tempio).
L ‘unica sede di una aedes Vestae storicamente conosciuta è quella del Foro.
Distrutto al tempo della catastrofe gallica al principio del secolo IV, e poi ricostruito, I ‘edificio circolare non fu risparmiato dal fuoco divoratore : incendiatosi nel 241 , sfuggì appena a nuove fiamme nel 210. Abbellito da Augusto, il santuario bruciò ancora nel 64 sotto Nerone e nel 191 sotto Commodo. Settimio Severo e Caracalla Io ricostruirono; Teodosio lo chiuse nel 394 dopo la disfatta di Eugenio. L’edificio sopravvisse però, quasi intatto, fino al XVI secolo ; ne restano utili disegni di quel tempo.
Distrutto al tempo della catastrofe gallica al principio del secolo IV, e poi ricostruito, I ‘edificio circolare non fu risparmiato dal fuoco divoratore : incendiatosi nel 241 , sfuggì appena a nuove fiamme nel 210. Abbellito da Augusto, il santuario bruciò ancora nel 64 sotto Nerone e nel 191 sotto Commodo. Settimio Severo e Caracalla Io ricostruirono; Teodosio lo chiuse nel 394 dopo la disfatta di Eugenio. L’edificio sopravvisse però, quasi intatto, fino al XVI secolo ; ne restano utili disegni di quel tempo.
Accensione del fuoco
Per accendere il fuoco sacro il pontefice massimo verberava le Vestali che successivamente trivellavano (terebrare) una tavoletta proveniente da un arbor felix, probabilmente quello posto nel recinto e noto dall’iconografia antica(Macr., Sat. 1.12.6.).
Quando una delle vergini riusciva a far scaturire la fiamma, questa veniva trasportata all’interno dell’aedes su di un vassoio èneo (si noti la somiglianza con quanto prescritto nelle Tavole eugubine), dando così vita al fuoco del nuovo anno(Paul. Fest., 94L.). Si tratta del processo, noto da tempo agli etnologi, del fire mill, ossia dell’accensione (o riaccensione) del fuoco perenne praticata presso molte culture antiche sempre per frizione e mai per traslazione. Pertanto:
1. il I di marzo era rinnovato, con le modalità note, il focolare di Vesta;
2. il focolare si trovava all’interno del tempio;
3. sempre il I di marzo era acceso anche il fuoco degli altari di Vesta;
4. da questi, ancora nello stesso giorno, i cittadini romani prelevavano il fuoco necessario a riaccendere il loro focolare.
Per accendere il fuoco sacro il pontefice massimo verberava le Vestali che successivamente trivellavano (terebrare) una tavoletta proveniente da un arbor felix, probabilmente quello posto nel recinto e noto dall’iconografia antica(Macr., Sat. 1.12.6.).
Quando una delle vergini riusciva a far scaturire la fiamma, questa veniva trasportata all’interno dell’aedes su di un vassoio èneo (si noti la somiglianza con quanto prescritto nelle Tavole eugubine), dando così vita al fuoco del nuovo anno(Paul. Fest., 94L.). Si tratta del processo, noto da tempo agli etnologi, del fire mill, ossia dell’accensione (o riaccensione) del fuoco perenne praticata presso molte culture antiche sempre per frizione e mai per traslazione. Pertanto:
1. il I di marzo era rinnovato, con le modalità note, il focolare di Vesta;
2. il focolare si trovava all’interno del tempio;
3. sempre il I di marzo era acceso anche il fuoco degli altari di Vesta;
4. da questi, ancora nello stesso giorno, i cittadini romani prelevavano il fuoco necessario a riaccendere il loro focolare.
I doveri delle virgines
Le Vestali, alternandosi, dovevano sorvegliare che il fuoco sacro, simbolo della continuità della vita, ardesse costantemente nell’Atrium Vestae.
L’aedes vestae veniva solennemente scopata una volta all ‘anno, il 15 giugno. Quel giorno, dice Varrone (L. L. 6, 32), è chiamalo Quando) Stercus) D(elatum) F(as) ; Io stercus scopato viene trasportato, passando per il clivus Capitolinus, in un luogo determinato; Festo precisa: lo stercus di cui si è ripulito il santuario viene portato nel vicolo cieco che si trova pressappoco a metà del clivus Capitolinus (in angiportum medium fere clivi C.), chiuso dalla Porta Stercoraria. Infine, stando alle parole di Ovidio, quei purgamina Vestae finivano nelle acque del Tevere (F. 6, 7 1 3-7 14).
Durante i giorni di ripulitura solenne, dal 7 al 15 giugno, l’accesso all’edificio era consentito alle donne, che vi entravano scalze. Al di fuori di questo periodo, solo le Vestali e il pontefice massimo vi erano ammessi, e inoltre il luogo più sacro, il penus, era vietato al pontefice.
La salsa Mola
Sempre in qualità di focolare della Città, l’aedes ospita insieme con il fuoco un’attività domestica: le Vestali vi preparano e vi conservano la salamoia sacra che serve a salare la mola, farina preparata essa pure dalle Vestali a giorni fissi, che deve essere sparsa (immolare) su ogni animale condotto al sacrificio.Ecco come Verrio Fiacco, seguendo Veranio definisce quella muries: è una salamoia preparata con sale non raffinato, sminuzzato nel mortaio, versato in un vaso di terra, poi coperto di gesso e cotto nel forno; in seguito le vergini Vestali lo tagliano con una sega di ferro, e lo gettano nella parte esterna del penus dell’aedes Vestae; esse vi aggiungono poi acqua sorgiva, o comunque acqua non proveniente dall’acquedotto, e infine utilizzano il composto nei sacrifici.
L''acqua santa di Roma,
della sorgente Egeria, accompagnerà il fuoco sacro tenuto vivo dalle vestali, in tutte le provincie romane, per portare protezione e benedizione.
Le vestali attingevano l'acqua santa dalla fonte delle Camene, situata fuori Porta Capena, sulla via Appia, presso S. Sisto Vecchio. Questo era uno dei loro doveri, insieme alla cura del fuoco sacro e alla custodia dei sacri cimeli nell'Aedes Vestae.
della sorgente Egeria, accompagnerà il fuoco sacro tenuto vivo dalle vestali, in tutte le provincie romane, per portare protezione e benedizione.
Le vestali attingevano l'acqua santa dalla fonte delle Camene, situata fuori Porta Capena, sulla via Appia, presso S. Sisto Vecchio. Questo era uno dei loro doveri, insieme alla cura del fuoco sacro e alla custodia dei sacri cimeli nell'Aedes Vestae.
Le Vestali presenziavano a numerose feste
con compiti che ricordavano quelli domestici a cui erano tenute le donne non consacrate, e che consistevano in riti di fertilità e soprattutto di purificazione. Elementi che, a ben guardare, rimandano non solo alla figura della vergine sacra, ma anche alla sposa, come si evince anche dal rimando testuale ad “amata” (o “Amata”), appellativo che al minuscolo veniva attribuito dal marito alla sposa e al maiuscolo era il nome della moglie del re Latino, madre di Lavinia, futura moglie dell’eroe troiano Enea.
Il primo giorno dell’anno (1 marzo)
le Vestali rinnovavano il fuoco sacro con lo sfregamento di rami di arbores felices, detti così perché nascevano da semi, producevano frutti e potevano essere coltivati, come querce, faggi e lecci. E ancora alle Idi di Maggio (15 maggio), festa degli Argei, gettavano da un ponte 27 pupazzi imbevuti di impurità dei rioni; e raccoglievano acqua alla fonte della ninfa Egeria con cui aspergevano l’aedes Vestae (il tempio di Vesta). L’acqua era raccolta con un contenitore, il vas futile, dalla bocca larga e il fondo stretto, dunque modellato in maniera da non poter essere appoggiato a terra.
Crimen incesti. Le punizioni delle vestali
Alle Vestali era richiesto un comportamento ‘professionale’ e rigoroso. I benefici e i privilegi loro assicurati corrispondevano ad obblighi indiscutibili ed inviolabili:
a) conservare debitamente acceso il fuoco di Vesta;
b) mantenere la loro verginità ( tale violazione veniva definita incestum)
In genere, per le ordinarie infrazioni alle regole commesse dalle Vestali, era prevista la frusta: in particolare, qualora una Vestale particolarmente negligente avesse lasciato addirittura spegnere il fuoco sacro, essa sarebbe stata sottoposta, salvo pena più dura, a fustigazione eseguita per ordine del pontefice massimo da un littore, o personalmente dello stesso sacerdote.
Plutarco racconta infatti che «talvolta lo stesso pontefice massimo punisce la colpevole, nuda dietro un velo disteso in un luogo oscuro» (Plutarco Numa 10, 8.).
Ben più gravi sicuramente le conseguenze per la Vestale che avesse violato l’obbligo di castità:
Alle Vestali era richiesto un comportamento ‘professionale’ e rigoroso. I benefici e i privilegi loro assicurati corrispondevano ad obblighi indiscutibili ed inviolabili:
a) conservare debitamente acceso il fuoco di Vesta;
b) mantenere la loro verginità ( tale violazione veniva definita incestum)
In genere, per le ordinarie infrazioni alle regole commesse dalle Vestali, era prevista la frusta: in particolare, qualora una Vestale particolarmente negligente avesse lasciato addirittura spegnere il fuoco sacro, essa sarebbe stata sottoposta, salvo pena più dura, a fustigazione eseguita per ordine del pontefice massimo da un littore, o personalmente dello stesso sacerdote.
Plutarco racconta infatti che «talvolta lo stesso pontefice massimo punisce la colpevole, nuda dietro un velo disteso in un luogo oscuro» (Plutarco Numa 10, 8.).
Ben più gravi sicuramente le conseguenze per la Vestale che avesse violato l’obbligo di castità:
la condanna prevista era infatti la morte, con modalità di esecuzione davvero terribili per la colpevole che veniva infatti sepolta viva.
In particolare la Vestale, spogliata dalle insegne del suo ministero veniva stesa su una lettiga, stretta da cinghie e circondata da pesanti tende così da attutirne le grida, attraversava il foro e giungeva al luogo della sepoltura davanti alla porta Collina, nel Campus Sceleratus (Liv., urb. cond. 8.15.7-8, e Fest. verb. sign., sv. ‘Sceleratus campus ’ (Lindsay², p. 494). Dietro di lei, chiusa in un silenzioso dolore, seguiva una processione di parenti ed amici che, impotenti, l’accompagnavano fino al luogo del supplizio. Qui il pontefice massimo, levate le mani al cielo, pronunciava preghiere dalle parole misteriose.
Quindi, sciolti i nastri che la tenevano legata, faceva scendere la Vestale dalla lettiga, conducendola sulla scala che portava nel cubiculum, una stanza sotterranea con un letto, una coperta, una lampada accesa, un po’ di pane, olio, latte e acqua(Plin., ep. 4.11.9.) . La fossa veniva poi livellata con un cumulo di terra, in modo che nessun segno potesse identificare il luogo. Non doveva rimanere alcuna traccia della sua esistenza. Non veniva eretto alcun monumento funebre in suo onore, non le veniva dedicata alcuna cerimonia religiosa. Solo una lugubre processione testimoniava una costernazione generale e composta. Il pontefice massimo, insieme agli altri sacerdoti, si allontanava senza più voltarsi indietro: se lo avesse fatto sarebbe stato contaminato da quel corpo peccaminoso.
In particolare la Vestale, spogliata dalle insegne del suo ministero veniva stesa su una lettiga, stretta da cinghie e circondata da pesanti tende così da attutirne le grida, attraversava il foro e giungeva al luogo della sepoltura davanti alla porta Collina, nel Campus Sceleratus (Liv., urb. cond. 8.15.7-8, e Fest. verb. sign., sv. ‘Sceleratus campus ’ (Lindsay², p. 494). Dietro di lei, chiusa in un silenzioso dolore, seguiva una processione di parenti ed amici che, impotenti, l’accompagnavano fino al luogo del supplizio. Qui il pontefice massimo, levate le mani al cielo, pronunciava preghiere dalle parole misteriose.
Quindi, sciolti i nastri che la tenevano legata, faceva scendere la Vestale dalla lettiga, conducendola sulla scala che portava nel cubiculum, una stanza sotterranea con un letto, una coperta, una lampada accesa, un po’ di pane, olio, latte e acqua(Plin., ep. 4.11.9.) . La fossa veniva poi livellata con un cumulo di terra, in modo che nessun segno potesse identificare il luogo. Non doveva rimanere alcuna traccia della sua esistenza. Non veniva eretto alcun monumento funebre in suo onore, non le veniva dedicata alcuna cerimonia religiosa. Solo una lugubre processione testimoniava una costernazione generale e composta. Il pontefice massimo, insieme agli altri sacerdoti, si allontanava senza più voltarsi indietro: se lo avesse fatto sarebbe stato contaminato da quel corpo peccaminoso.
In questi casi la Vestale non poteva essere perdonata, ma neppure uccisa da mani umane, in quanto sacra alla dea.
Se perdeva la verginità la Vestale veniva dunque frustata e poi vestita di abiti funebri e velata. “Veniva portata sui feretri destinati al trasporto dei defunti in lugubre pompa” (Dionigi di Alicarnasso, “Antichità romane”, II, 67) o su una lettiga chiusa e protetta da sguardi indiscreti (Plutarco). Secondo il racconto di Dionigi, dunque, la Vestale veniva seguita da un corteo (pompa funebre): è quello dei parenti in lacrime, che, benché lei sia ancora viva, già la piangono come morta.
Nella descrizione di Plutarco (Vite parallele, Numa, X, 10-11), “la portano attraverso il Foro; tutti si ritraggono in silenzio e l’accompagnano muti con una terribile costernazione; e non c’è spettacolo più agghiacciante, né giorno più lugubre per la Città”.
La sua meta era il Campus sceleratus,
situato presso la Porta Collina, sul Quirinale. Là il Pontefice Massimo la faceva scendere e pronunciava parole misteriose. La Vestale condannata veniva lasciata in una sepoltura con una lampada e una piccola provvista di pane, acqua, latte e olio, il sepolcro veniva chiuso e la sua memoria cancellata. Il complice dell’incestus subiva, invece, la pena degli schiavi: fustigazione a morte.
Per i Romani, come sappiamo, la saldezza della res publica dipendeva anche dai comportamenti licenziosi delle donne, la cui condizione appare il riflesso di tale paura. Non è casuale che la licentia femminile venisse denunciata da prodigia che rivelavano l’ira divina e che richiedevano l’espiazione. Come riporta Augusto Fraschetti nel suo articolo “La sepoltura delle Vestali e la città” (Du chatiment dans la cité), Cicerone nelle sue orazioni “In Catilinam” (III, 9) fa dire al complice di Catilina, Publio Cornelio Lentulo Sura, che l’anno 63 era un anno fatale per la res publica.
Ecco le sue parole:
“Lentulum autem sibi confirmasse ex fatis Sibyllinis haruspicumque responsis se esse tertium illum Cornelium ad quem regnum huius urbis atque Imperium pervenire esset necesse: Cinnam ante se et Sullam fuisse. Eundemque dixisse fatalem hunc annum esse ad interitum huius urbis atque imperii qui esset annus decimus post virginum absolutionem, post Capitoli autem incensionem vicesimus”.
“Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell’anno in corso, il decimo dall’assoluzione delle vergini (Vestali) e il ventesimo dall’incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l’ineluttabile caduta di Roma e dell’impero”.
Lentulo Sura ricorda come eventi epocali l’incendio del Campidoglio dell’anno 83 ma anche l’assoluzione delle vergini vestali, Licinia e Fabia, forse amanti di Crasso e Catilina, che risaliva a 10 anni prima.
Non pochi sono i casi di condanna delle Vestali a cui attingere:
Per i Romani, come sappiamo, la saldezza della res publica dipendeva anche dai comportamenti licenziosi delle donne, la cui condizione appare il riflesso di tale paura. Non è casuale che la licentia femminile venisse denunciata da prodigia che rivelavano l’ira divina e che richiedevano l’espiazione. Come riporta Augusto Fraschetti nel suo articolo “La sepoltura delle Vestali e la città” (Du chatiment dans la cité), Cicerone nelle sue orazioni “In Catilinam” (III, 9) fa dire al complice di Catilina, Publio Cornelio Lentulo Sura, che l’anno 63 era un anno fatale per la res publica.
Ecco le sue parole:
“Lentulum autem sibi confirmasse ex fatis Sibyllinis haruspicumque responsis se esse tertium illum Cornelium ad quem regnum huius urbis atque Imperium pervenire esset necesse: Cinnam ante se et Sullam fuisse. Eundemque dixisse fatalem hunc annum esse ad interitum huius urbis atque imperii qui esset annus decimus post virginum absolutionem, post Capitoli autem incensionem vicesimus”.
“Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell’anno in corso, il decimo dall’assoluzione delle vergini (Vestali) e il ventesimo dall’incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l’ineluttabile caduta di Roma e dell’impero”.
Lentulo Sura ricorda come eventi epocali l’incendio del Campidoglio dell’anno 83 ma anche l’assoluzione delle vergini vestali, Licinia e Fabia, forse amanti di Crasso e Catilina, che risaliva a 10 anni prima.
Non pochi sono i casi di condanna delle Vestali a cui attingere:
il primo fu quello della vestale Pinaria, condannata da Tarquinio Prisco in età monarchica. In età repubblicana possiamo annoverare il caso della vestale Orbilia (472 a.C.), mandata a morte per inedia perché macchiatasi di incestus e perché colpevole della pestilenza che imperversava in città; oppure il caso di Tuccia che, nel 230 a.C., fu accusata di incestus, ma si liberò per l’intervento di Vesta dall’ accusa infamante. Chiese e ottenne dai Pontefici di recarsi, circondata dalla folla, sulla sponda del Tevere. Lì, dopo aver pregato Vesta, immerse un crivello nell’acqua e ritornò in città. Poi versò l’acqua dal crivello, miracolosamente pieno, ai piedi dei Pontefici. Non sappiamo cosa accadde di Tuccia, se fu assolta o condannata, ma la storia (se storia è) ci dice che era consuetudine nel mondo romano, in caso di accusa ritenuta ingiusta, sperare nell’intervento divino.
Una storia simile è stata quella che ha avuto come protagonista Emilia, che, accusata di non aver vigilato sul fuoco sacro, si strappò di dosso un lembo della sua veste e la gettò sulle ceneri ormai spente. Per miracolo, dalle ceneri si sprigionò la fiamma ed Emilia fu salva.
Singolare fu la storia, dal finale tragico, della vestale Clodia Leta: accusata di incestus dall’imperatore Caracalla, che in realtà voleva sedurla, la giovane donna scelse la morte per inedia piuttosto che cedere alle voglie dell’imperatore. Altre storie, invece, ci rimandano immagini di donne venute meno ai loro doveri e che sono state punite per questo nella maniera più atroce. Una di loro, Capparonia, scelse il suicidio per non dover morire di stenti murata viva.
Ma, al di là delle storie, alcune dall’ esito tragico, altre a lieto fine, resta un’analogia da ri-instaurare: quella tra vestale e sposa romana. L’analogia, infatti, non si ferma a quanto precedentemente scritto, ma si estende anche alla pena capitale inflitta in caso di adulterium o stuprum (incestus per la vestale). Se una donna sposata tradiva il marito (adulterium) o intratteneva rapporti sessuali al di fuori di una relazione coniugale (stuprum), le era riservata dal marito nel primo caso e dal padre nel secondo la stessa pena: la morte per inedia in uno spazio sotterraneo- riproduzione di una casa- con accanto gli stessi, scarni, compagni di sventura: poche provviste alimentari e una fiaccola.
Una storia simile è stata quella che ha avuto come protagonista Emilia, che, accusata di non aver vigilato sul fuoco sacro, si strappò di dosso un lembo della sua veste e la gettò sulle ceneri ormai spente. Per miracolo, dalle ceneri si sprigionò la fiamma ed Emilia fu salva.
Singolare fu la storia, dal finale tragico, della vestale Clodia Leta: accusata di incestus dall’imperatore Caracalla, che in realtà voleva sedurla, la giovane donna scelse la morte per inedia piuttosto che cedere alle voglie dell’imperatore. Altre storie, invece, ci rimandano immagini di donne venute meno ai loro doveri e che sono state punite per questo nella maniera più atroce. Una di loro, Capparonia, scelse il suicidio per non dover morire di stenti murata viva.
Ma, al di là delle storie, alcune dall’ esito tragico, altre a lieto fine, resta un’analogia da ri-instaurare: quella tra vestale e sposa romana. L’analogia, infatti, non si ferma a quanto precedentemente scritto, ma si estende anche alla pena capitale inflitta in caso di adulterium o stuprum (incestus per la vestale). Se una donna sposata tradiva il marito (adulterium) o intratteneva rapporti sessuali al di fuori di una relazione coniugale (stuprum), le era riservata dal marito nel primo caso e dal padre nel secondo la stessa pena: la morte per inedia in uno spazio sotterraneo- riproduzione di una casa- con accanto gli stessi, scarni, compagni di sventura: poche provviste alimentari e una fiaccola.
La stessa morte che veniva inflitta alle donne che bevevano vino.
Fine del sacerdozio
La chiusura dei Templi, disposta da Teodosio il Grande nel 391, e, prima ancora, la rinuncia, in un anno imprecisato, da parte dell’imperatore Graziano, al titolo di pontifex maximus (Zos., hist. nov. 4.36.5, l’anno di tale rinuncia è controverso: alcuni lo individuano nel 375, altri nel 376), rappresentano due momenti emblematici, che simboleggiano la fine sacerdozio delle Vestali e del loro ruolo politico-religioso. Quest’ultima decisione, in particolare, segnò per sempre la scissione tra posizione imperatoria e gestione della religio publica. L’imperatore pose termine al finanziamento dei culti tradizionale. Il fisco non avrebbe più provveduto alle esigenze dei sacerdozi pagani (Symm., rel. 3.7, e Ambr. ep. 17.3 e 57.2.): in effetti le sovvenzioni, fino ad allora destinate alle Vestali, furono in parte impiegate per provvedere alle spese di una corporazione urbana
I sacerdoti si dispersero, le dimore degli Dèi furono abbandonate, le Vestali furono allontanate dal loro atrium. La legislazione, che regolava il loro reclutamento, venne pertanto abolita. Alcune sacerdotesse morirono, altre abbandonarono il sacerdozio. Dopo oltre mille anni il fuoco perenne dell’altare si spense. L’anno successivo, tuttavia, quando Eugenio fece ricollocare l’altare della Vittoria nella Curia, una flebile speranza si riaccese nel cuore dei pagani: tornò perfino a celebrarsi ancora una volta la festa dei Vestalia.
Ultima Vestale?
Prudenzio parla di una Vestale, Claudia, che si era convertita al cristianesimo nel tardo IV sec. Nell’inno dedicato a S. Lorenzo, viene descritta entrare nel santuario del martire: aedemque, Laurenti, tuam Vestalis intrat Claudia. Si tratta dell’unico caso certo di abbandono del sacerdozio pagano per conversione(parla di questo argomento LECLERCQ, H.: «Vestale chrétienne», in Dictionnaire dArchéologie chrétienne et de liturgie, Paris, pp. 2988-2989). Se è alquanto discutibile che questa vada identificata con la Vestale Massima a cui fu dedicata una statua nel 364 (vid. IL 3), è probabile che sia la stessa Claudia, sepolta proprio nella basilica di S. Lorenzo(l’iscrizione funeraria lì rinvenuta (JLCVl, 163) cita una Claudia, di fede cristiana e di rango senatorio, ma non fa accenno (forse volutamente) alla precedente condizione di Vestale.
La chiusura dei Templi, disposta da Teodosio il Grande nel 391, e, prima ancora, la rinuncia, in un anno imprecisato, da parte dell’imperatore Graziano, al titolo di pontifex maximus (Zos., hist. nov. 4.36.5, l’anno di tale rinuncia è controverso: alcuni lo individuano nel 375, altri nel 376), rappresentano due momenti emblematici, che simboleggiano la fine sacerdozio delle Vestali e del loro ruolo politico-religioso. Quest’ultima decisione, in particolare, segnò per sempre la scissione tra posizione imperatoria e gestione della religio publica. L’imperatore pose termine al finanziamento dei culti tradizionale. Il fisco non avrebbe più provveduto alle esigenze dei sacerdozi pagani (Symm., rel. 3.7, e Ambr. ep. 17.3 e 57.2.): in effetti le sovvenzioni, fino ad allora destinate alle Vestali, furono in parte impiegate per provvedere alle spese di una corporazione urbana
I sacerdoti si dispersero, le dimore degli Dèi furono abbandonate, le Vestali furono allontanate dal loro atrium. La legislazione, che regolava il loro reclutamento, venne pertanto abolita. Alcune sacerdotesse morirono, altre abbandonarono il sacerdozio. Dopo oltre mille anni il fuoco perenne dell’altare si spense. L’anno successivo, tuttavia, quando Eugenio fece ricollocare l’altare della Vittoria nella Curia, una flebile speranza si riaccese nel cuore dei pagani: tornò perfino a celebrarsi ancora una volta la festa dei Vestalia.
Ultima Vestale?
Prudenzio parla di una Vestale, Claudia, che si era convertita al cristianesimo nel tardo IV sec. Nell’inno dedicato a S. Lorenzo, viene descritta entrare nel santuario del martire: aedemque, Laurenti, tuam Vestalis intrat Claudia. Si tratta dell’unico caso certo di abbandono del sacerdozio pagano per conversione(parla di questo argomento LECLERCQ, H.: «Vestale chrétienne», in Dictionnaire dArchéologie chrétienne et de liturgie, Paris, pp. 2988-2989). Se è alquanto discutibile che questa vada identificata con la Vestale Massima a cui fu dedicata una statua nel 364 (vid. IL 3), è probabile che sia la stessa Claudia, sepolta proprio nella basilica di S. Lorenzo(l’iscrizione funeraria lì rinvenuta (JLCVl, 163) cita una Claudia, di fede cristiana e di rango senatorio, ma non fa accenno (forse volutamente) alla precedente condizione di Vestale.